Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 11756 del 06/12/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 11756 Anno 2014
Presidente: CARMENINI SECONDO LIBERO
Relatore: IASILLO ADRIANO

SENTENZA
Sul ricorso proposto dall’Avvocato Stefano Mannironi, quale difensore di
Beye Sidy (n. il 02/11/1965) avverso la sentenza della Corte d’appello di
Cagliari – Sezione distaccata di Sassari – in data 06/02/2013.
Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal Consigliere
Adriano lasillo.
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, dottoressa Elisabetta
Cesqui, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
OSSERVA:

GR’

Data Udienza: 06/12/2013

Con sentenza del 04/03/2011, il Tribunale Nuoro dichiarò Beye Sidy
responsabile dei reati di ricettazione e di commercio di prodotti con segni
falsi e lo condannò pena di anni 1 e mesi 7 di reclusione ed Euro 200,00.
Avverso tale pronunzia l’imputato propose gravame ma la Corte
d’appello di Cagliari – Sezione distaccata di Sassari – con sentenza del
06/02/2013, confermò la decisione di primo grado.

della motivazione in ordine: al rigetto dell’eccezione di nullità della sentenza
per notifica dell’avviso di cui all’art. 415 bis del c.p.p. alla dimora dell’imputato
e non già al domicilio eletto presso il suo difensore di fiducia; al rigetto
dell’eccezione di nullità relativa all’omessa traduzione nella lingua
senegalese dell’avviso di cui all’art. 415 bis del c.p.p. e del decreto di
citazione a giudizio; al rigetto dell’eccezione di nullità del decreto di citazione
a giudizio per omessa notifica alle P.O. dei reati; alla ritenuta disponibilità
dell’imputato degli oggetti sequestrati; alla ritenuta sussistenza del reato di
cui all’art. 474 c.p., nonostante la grossolanità della falsificazione e il fatto
che gli orologi fossero contenuti in bustine di plastica e non negli astucci
originali; rileva, poi, che ovviamente se non si ravvisasse il reato di cui all’art.
474 del c.p. non sussisterebbe neppure il reato di ricettazione; al trattamento
sanzionatorio; in ordine all’errato conteggio operato per l’aumento ex art. 81
del cod. penale.
Il difensore del ricorrente conclude, pertanto, per l’annullamento
dell’impugnata sentenza.

motivi della decisione

Tutte le eccezioni di nullità sono infondate. Infatti, per quanto riguarda
la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini, ex art. 415 bis del c.p.p.,
si deve rilevare che risulta pacificamente dagli atti — come, d’altronde,
affermato dai Giudici di merito e non contestato dal ricorrente — che la
notifica di tale atto è stata effettuata sia al difensore di fiducia dell’imputato presso il quale questi aveva eletto domicilio — sia all’imputato presso la sua
abitazione. Quindi vi è la prova che sia il difensore domiciliatario sia
l’imputato sono stati correttamente avvisati e posti in condizione di
approntare le opportune difese. Si deve ricordare che questa Corte Suprema

Ricorre per cassazione l’imputato deducendo la manifesta illogicità

ha affermato sul punto il principio — condiviso dal Collegio — secondo il quale
non è nulla, ma meramente irrituale, la notificazione avvenuta mediante
consegna al difensore di fiducia domiciliatario di un’unica copia dell’atto da
notificare, con l’espressa indicazione in esso dei due destinatari – imputato e
difensore – ed accompagnata dall’ulteriore annotazione, da parte dell’ufficiale
giudiziario, secondo cui il difensore “riceve l’atto anche per l’imputato” (Sez.

