Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 11749 del 12/12/2013


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 11749 Anno 2014
Presidente: DE ROBERTO GIOVANNI
Relatore: LEO GUGLIELMO

SENTENZA

sul ricorso proposto nell’interesse di
Ceriani Alfredo, nato a Origgio il 7/09/1944

avverso l’ordinanza del Tribunale di Taranto, in funzione di giudice del riesame,
del 23/09/2013

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Guglielmo Leo;
udito il Procuratore generale, in persona del sostituto dott. Luigi Riello, che ha
concluso per il rigetto del ricorso;
uditi i Difensori del ricorrente, avv. Francesco Paolo Pesare (detto Franz) e avv.
Giarduca Aste, che hanno concluso per l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. È impugnata l’ordinanza del 23/09/2013 con la quale il Tribunale di Taranto,
in funzione di giudice del riesame, ha parzialmente confermato il provvedimento
applicativo della misura cautelare della custodia in carcere adottato dal Giudice
per le indagini preliminari dello stesso Tribunale, il 05/09/2013, nei confronti di
Alfredo Ceriani. In particolare, l’ordinanza impugnata ha disposto la sostituzione

LL-

Data Udienza: 12/12/2013

della misura carceraria con quella degli arresti domiciliari, presso il luogo di
residenza e con divieto di comunicare con persone diverse da quelle coabitanti.
1.1. Nell’ambito del procedimento che si svolge a Taranto in relazione a
presunti fatti di gravissimo inquinamento ambientale connessi all’esercizio dello
stabilimento siderurgico dell’Ilva s.p.a., si procede tra l’altro, ed anzitutto, per un
delitto aggravato di associazione per delinquere (capo A). L’associazione sarebbe
stata costituita tra i componenti della famiglia Riva (cui appartiene l’azienda) ed
alcuni dirigenti del gruppo industriale, al fine di commettere una serie di delitti

pubblica fede, tutti strumentali alla conduzione ed alla continuazione delle
produzione in condizioni di rilevante pregiudizio per l’ambiente e per le persone.
Nell’ambito dell’organizzazione, alcuni soggetti avrebbero assunto ruoli direttivi a
prescindere dal conferimento di incarichi formali corrispondenti, allo scopo di
assicurare la preminenza degli interessi economici della famiglia Riva su ogni
altro aspetto della vicenda produttiva, e per tale ragione definiti «fiduciari».
Alfredo Ceriani sarebbe stato il «fiduciario» incaricato di gestire l’area «a caldo»
dello stabilimento siderurgico – cioè una delle aree più problematiche dal punto
di vista del danno ambientale derivante dalla produzione – in guisa da
assicurare, ad ogni costo, alti livelli di produzione.
Dal ruolo indicato sarebbe derivata la responsabilità concorrente dell’odierno
ricorrente per il delitto di disastro ambientale doloso (art. 434 cod. pen., capo B
della rubrica), per il delitto di rimozione dolosa di cautele antinfortunistiche (art.
437 cod. pen., capo C), per il delitto di avvelenamento di acque o sostanze
alimentari, relativamente all’introduzione di diossina nell’ambiente ed alla
conseguente contaminazione di migliaia di capi di bestiame, poi abbattuti (art.
439 cod. pen., capo D). La rubrica del provvedimento restrittivo e di quello
impugnato contempla numerose altre fattispecie di reato (a cominciare dal
danneggiamento aggravato e continuato), per le quali non risultano applicate
misure di privazione della libertà.
1.2. In punto di indizi il Tribunale del riesame, pur esordendo con il richiamo
ad un «giudicato cautelare» riferibile ad altri indagati (sottoposti a misure
personali in epoca più risalente), e certamente non opponibile al ricorrente,
procede ad un’ampia esposizione riassuntiva delle fonti di prova e del relativo
oggetto, specificando come la stessa debba considerarsi integrata da quella
condotta con il provvedimento applicativo della misura impugnata.
In estrema sintesi, le indagini della polizia giudiziaria e dell’Agenzia regionale
per l’ambiente, oltreché di ulteriori organismi (compreso il Garante dell’A.I.A.
rilasciata per la gestione dello stabilimento, dopo l’avvio della complessa vicenda
in esame), avrebbero posto in evidenza modalità di attuazione dei processi
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contro la pubblica incolumità, contro la pubblica amministrazione e contro la

produttivi tali da provocare gravissimi fenomeni di inquinamento dell’ambiente,
con seri danni alle cose ed alle persone, analiticamente descritti nel
provvedimento impugnato. Dopo il tardivo rilascio dell’Autorizzazione cui sopra si
faceva cenno, che avrebbe individuato le cautele indispensabili a fini di recupero
della compatibilità ambientale dell’attività produttiva, non si sarebbero raccolte
prove di specifica violazione delle prescrizioni relative. Tuttavia le rilevazioni
degli organismi competenti avrebbero posto in rilievo – oltreché le carenze nella
necessaria opera di monitoraggio – la perdurante manifestazione di fenomeni più

inquinanti.
Nel complesso quadro che si è descritto, il Tribunale riferisce delle indagini
che hanno posto in luce l’esistenza dei già citati «fiduciari», cioè di persone cui
erano state conferite in via di fatto funzioni apicali allo scopo di eludere le
interferenze dei dirigenti «formali» nella gestione (asseritamente criminale) del
processo produttivo e di mantenere occulte le dinamiche relative, trasferendo
per altro sui citati dirigenti le relative responsabilità. In tal senso sono state
raccolte sommarie informazioni presso numerosi dipendenti della s.p.a. Ilva,
confermate da verifiche ad opera della polizia giudiziaria, e diffusamente
riportate nell’ordinanza di riesame.
I «fiduciari» erano estranei al tradizionale ceto dirigente dello stabilimento di
Taranto, ed erano calati sull’azienda «con l’avvento della famiglia Riva», allo
scopo esclusivo di garantirne i privati interessi. Disponevano di fatto dei poteri di
spesa e di organizzazione, ed in tal senso scavalcavano i responsabili formali
delle aree e dei reparti di produzione, assumendo anche specifiche decisioni sul
campo. Tutto ciò pur dopo il provvedimento di sequestro che, com’è noto, aveva
condotto nel 2012 alla nomina di custodi giudiziali dell’impianto produttivo.
Notizie analoghe, oltreché da persone con ruoli direttivi (compreso il direttore
generale dello stabilimento), sono venute da lavoratori con cariche sindacali,
anche con specifico riguardo alla funzione assolta dal Ceriani.
L’affidabilità delle dettagliate indicazioni testimoniali è confermata, a parere
del Tribunale, dai generici e lucrosi «contratti di assistenza tecnica» stipulati tra i
«fiduciari» ed una società del gruppo Riva, nonché dai minuziosi riscontri
documentali raccolti a proposito della presenza degli interessati all’interno dello
stabilimento tarantino. È citata anche una conversazione telefonica di Fabio Riva
con un dirigente dell’azienda, dal cui tenore chiaramente si evince che l’avvento
dei «fiduciari» aveva comportato seri problemi di interferenza con il lavoro dei
soggetti formalmente investiti delle responsabilità gestionali, tanto da indurli a
riflettere finanche circa l’eventualità di dimissioni.

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o meno incontrollati di sversamento nell’ambiente di fumi, polveri e liquidi

1.3. Con specifico riguardo alla posizione del Ceriani, il provvedimento
impugnato cita analiticamente una serie cospicua di dichiarazioni a carattere
testimoniale, che lo rappresentano, ancora una volta, quale responsabile di fatto
delle «aree a caldo» dello stabilimento di Taranto, e cioè di quelle poste al centro
del processo produttivo, sia prima che dopo il sequestro disposto dall’Autorità
giudiziaria locale. La sua presenza nell’azienda è stata riscontrata mediante
verifiche concernenti i trasporti e l’alloggio, ed il suo ruolo apicale è confermato,
sempre secondo il Tribunale, dal tenore inequivoco di alcune conversazioni