Nella motivazione della predetta sentenza si legge che le modalità con cui è
stata effettuata la citazione in giudizio dell’imputato (notificazione al difensore
di un solo decreto di citazione) è stata idonea a produrre lo scopo dell’atto,
cioè la sua effettiva conoscenza (decreto di citazione) e – tenuto conto del
rapporto fiduciario esistente tra l’imputato e il difensore intervenuto nel
giudizio contumaciale di appello – il pieno esercizio del diritto di difesa del
prevenuto. Non è revocabile in dubbio, infatti, che sia stato in concreto
conseguito lo scopo informativo, proprio dell’incombente notificatorio, sugli
sviluppi del processo penale portati a conoscenza dell’imputato. Scopo
raggiunto con l’avvenuta consegna (notifica) del decreto di citazione,
sebbene in unica copia, recante – però – espressa indicazione dei due
destinatari dell’atto (imputato e difensore), al difensore di fiducia del
prevenuto, già solo per questa circostanza gravato dall’onere deontologico di
contattare l’assistito in vista del giudizio di appello, e consegnatario ex lege
del decreto. e chiaro, quindi, che la consegna in sede di notificazione di una
sola copia del decreto di citazione e non anche di una seconda copia uguale
alla prima da destinarsi all’imputato domiciliato presso il difensore
notificatario dell’atto (copia agevolmente fotoriproducibile) può integrare, al
più, una irritualità non incidente sulla adempiuta funzione della notifica
dell’atto di citazione, ma non certo l’omessa citazione dell’imputato
sanzionata da nullità assoluta ed insanabile (cfr.: Sez. 6, Sentenza n. 36020
del 24/05/2011 Ud. – dep. 04/10/2011 – Rv. 250777). Nel caso di cui ci
occupiamo oggi oltre ad essere stato notificato al difensore domiciliatario
l’atto è stato notificato anche all’imputato; imputato che attraverso il suo
difensore — Avvocato Mannironi – all’udienza del 04.02.2008 ha chiesto un
rinvio facendo presente “che l’imputato è attualmente in Senegal e chiede un
rinvio per munirsi di procura speciale

e chiedere un rito alternativo”,

6, Sentenza n. 43532 del 30/10/2012 Ud. – dep. 09/11/2012 – Rv. 253822).

confermando così la piena conoscenza del procedimento. Solo dopo vari
rinvii il difensore eccepisce la nullità di cui sopra. Pertanto a maggior ragione
è chiara l’infondatezza dell’eccezione nel caso di specie.
Per quanto riguarda la mancata traduzione Alt. lingua senegalese
dell’avviso ex art. 415 bis del c.p.p. e del decreto di citazione a giudizio, si
deve rilevare che i giudici di merito hanno sottolineato che dagli atti non solo

chiaramente che l’imputato la conosce. Infatti, la P.G. ha riferito che dopo il
suo fermo e il sequestro della merce l’imputato ha assunto “un atteggiamento
di collaborazione” (si veda pagina 3 della sentenza di primo grado); inoltre, in

sede di convalida del fermo il ricorrente è stato reso edotto dell’accusa e dei
suoi diritti ed egli si è avvalso della facoltà di non rispondere senza chiedere
l’assistenza dell’interprete. Infine, ha eletto domicilio presso il suo difensore
anche qui senza l’ausilio dell’interprete (si veda pagina 6 dell’impugnata
sentenza). Orbene questa Suprema Corte ha affermato che l’elezione di
domicilio da parte di straniero non a conoscenza della lingua italiana
necessita, per la sua validità, dell’assistenza dell’interprete (Sez. 1, Sentenza
n. 26705 del 13/06/2013 Cc. – dep. 19/06/2013 – Rv. 255972). Orbene il
ricorrente non solo non ha mai eccepito la nullità dell’elezione del domicilio
per la mancanza di assistenza dell’interprete (nullità a regime intermedio; si
veda Sez. 1, Sentenza n. 32000 del 31/05/2013 Ud. – dep. 23/07/2013 – Rv.
256113), ma anzi la ritiene perfettamente regolare tanto da avvalersene per
sollevare l’eccezione di nullità relativa alla notifica al domicilio dell’imputato
sopra esaminata. Per concludere, su questa seconda infondata eccezione, si
deve ricordare che il diritto accordato all’imputato, che non sia in grado di
comprendere la lingua italiana, di essere assistito gratuitamente da un
interprete e che obbliga alla traduzione degli atti processuali, non nasce
automaticamente dalla condizione di non cittadinanza dell’imputato, ma
dall’oggettiva constatazione dell’impossibilità o difficoltà di comprendere la
lingua italiana, impossibilità che deve essere dichiarata e dimostrata (Sez. 2,
Sentenza n. 40660 del 09/10/2012 Cc. – dep. 17/10/2012 – Rv. 253841).
Inoltre che l’accertamento relativo alla conoscenza da parte dell’imputato
della lingua italiana spetta al giudice di merito, costituendo un’indagine di
mero fatto non censurabile in sede di legittimità se motivato — come nel caso