Una, ad esempio, intercorsa tra Luigi Capogrosso

(ex direttore dello

stabilimento) ed altra persona, ove l’odierno ricorrente era stato annoverato tra i
«capi supremi», ed in particolare come

dominus

dell’acciaieria. In altre

conversazioni, personalmente tenute col citato Capogrosso, Ceriani discuteva di
possibili licenziamenti come se la decisione spettasse direttamente ed
esclusivamente a lui, oppure dello slopping, cioè del fenomeno di espansione
incontrollata dei fumi durante il trattamento della ghisa, che costituisce
storicamente uno dei più gravi problemi per l’ambiente interno ed esterno alle
acciaierie. Non mancano le registrazioni di colloqui diretti con Fabio Riva, nel
corso dei quali venivano discusse le strategie aziendali.
1.4. Prendendo in specifica considerazione argomenti difensivi prospettati nel
ricorso per riesame, il Tribunale ha notato come il carattere «occulto» del ruolo
di Ceriani non avesse riguardo al rapporto di lavoro con la famiglia Riva,
esplicitato in effetti dal già citato contratto di consulenza, ma alla funzione
apicale svolta presso lo stabilimento siderurgico, e documentata dalle fonti di
prova sopra indicate. In sostanza, l’odierno ricorrente è stato ritenuto partecipe
del ristrettissimo gruppo di persone che, unitamente ai proprietari e nel loro
interesse, stabiliva le strategie gestionali, dalle quali direttamente
discenderebbero gli effetti disastrosi enunciati nelle incolpazioni (obsolescenza
degli impianti, carenze nella manutenzione, omessa adozione di cautele, ecc.).
1.5. Discutendo le esigenze cautelari, il Tribunale ha convenuto con la Difesa
dell’interessato che nella specie non sarebbero documentati rischi di
inquinamento della prova o di sottrazione alle esigenze del processo e della sua
eventuale fase esecutiva. Ha ritenuto tuttavia marcato il rischio della
commissione di reati della stessa indole di quelli in contestazione, alla luce degli
stretti e diretti rapporti del Ceriani con la famiglia Riva, della sua disponibilità ad
assumere informalmente ruoli di assoluto rilievo direttivo, della possibilità che
egli presti la propria opera in altri contesti industriali ispirandosi alla logica
gestionale della quale si ritiene, dall’Autorità procedente, una franca natura
criminale.
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telefoniche intercettate.

Si considerano, nel provvedimento impugnato, la durata e la «pervicacia»
della condotta attribuita al Ceriani, che avrebbe prodotto danni di immensa
scala, e che si sarebbe protratta per anni, indifferente, non solo quando i danni
in questione erano ormai evidenti per tutti, anche nella loro portata epocale, ma
anche dopo che lo stabilimento di Taranto era stato sequestrato ed avrebbe
dovuto essere gestito, in teoria, conformemente alle migliori pratiche e,
comunque, alle disposizioni di legge. Viene inoltre valorizzato il carattere apicale
del ruolo assunto dall’odierno ricorrente, anche nella specifica dimensione di

Nondimeno, confidando che il Ceriani non si sottraesse agli obblighi
concernenti l’esecuzione di una misura cautelare idonea di fatto ad impedirgli
nuove prestazioni professionali, il Tribunale ha stimato adeguata già la misura
degli arresti domiciliari, che dunque ha sostituito, come accennato in apertura, a
quella carceraria che era stata disposta dal Giudice per le indagini preliminari.

2. Con un primo motivo di ricorso, la Difesa del Ceriani sollecita questa Corte a
sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 cod. proc. pen. – in
relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost. – nella parte in cui non prevede
l’incompatibilità quale giudice del riesame, in un procedimento per cautela
personale, del magistrato che, nell’ambito di un procedimento di riesame per
cautela reale, abbia già espresso un giudizio di ricorrenza di gravi indizi di
colpevolezza nei confronti dell’interessato.
Nel provvedimento impugnato è fatto esplicito richiamo ai precedenti
deliberati dello stesso Tribunale nell’ambito della vicenda Ilva, tra i quali una
ordinanza in materia di sequestro preventivo ove sarebbe stata espressamente
trattata la questione dei «fiduciari» e della società con la quale formalmente
intrattenevano un rapporto di consulenza, e tra i quali, ancora, ordinanze
confermative di provvedimenti restrittivi già adottati, per i fatti in contestazione,
riguardo ad altre persone.
Premesso che almeno uno dei componenti del Collegio deliberante avrebbe
fatto parte di precedenti Collegi, e considerata in particolare l’ordinanza sul
procedimento di cautela reale relativa ai «fiduciari», ove l’impeto motivazionale
si sarebbe spinto «oltre» il dato della ricorrenza di un fumus commissi delicti, il
ricorrente propone il quesito di legittimità costituzionale poco sopra indicato.