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non emerge che il Beye Sidy non conosca la lingua italiana, ma anzi emerge

di specie – in termini corretti ed esaustivi (Sez. 6, Sentenza n. 28697 del
17/04/2012 Ud. – dep. 17/07/2012 – Rv. 253250).
Per quanto riguarda l’infondatezza dell’eccepita nullità relativa
all’omessa notifica alle PP.00. del decreto di rinvio a giudizio è sufficiente
ricordare che la nullità derivante dall’omessa citazione della persona offesa
non può essere eccepita dall’imputato, poiché egli manca di interesse

consentire l’eventuale costituzione di parte civile al destinatario della
citazione (Sez. 2, Sentenza n. 12765 del 11/03/2011 Ud. – dep. 29/03/2011 Rv. 250051).
Infondata è, anche, la generica doglianza sull’errore di calcolo della
pena, verificatosi in primo grado. Rileva, invero, il ricorrente che nella
motivazione della sentenza di primo grado si fissa quale pena base anni 1 e
mesi 4 di reclusione ed Euro 150,00 di multa e poi si indica quale aumento
per la continuazione un mese e si determina, però, quale pena finale quella
di anni 1 e mesi 7 di reclusione ed Euro 200,00; il ricorrente afferma, allora,
che il calcolo “appare certamente errato e perciò stesso da emendare”. In
primo luogo si deve rilevare che tale doglianza non è stata proposta con l’atto
di appello ed è stata presentata per la prima volta con il ricorso per
Cassazione. Orbene è evidente che tale questione non può essere proposta
per la prima volta avanti a questa Corte di legittimità. Infatti, questa Corte ha
affermato che la possibilità, per la Corte di cassazione di procedere
direttamente alla determinazione della pena a norma dell’art. 620, comma
primo, lett. I), cod. proc. pen., è preclusa allorché l’operazione comporti
particolari accertamenti o valutazioni discrezionali su circostanze e punti
controversi, suscettibili di non univoci apprezzamenti di fatto che rimangono,
in quanto tali, incompatibili con le attribuzioni del giudice di legittimità
(fattispecie nella quale si era in presenza di contraddizione tra la pena, come
risultante dal dispositivo, e il calcolo, articolato e complesso, contenuto in
motivazione; Sez. 4, Sentenza n. 41569 del 27/10/2010 Ud. – dep.
24/11/2010 – Rv. 248458). Inoltre, questa Suprema Corte ha affermato che è
inammissibile il motivo di impugnazione con cui venga dedotta addirittura una
violazione di legge che non sia stata eccepita nemmeno con l’atto di appello
(Sez. 3, Sentenza n. 21920 del 16/05/2012 Ud. – dep. 07/06/2012 – Rv.

all’osservanza della disposizione violata, il cui unico scopo è quello di

252773). Si deve, ancora, aggiungere che questa Corte in un caso nel quale
ad un imputato incensurato erano state concesse le attenuanti generiche ma
il trattamento sanzionatorio a costui riservato era stato del tutto eguale a
quello degli altri coimputati (ai quali non erano state riconosciute le predette
attenuanti) e, pertanto, se ne doleva con ricorso per Cassazione, ha
osservato “che nel ricorso non si spiega che tale doglianza sia stata già

dunque deve intendersi preclusa come proposta per la prima volta in
Cassazione, in quanto dipendente da valutazione di merito effettuata da quel
primo Giudice e non gravata da doglianza, e che dunque si intendono
coperte da giudicato per conseguenza dell’effetto devolutivo dell’appello.
Infatti, questa Corte ha stabilito che le questioni di diritto sostanziale possono
essere sollevate per la prima volta davanti alla Corte di Cassazione – così
venendo meno la preclusione per le violazioni di legge non dedotte con i
motivi di appello – sempre che si tratti di deduzioni di pura legittimità o di
questioni di puro diritto insorte dopo il giudizio di secondo grado in forza di
“jus superveniens” o di modificazione della disposizione normativa di
riferimento conseguente all’intervento demolitorio o additivo della Corte
costituzionale. In caso di sentenza interpretativa di rigetto della Corte
costituzionale, la quale ha il limitato effetto di far sorgere nel giudizio “a quo”
una preclusione endoprocessuale, ma non è munita dell’efficacia “erga
omnes” propria delle sentenze dichiarative di illegittimità costituzionale, i
poteri di cognizione della Cassazione non possono estendersi oltre i limiti
dell’effetto devolutivo del ricorso (Sez. 5, Sentenza n. 4911 del 21/07/1998
Cc. – dep. 19/08/1998 – Rv. 211822). Ha anche affermato, relativamente al
deducibile in Cassazione, che la facoltà attribuita alla Corte di Cassazione
dall’art. 609, comma 2, c.p.p., di decidere anche le questioni non dedotte nei
motivi di appello la cui deducibilità sia divenuta possibile solo
successivamente, si riferisce esclusivamente a questioni di solo diritto che
sorgano per ‘ius superveniens” ovvero in relazione a circostanze non emerse
prima, che però siano pur sempre di diritto (Sez. 1, Sentenza n. 5398 del
28/09/1993 Ud. – dep. 10/05/1994 – Rv. 197808). Tali principi trovano il
Collegio concorde, e pertanto ne consegue, per le indicate ragioni, anche la
inammissibilità del motivo di ricorso” (Sez. 4, Sentenza n. 4853 del

proposta in sede di atto di appello, e disattesa da questo secondo Giudice; e

03/12/2003 Ud. – dep. 06/02/2004 – Rv. 229374; si veda anche Sez. 3,
Sentenza n. 3445 del 17/12/2008 Cc. – dep. 26/01/2009 – Rv. 242169). Si
deve, poi, rilevare che non si è in presenza di una pena illegale; infatti posta
come base la pena di anni 1 e mesi 4 di reclusione ed Euro 150,00 di multa
l’aumento ex art. 81 del c.p. poteva essere di molto superiore a quello
effettuato in concreto dal Tribunale pari a soli mesi 3 di reclusione ed Euro

rilevabile di ufficio dalla Corte di Cassazione l’illegalità della pena solo
quando la stessa, così come indicata nel dispositivo, non sia per legge
irrogabile, ma non anche quando il trattamento sanzionatorio sia di per sé
complessivamente legittimo — come nel caso di cui ci occupiamo – ed il vizio
attenga al percorso argomentativo attraverso il quale il giudice è giunto alla
conclusiva determinazione dell’entità della condanna (fattispecie in cui
l’aumento per la recidiva, pur contenuto nei limiti astrattamente possibili per
legge, era stato disposto in misura maggiore rispetto a quello specificamente
indicato in motivazione; Sez. 2, Sentenza n. 22136 del 19/02/2013 Ud. – dep.
23/05/2013 – Rv. 255729). Comunque anche a prescindere da tutto ciò si
deve rilevare che nel dispositivo della sentenza si indica quale pena irrogata
all’imputato anni 1 e mesi 7 di reclusione ed Euro 200,00 di multa. Sul punto
questa Suprema Corte ha affermato il principio — condiviso dal Collegio — che
l’eventuale difformità tra dispositivo e motivazione della sentenza va risolta
nel senso della prevalenza del primo, che è l’atto con il quale si estrinseca la
volontà della legge nel caso concreto, sulla seconda, che ha solo una
funzione strumentale (Sez. 2, Sentenza n. 25530 del 20/05/2008 Ud. – dep.
20/06/2008 – Rv. 240649). Inoltre, si è confermato che il contrasto tra
dispositivo e motivazione non determina nullità della sentenza, ma si risolve
con la logica prevalenza dell’elemento decisionale su quello giustificativo,
potendosi eliminare eventualmente la divergenza mediante ricorso alla
semplice correzione dell’errore materiale della motivazione in base al
combinato disposto degli artt. 547 e 130 cod. proc. pen. (Sez. 5, Sentenza n.
22736 del 23/03/2011 Ud. – dep. 07/06/2011 – Rv. 250400). Ma nel caso di
specie non solo la pena di anni 1 e mesi 7 ed Euro 200,00 di multa è indicata
nel dispositivo della sentenza, ma anche nella parte motiva si specifica quale
pena finale anni 1 e mesi 7 di reclusione ed Euro 200,00 di multa; solo nel

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50,00 di multa. In proposito questa Suprema Corte ha precisato che è

percorso seguito per giungere a tale pena — indicato, tra l’altro, tra parentesi
— si indica quale aumento ex art. 81 del c.p. mesi 1 di reclusione e nulla si
dice sull’aumento della multa. E’ allora evidente che nel caso di specie non
può trovare applicazione il principio fissato da questa Suprema Corte – in
alcune sentenze successive a quelle sopra citate – secondo il quale sussiste
un contrasto apparente tra dispositivo e motivazione qualora si tratti di
difformità dovuta ad un errore materiale contenuto nel dispositivo,