3. Si deduce poi vizio di motivazione ex art. 606, comma 1, lettera e) cod. proc.
pen., «in relazione a violazione degli artt. 273 e 274» dello stesso codice, avuto
anzitutto riguardo alla valutazione di ricorrenza dei gravi indizi di colpevolezza.

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capo ed organizzatore dell’associazione criminosa contestata sub A.

Dopo aver richiamato una parte del compendio probatorio acquisito, il
ricorrente assume che il Tribunale avrebbe motivato illogicamente il proprio
convincimento, avendo trascurato di interrogarsi sulla attendibilità dei testimoni,
che avevano ogni interesse a scaricare su altri responsabilità gestionali ed
operative che erano di loro spettanza. La motivazione sarebbe illogica, inoltre,
perché fondata sull’asserito carattere occulto di un ruolo di consulenza operativa
che Ceriani avrebbe esercitato, in realtà, alla luce del sole, ed in forza di un
regolare contratto tra una sua società ed una società del gruppo Riva.

effettivamente addebitata al ricorrente. In nessuna parte del provvedimento
impugnato – rileva il Difensore – sarebbero indicati con la necessaria specificità
un ordine od un comportamento mediante i quali Ceriani avrebbe contribuito alla
realizzazione degli illeciti. Ciò sebbene l’argomento fosse stato affrontato e
largamente trattato con i motivi a sostegno del ricorso per riesame. Si ribadisce
che la posizione di fiduciario della famiglia Riva non comporta di per sé
responsabilità penale, e che tale posizione non avrebbe implicato per Ceriani la
necessità di impartire ordini illegittimi, postulando oltretutto, ed
immotivatamente, che l’interessato fosse consapevole di «produrre
inquinamento».
Quanto alle esigenze cautelari, il ricorrente assume che il Tribunale avrebbe
fondato il proprio giudizio sulla «pervicacia e spregiudicatezza» della condotta
attribuita al Ceriani. Da qui l’ulteriore assunto – sempre ad opera del ricorrente che la valutazione non avrebbe riguardato la condotta in contestazione (le
«circostanze del fatto»), come preteso dalla legge, ma elementi estrinseci,
estranei alle modalità del fatto ed alla personalità del suo autore: la «pervicacia
[…] non costituisce una specifica modalità» del fatto.
Nel contempo, l’aspettativa della commissione di nuovi reati non sarebbe
«provata».

4. Con nuovo ricorso, presentato a norma dell’art. 311 cod. proc. pen., il
Difensore del Ceriani deduce violazione della legge processuale, in rapporto
all’art. 191 dello stesso codice, per l’intervenuta utilizzazione degli esiti della
perizia condotta in regime di incidente probatorio nei confronti dello stesso
ricorrente.
Dopo aver ricordato il ruolo essenziale della stessa perizia per la
configurazione dei fatti contestati – ruolo riconosciuto dallo stesso Tribunale con
un richiamo sia pur sintetico agli esiti relativi – si assume che l’incidente
probatorio sarebbe stato definito prima che fosse rilevata ed iscritta una notizia
di reato a carico del Ceriani, il quale dunque non era stato rappresentato nella
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Vi sarebbe carenza di motivazione, poi, a proposito della condotta concorsuale

relativa procedura. A norma dell’art. 403 cod. proc. pen., secondo il ricorrente, i
risultati della perizia non avrebbero potuto essere quindi utilizzati. È vero che i
limiti di utilizzazione relativi ai soggetti rimasti estranei all’incidente sono
esplicitamente posti riguardo al dibattimento, ma il divieto, secondo il Difensore,
varrebbe «a maggior ragione» nell’ambito cautelare.

CONSIDERATO IN DIRITM

2. È manifestamente infondata, anzitutto, la proposta questione di legittimità
costituzionale, come può stabilirsi con facilità, a prescindere dall’insufficiente
livello di precisazione e di documentazione che segna l’allegazione difensiva.
Una copiosa giurisprudenza costituzionale ha da tempo chiarito che
l’incompatibilità è istituto mirato a prevenire che la pronuncia sul merito della
contestazione sia pregiudicata, per quanto interessa in questa sede, da
determinazioni già assunte sul medesimo fatto attraverso provvedimenti
cautelari, sempre che gli stessi siano stati adottati in fasi diverse del giudizio. La
medesima giurisprudenza ha stabilito, con la sola e nitida eccezione
rappresentata dalla sentenza n. 331 del 1996, che non può nascere
incompatibilità da decisioni assunte riguardo a fatti diversi da quello preso in
considerazione, od a persone diverse che siano state accusate del medesimo
fatto (per una scansione dei principi evocati può sinteticamente rinviarsi alla
recente pronuncia della Consulta, n. 153/2012).
L’incompatibilità, del resto, è istituto che si fonda su di una ragionevole
presunzione per la quale, dato l’oggetto di una determinata e pregressa
decisione, quest’ultima potrebbe esercitare la forza di un pregiudizio riguardo ad
una nuova valutazione dello stesso giudice. È una regola tracciata in base ai
profili tipici della deliberazione pregiudicante e di quella pregiudicata, e si fonda
appunto su di una presunzione, non superabile. L’art. 34 cod. proc. pen.,
nell’assetto conferitogli dalle numerose pronunce additive della Corte
costituzionale, appresta un rimedio preventivo e non eludibile, destinato ad
operare quand’anche, nel caso concreto, l’aspettativa di un pregiudizio si
rivelasse ingiustificata.
Fuori dai casi di ragionevolezza della presunzione, come pure si è più volte
specificato dalla Corte costituzionale, il rimedio può (ed anzi deve, come talvolta
chiarito dalla stessa Corte) essere successivo e discrezionale, cioè condizionato
dalle caratteristiche del caso concreto. In tal senso operano gli istituti
dell’astensione e della ricusazione.

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1. Il ricorso è infondato.

Si apprezza immediatamente, dopo tale premessa, l’inconsistenza della
pretesa difensiva. Dovrebbe essere introdotta una causa di incompatibilità
relativa a provvedimenti di natura cautelare, dunque non pertinente ad un
giudizio sul merito dell’imputazione. Dovrebbe essere introdotta una causa di
incompatibilità ove la decisione pregiudicante abbia ad oggetto persone o fatti
diversi, o per altri versi si riferisca a domande cautelari con presupposti
differenziati. Dovrebbe infine teorizzarsi la necessità costituzionale di una
incompatibilità fondata, nella stessa prospettazione difensiva, non già dai profili

un’occorrenza del caso concreto, e cioè l’eccedente pregnanza del giudizio
assunto, in una precedente occasione, rispetto alle necessità.
Proprio l’ultimo rilievo rende evidente che, ove mai un componente del
Collegio cui si deve il provvedimento impugnato avesse davvero anticipato il
relativo giudizio, nell’ambito dello stesso procedimento ed indebitamente, il
rimedio tipico e bastevole sarebbe dato dalla possibilità di ricusazione ex art. 37,
lettera b), cod. proc. pen. (oltreché dalla possibilità «parallela» dell’astensione
per gravi ragioni di convenienza).
D’altra parte, alla luce dei rilievi svolti, appare evidente che una decisione in
tema cautelare non può assumere valore pregiudicante rispetto ad altra
decisione cautelare, quand’anche i relativi provvedimenti abbiano il medesimo
oggetto. Non a caso la giurisprudenza esclude finanche l’incompatibilità dei
componenti del tribunale che abbia deliberato un provvedimento di riesame poi
annullato dalla Suprema Corte, i quali ben possono formare il collegio chiamato
al giudizio di rinvio, avuto riguardo all’assenza di indicazioni contrarie nel testo
dell’art. 623 cod. proc. pen. e, per quanto qui soprattutto interessa, alla natura
incidentale del procedimento de libertate, che non comporta, per sua natura, un
accertamento sul merito della contestazione (ex multis, Sez. 5, Sentenza n.
16875 del 24/03/2011, Rao, rv. 250173; Sez. 6, Sentenza n. 3884 del
11/12/2009, Marai, rv. 246135; Sez. 5, Sentenza n. 43 del 16/11/2005,
Todaro, rv. 233060; Sez. 6, Sentenza n. 22464 del 20/04/2005, Saraceni, rv.
232236; Sez. 1, Sentenza n. 23502 del 07/10/2003, Montini, rv. 228125; Sez.
6, Sentenza n. 36332 del 19/06/2003, Zorzi, rv. 228411). Analogamente, il
magistrato partecipe del giudizio di riesame relativamente ad una determinata
misura coercitiva può ben prendere parte alla delibazione sull’appello cautelare
promosso contro una ordinanza de libertate attinente alla stessa misura (Sez. 1,
Sentenza n. 29690 del 09/07/2003, Andronaco, rv. 225461; Sez. 1, Sentenza n.
742 del 31/01/2000, Tanzarella, rv. 215499).
Per altro verso, la valutazione di una contestazione cautelare mossa a più
persone non implica che i giudici del riesame, una volta trattata la posizione di