palesemente rilevabile dalla motivazione, ove essa consenta di risalire
inequivocabilmente alla volontà del giudice. In tal caso è legittimo affermare
la prevalenza della motivazione sul dispositivo ed il giudice di legittimità può
procedere alla rettifica del dispositivo, previo annullamento senza rinvio, sul
punto in contestazione, della sentenza impugnata (Fattispecie in cui la
concessione della sospensione condizionale della pena, chiaramente e
correttamente enunciata in sede di motivazione, è stata omessa in
dispositivo; la S.C. ha ritenuto tale omissione dovuta ad un mero errore del
giudice di merito; Sez. 4, Sentenza n. 12920 del 19/09/2012 Ud. – dep.
20/03/2013 – Rv. 255497). Ancora in caso di contrasto tra dispositivo e
motivazione, qualora la divergenza dipenda da un errore materiale contenuto
nel dispositivo, e lo stesso sia obiettivamente riconoscibile, è legittimo il
ricorso alla motivazione per individuare l’errore medesimo ed eliminarne i
relativi effetti (fattispecie relativa ad un dispositivo di sentenza d’appello privo
della pronuncia sulla responsabilità dell’imputato, in cui la S.C. ha valorizzato
sia la conferma nel dispositivo delle statuizioni civilistiche di primo grado e
della condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali relative al
giudizio di appello, sia la parte della motivazione in cui il giudice era
pervenuto alla conferma della sentenza di condanna in primo grado; Sez. F,
Sentenza n. 35516 del 19/08/2013 Ud. – dep. 27/08/2013 – Rv. 257203). Non
è, quindi, applicabile il principio di cui sopra nel caso di cui ci occupiamo
perché – come già detto — sia nella motivazione sia nel dispositivo è stata
indicata la stessa pena finale irrogata al ricorrente. L’errore materiale è quindi
quello indicato nel calcolo esposto dal Tribunale tra parentesi (ove si indica,
quale aumento di pena, ex art. 81 c.p., mesi 1 anziché mesi 3), errore che si
individua facilmente effettuando la sottrazione della pena base detentiva
(anni 1 e mesi 4 di reclusione) alla pena finale detentiva (anni 1 e mesi 7 di
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reclusione). Errore del calcolo che viene confermato anche dal fatto che non
viene indicato quale è l’aumento per la continuazione per la pena pecuniaria;
aumento che, però, si determina facilmente effettuando la sottrazione della
pena base pecuniaria (Euro 150,00 di multa) alla pena finale pecuniaria
(Euro 200,00 di multa).
Infondata è anche la doglianza relativa al trattamento sanzionatorio. Per

frutto di una mera congettura difensiva l’affermazione che i giudici di merito
abbiano considerato il fatto di cui al capo A) “di particolare tenuità” (si veda
pagina 7 del ricorso). Infatti, né nella sentenza del Tribunale né in quella
della Corte di appello vi è una sola parola che possa far pensare che stia
stata riconosciuta l’attenuante di cui al secondo comma dell’art. 648 del c.p.;
anzi in entrambe le decisioni di merito si afferma la penale responsabilità del
ricorrente per i il reato sub A) così come contestato e cioè – come si rileva
con chiarezza dalla lettura del capo di imputazione — ricettazione senza alcun
richiamo al secondo comma (art. 648 c.p.). Si deve aggiungere che anzi nella
sentenza impugnata, a pagina 7, la Corte di appello si esprime in modo tale
da far pensare che non ritenga per nulla tenue il fatto (“… si trattava di ben
179 orologi griffati di ben 23 note marche …1. Né, infine, si può ricavare la

concessione dell’attenuante di cui al secondo comma dell’art. 648 del c.p.
solo dal fatto che la pena base fissata dal Tribunale per il reato di ricettazione
sia quella di anni 1 e mesi 4 di reclusione e quindi inferiore di un terzo alla
pena minima comminata nel primo comma dell’art. 648 del c.p.; infatti in
assenza di alcun accenno alle attenuanti si potrebbe allora ritenere che siano
state concesse le attenuanti generiche, la cui riduzione massima — pari ad un
terzo – porta proprio alla pena di anni 1 e mesi 4 di reclusione partendo dalla
pena minima di due anni. Proprio per l’assoluta mancanza di qualsiasi
riferimento, la deduzione del ricorrente è arbitraria; ciò che conta è che
l’imputato sia stato condannato per il reato di ricettazione, ad una pena
inferiore al minimo previsto. Su tale pena non è possibile alcun intervento
correttivo in assenza dell’impugnazione del Procuratore della Repubblica (in
forza del divieto di reformatio in pejus). In ogni caso si deve rilevare che la
Corte di appello fornisce un’esaustiva motivazione sul perché ritiene congrua
la pena facendo riferimento a ben due criteri di cui all’art. 133 del c.p.

quanto riguarda la congruità della pena si deve, in primo luogo, rilevare che è

(modalità ed entità del fatto e personalità del prevenuto gravato di due
precedenti penali per gli stessi fatti per i quali oggi si procede). La Corte
territoriale motiva in modo incensurabile anche perché ritiene di non dover
concedere le attenuanti generiche. In proposito alle doglianze sulla congruità
delle pena e sul diniego delle attenuanti generiche questa Suprema Corte ha
più volte affermato il principio — condiviso dal Collegio – che la
determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale

rientra nell’ampio potere discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il
suo compito anche se abbia valutato globalmente — e per quanto sopra
evidenziato non è certo questo il caso – gli elementi indicati nell’art. 133 cod.
pen. (quelli di cui sopra; Sez. 4, Sentenza n. 41702 del 20/09/2004 Ud. dep. 26/10/2004 – Rv. 230278). Tra l’altro nel caso di specie la pena
individuata è inferiore al medio edittale e questa Suprema Corte ha più volte
affermato che solo per l’irrogazione di una pena base pari o superiore al
medio edittale si richiede una specifica motivazione — che nel caso di specie
comunque vi è stata – in ordine ai criteri soggettivi ed oggettivi elencati
dall’art. 133 cod. pen., valutati ed apprezzati tenendo conto della funzione
rieducativa, retributiva e preventiva della pena (Sez. 3, Sentenza n. 10095
del 10/01/2013 Ud. – dep. 04/03/2013 – Rv. 255153).
Detto ciò si deve, allora, ricordare — per quanto riguarda la seconda
doglianza sul trattamento sanzionatorio – quale è la funzione delle attenuanti
generiche. In proposito questa Corte di Cassazione ha stabilito il principio —
condiviso dal Collegio — che in tema di attenuanti generiche, posto che la
ragion d’essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al
giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione
prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili
connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso
responsabile, ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può
mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il
giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni
possibile profilo, l’affermata insussistenza. Al contrario, è la suindicata
meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza,
di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che
sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento
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sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso,
adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di
specifica richiesta dell’imputato volta all’ottenimento delle attenuanti in
questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta
richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della
contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa

Rv. 192381; Sez. 2, Sentenza n. 2769 del 02/12/2008 Ud. – dep. 21/01/2009
– Rv. 242709). Inoltre, l’obbligo di motivazione in materia di circostanze
attenuanti generiche qualifica la decisione circa la sussistenza delle
condizioni per concederle e non anche la decisione opposta (Sez. 2,
Sentenza n. 38383 del 10/07/2009 Ud. – dep. 01/10/2009 – Rv. 245241).
Infine, le circostanze attenuanti generiche hanno lo scopo di estendere le
possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole all’imputato in
considerazione di situazioni e circostanze che effettivamente incidano
sull’apprezzamento dell’entità del reato e della capacità a delinquere dello
stesso, sicché il riconoscimento di esse richiede la dimostrazione di elementi
di segno positivo (Sez. 3, Sentenza n. 19639 del 27/01/2012 Ud. – dep.
24/05/2012 – Rv. 252900).
Tanto premesso si deve rilevare che la Corte territoriale valuta,
comunque, correttamente i vari elementi fissati dall’articolo 133 del c.p. per la
concessione delle attenuanti generiche. Questa suprema Corte ha più volte
affermato che ai fini dell’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche di
cui all’art. 62 bis cod. pen., il Giudice deve riferirsi ai parametri di cui all’art.
133 del codice penale, ma non è necessario, a tale fine, che li esamini tutti,
essendo sufficiente che specifichi a quale di esso ha inteso fare riferimento
(nel caso di specie — per quanto sopra osservato – l’assenza di elementi utili
ai fini del riconoscimento di tali attenuanti, la gravità del fatto e i precedenti
penali specifici; si veda sul punto ad esempio Sez. 2, Sentenza n. 2285 del
11/10/2004 Ud. – dep. 25/01/2005 – Rv. 230691; Sez. 6, Sentenza n. 34364
del 16/06/2010 Ud. – dep. 23/09/2010 – Rv. 248244).
Inoltre, sempre secondo i principi di questa Corte — condivisi dal
Collegio – ai fini dell’assolvimento dell’obbligo della motivazione in ordine al
diniego della concessione delle attenuanti generiche, il giudice non è tenuto