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(5,

tipici della decisione pregiudicante e di quella pregiudicabile, ma da

alcune fra esse, si trovino in posizione di incompatibilità per altri e successivi
procedimenti impugnatori relativi alla medesima contestazione e concernenti
diversi incolpati (Sez. 2, Sentenza n. 43474 del 09/07/2004, Marroni, rv.
230213; Sez. 6, Sentenza n. 708 del 19/02/1997, Berlusconi, rv. 207173).

3. Con il coacervo dei rilievi mossi al merito della decisione impugnata, il
ricorrente pone, appunto, questioni di merito, che non possono costituire
ammissibile oggetto di valutazione nel presente giudizio di legittimità. In effetti,

Difesa del Ceriani mira ad ottenere da questa Corte un diverso apprezzamento
del compendio probatorio apprezzato dal Tribunale del riesame.
Tale compendio è diffusamente illustrato nel provvedimento di cui si tratta,
senza contraddizioni e senza che il ricorrente abbia segnalato effettivi e rilevanti
fenomeni di travisamento. Il rilievo per il quale non sarebbe stato apprezzato il
tema della credibilità dei «testimoni», interessati a stornare dalla propria
persona le responsabilità connesse alla gestione dello stabilimento, è del tutto
generico e non attiene alla logica della motivazione, quanto semmai alla sua
completezza. Ma, in questa prospettiva, e considerata l’esplicita ed effettiva
integrazione tra l’apparato motivazionale del riesame e quello dell’ordinanza che
ha originato il trattamento cautelare, non potrebbe certo parlarsi di vizio
emergente dal testo (né, tanto meno, da atti specificamente indicati allo scopo).
Il Tribunale ha posto in relazione il significato convergente di una decina ed
oltre di dichiarazioni «testimoniali», rese da soggetti in posizioni diverse,
ponendo in relazione tali dichiarazioni con elementi che obiettivamente
confermano il ruolo dirigente e soverchiante del Ceriani (ad esempio, le
conversazioni telefoniche intercettate). Un ruolo che, in definitiva, non è
realmente negato dal complesso dei rilievi difensivi, i quali piuttosto oscillano tra
la negazione dei fatti criminosi contestati e l’assunto che l’indagato avrebbe
potuto esercitare il suo ruolo di «consulente» senza dare uno specifico e
dimostrato contributo causale alla realizzazione dei fatti medesimi. Fino allo
spunto, veramente estremo, della ipotizzata inconsapevolezza del Ceriani in
merito all’inquinamento prodotto dallo stabilimento uva di Taranto.
Ebbene, limitando com’è ovvio la valutazione di questa Corte ad un sindacato
sulla motivazione del provvedimento impugnato, è sufficiente notare come la
sussistenza dei macroeventi tracciati nelle imputazioni cautelari sia ampiamente
giustificata dai richiami alle complesse perizie che hanno caratterizzato il
procedimento de quo, ed a tutte le fonti già menzionate, illustrate nell’ordinanza
del Giudice per le indagini preliminari ma riprese con relativo e ragionevole
dettaglio, nonostante il rinvio recettizio, nel provvedimento impugnato.
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pur genericamente riconducendo le censure ad un difetto di motivazione, la