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si fonda (Sez. 1, Sentenza n. 11361 del 19/10/1992 Ud. – dep. 25/11/1992 –

a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall’imputato
essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l’uso del potere discrezionale
conferitogli dalla legge con l’indicazione delle ragioni ostative alla
concessione delle circostanze, ritenute di preponderante rilievo. Ad esempio
in un caso posto all’attenzione di questa Suprema Corte – che ha considerato
corretta la relativa motivazione – il giudice di merito aveva ritenuto che non

e ai precedenti penali (Si veda Sez. 1, Sentenza n. 3772 del 11/01/1994 Ud.
– dep. 31/03/1994 – Rv. 196880; Sez. 1, Sentenza n. 1666 del 11/12/1996
Ud. -dep. 21/02/1997 – Rv. 206936; Sez. 2, Sentenza n. 106 del 04/11/2009
Ud. – dep. 07/01/2010 – Rv. 246045). Infine, per la concessione o il diniego
delle circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in
esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene
prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio,
sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o
all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere
sufficiente in tal senso (Sez. 2, Sentenza n. 3609 del 18/01/2011 Ud. – dep.
01/02/2011 – Rv. 249163).
Infine, per quanto riguarda la richiesta di concessione della
sospensione condizionale della pena contenuta nei motivi di appello e sulla
quale la Corte di merito non si è espressa si deve rilevare innanzi tutto che a
pagina 4 dell’appello il difensore dell’imputato esordisce affermando che il
ricorrente è incensurato, mentre invece la Corte di appello rileva che
l’imputato è gravato da ben due precedenti condanne per gli stessi reati (artt.
648 e 474 del c.p.). Inoltre, anche a prescindere da quanto sopra, la richiesta
di concessione della sospensione condizionale contenuta nell’atto di appello
è genericissima ed è così formulata: “Si ritiene inoltre debbano essere
applicate nel caso di specie le attenuanti generiche, diversamente da quanto
dal Tribunale inteso, nonché la sospensione condizionale della pena, benefici
questi ultimi del tutto immotivatamente esclusi dal Giudice di prime cure,
legittimando l’odierna impugnazione anche per detta ragione”. E’ evidente

che a fronte di un simile generico motivo di impugnazione la Corte di appello
non aveva alcun obbligo di rispondere. Infatti, questa Suprema Corte ha più
volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che in tema di ricorso per

potessero concedersi le attenuanti generiche in relazione alla gravità del fatto

cassazione, non costituisce causa di annullamento della sentenza impugnata
il mancato esame di un motivo di appello che risulti manifestamente
infondato (Sez. 4, Sentenza n. 24973 del 17/04/2009 Ud. – dep. 16/06/2009 Rv. 244227; Sez. 5, Sentenza n. 27202 del 11/12/2012 Ud. – dep.
20/06/2013 – Rv. 256314). In ogni caso la Corte di appello avendo
confermato la pena di anni 1 e mesi 7 di reclusione e avendo evidenziato i

la sospensione condizionale della pena non poteva essere concessa
all’imputato (infatti si deve sommare la pena inflitta con la sentenza oggi
impugnata alle precedenti condanne e inoltre come ha rilevato, per altra
ragione, la Corte di merito, i due precedenti evidenziano l’inclinazione del
ricorrente a commettere reati della stessa specie e rende, dunque, negativa
la prognosi circa l’astensione dal commettere ulteriori reati da parte
dell’imputato). Quindi la Corte di merito ha implicitamente rigettato la
generica istanza di cui sopra. Diniego implicito che questa Suprema Corte ha
più volte affermato essere legittimo (si veda ad es.: Sez. 6, Sentenza n.
14556 del 25/03/2011 Ud. – dep. 12/04/2011 – Rv. 249731). Inoltre, si
osserva che il dovere di motivazione della sentenza è adempiuto, ad opera
del giudice del merito, attraverso la valutazione globale delle deduzioni delle
parti e delle risultanze processuali, non essendo necessaria l’analisi
approfondita e l’esame dettagliato delle predette ed è sufficiente che si
spieghino le ragioni che hanno determinato il convincimento, dimostrando di
aver tenuto presente ogni fatto decisivo, nel qual caso devono considerarsi
implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non
espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione
adottata. Dunque la doglianza sulla mancata motivazione sulla richiesta di
sospensione condizionale è manifestamente infondata.
Il resto del ricorso è privo della specificità, prescritta dall’art. 581, lett.
c), in relazione all’ad 591 lett. c) c.p.p., a fronte delle motivazioni svolte dal
giudice d’appello, che non risultano viziate da illogicità manifeste e sono
esaustive. In particolare la disponibilità dell’imputato degli oggetti sequestrati
per la vendita degli stessi è stata accertata sulla base di quanto riferito dagli
agenti di polizia giudiziaria operante e da quanto dalla stessa accertato; la
falsità è stata ritenuta dai Giudici di merito in base agli elementi acquisiti
g) 13

due precedenti specifici del ricorrente ha di fatto implicitamente indicato che

(anche P.T.U.). Quanto sopra non può essere messo in dubbio, in questa
sede di legittimità, in forza di generiche osservazioni del ricorrente (tra l’altro
si è in presenza di una doppia conforme). La decisione dei Giudici di merito
sulla falsità è, poi, in perfetta linea con la giurisprudenza di questa Suprema
Corte, condivisa dal Collegio, che ha più volte affermato che integra il delitto
di cui all’art. 474 cod. pen. la vendita di prodotti falsamente contrassegnati;
né, a tal fine, ha rilievo la circostanza che gli acquirenti possano avere

consapevolezza della falsità del marchio, considerato che le norme penali sul
falso tutelano l’affidabilità di alcune forme di comunicazione e di
rappresentazione della realtà, prescindendo, di regola, dalla lesione di
ulteriori interessi patrimoniali, con la conseguenza che ciò che rileva non è
una generica idoneità all’inganno della condotta ma solo l’idoneità di un
documento o di un marchio ad assumere un significato descrittivo non
corrispondente ai fatti e, quindi, nella specie, non rileva che il singolo
acquirente sia effettivamente ingannato o addirittura consapevole della
falsità, ma solo che il marchio contraffatto sia idoneo a fare falsamente
apparire il prodotto come proveniente da un determinato produttore (Sez. 5,
Sentenza n. 33543 del 21/09/2006 Ud. – dep. 05/10/2006 – Rv. 235225).
Inoltre il reato di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni
falsi, previsto dall’art. 474 cod. pen., è volto a tutelare, non la libera
determinazione dell’acquirente, ma la pubblica fede, intesa come affidamento
dei consumatori nei marchi, quali segni distintivi della particolare qualità e
originalità dei prodotti messi in circolazione. Ne consegue che non incide sul
perfezionamento del reato (né in relazione a esso può parlarsi di reato
impossibile) il solo fatto che la grossolanità della contraffazione sia
riconoscibile dall’acquirente in ragione delle modalità della vendita, in quanto
la tutela della buona fede apprestata dalla norma non si rivolge al solo
compratore occasionale, ma alla generalità dei soggetti possibili destinatari
dei prodotti provenienti dalle imprese titolari dei marchi, e anche alle imprese
medesime che hanno interesse a mantenere certa la funzione del marchio
(Sez. 5, Sentenza n. 40835 del 20/09/2004 Cc. – dep. 20/10/2004 – Rv.
230913). Infine, integra il delitto di cui all’art. 474 cod. pen. la detenzione per
la vendita di prodotti recanti marchio contraffatto; né, a tal fine, ha rilievo la
configurabilità della cosiddetta contraffazione grossolana (nel caso di specie,
-.—*)

14

tra l’altro, esclusa dalla P.T.U.; si veda pagina 3 sentenza di primo grado e
pagina 2 impugnata sentenza) considerato che l’art. 474 cod. pen. tutela, in
via principale e diretta, non già la libera determinazione dell’acquirente, ma la
pubblica fede, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi o segni
distintivi, che individuano le opere dell’ingegno e i prodotti industriali e ne
garantiscono la circolazione; si tratta, pertanto, di un reato di pericolo, per la

ricorre l’ipotesi del reato impossibile qualora la grossolanità della
contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere la possibilità
che gli acquirenti siano tratti in inganno (Sez. 2, Sentenza n. 20944 del
04/05/2012 Ud. – dep. 31/05/2012 – Rv. 252836; Sez. 5, Sentenza n. 21049
del 26/04/2012 Ud. – dep. 31/05/2012 – Rv. 252974). L’aspecificità delle
doglianze di cui sopra rende questa parte del ricorso inammissibile. (Sez. 1,
Sentenza n. 5044 del 22/04/1997 Ud. – dep. 29/05/1997 – Rv. 207648; Sez.
3, Sentenza n. 35492 del 06/07/2007 Ud. – dep. 25/09/2007 – Rv. 237596).
Il ricorso va, pertanto, rigettato.
Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che
rigetta il ricorso l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al
pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali

Così deliberato in camera di consiglio, il 06/12/2013.

cui configurazione non occorre la realizzazione dell’inganno e nemmeno

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