Le menzionate fonti di prova, secondo una valutazione di merito qui non
sindacabile, evidenziano una complessiva strumentalità delle scelte gestionali
alla ottimizzazione dei profitti, con deliberata rinuncia all’adozione delle forme
più elementari di prevenzione delle patologie professionali e di fenomeni di
inquinamento che avrebbero investito un’intera città, giungendo a condizionare
le frequenze statistiche di malattie mortali e di gravi affezioni per tutta la
popolazione. Di qui l’apprezzamento del ceto dirigente dell’azienda, e del suo
programma di gestione, come associazione criminale in senso proprio. Di qui la

stillicidio di incidenti o di «fisiologiche» immissioni protrattosi per anni, quale
portato naturale dell’assetto dell’impianto produttivo. In questa prospettiva,
ampiamente rappresentata a livello motivazionale, l’indicazione dei compiti
apicali assolti per lungo tempo dal Ceriani, proprio con riguardo all’epicentro dei
fenomeni considerati, logicamente coincide – a maggior ragione considerando la
natura cautelare del provvedimento – con l’indicazione dei contributi causali in
ipotesi recati alla realizzazione degli illeciti.
Quanto poi alla pretesa che sarebbe «illogica» la considerazione come occulta
di una attività del tutto trasparente, si tratta di censura incongruente e,
comunque, infondata. Nella rappresentazione del provvedimento impugnato non
assume carattere «occulto» l’attività esplicata dal Ceriani, che era anzi palese,
tanto da provocare incidenti coi dirigenti dei vari settori. È conferito un
significato, piuttosto, alla dissimulazione sul piano formale delle responsabilità
assunte dall’odierno ricorrente, cui non era stato conferito un incarico
dirigenziale conforme alle funzioni assolte, come sarebbe stato naturale,
preferendo piuttosto la soluzione di una dirigenza «di fatto», alternativa a quella
formale, il cui corrispettivo economico veniva regolato attraverso un rapporto di
consulenza esterna. Nessuna contraddizione logica, dunque.
Infine, quanto alle esigenze cautelari, non si vede perché «pervicacia» e
«spregiudicatezza» sarebbero fattori non attinenti alle caratteristiche della
condotta, o alla personalità dell’autore. È chiaramente vero il contrario. Nel
quadro già descritto, ove si prospettano eventi catastrofici in danno di intere
popolazioni e di un vasto territorio urbano, prodotti attraverso la deliberata e
prolungata omissione dei provvedimenti necessari a prevenire detti eventi, il
termine pervicacia evoca appunto una determinazione a delinquere espressa a
lungo nel tempo, ed il termine spregiudicatezza vuole evocare, sul piano della
capacità criminale, una ritenuta indifferenza dell’interessato alla gravità del
danno prodotto. Al netto del merito, una tipica valutazione negativa in punto di
«modalità e circostanze del fatto» e di «personalità della persona sottoposta alle
indagini», risolta in prognosi, secondo uno schema logico non arbitrario, della

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,Q,

contestazione di un disastro ambientale che ripete le proprie dimensioni dallo

probabile reiterazione di comportamenti criminosi nel caso di assenza d’una
adeguata restrizione cautelare.

4. È infondata, da ultimo, la tesi proposta con il secondo ricorso, secondo la
quale non sarebbero utilizzabili, nei confronti di soggetti rimasti estranei alla
procedura, gli esiti di accertamenti svolti in regime di incidente probatorio. È
palese, piuttosto, la fondatezza dell’opposta soluzione.
Da lungo tempo la giurisprudenza ha individuato ipotesi di cd. «inutilizzabilità

determinate fasi del procedimento. La regola posta dall’art. 403 cod. proc. pen.
esprime uno dei casi in questione, limitando l’uso delle risultanze ai partecipi del
rito incidentale solo con riguardo alla fase dibattimentale del giudizio. In tal
senso anzitutto la lettera della legge, avuto riguardo alla rubrica della norma ed
anche al suo testo, che pongono la disciplina interdittiva riguardo alla
utilizzazione «nel dibattimento». Nello stesso senso depone la fisiologica
difformità tra la logica delle indagini, cui si connette quella dell’iniziativa
cautelare, e quella dell’accertamento in contraddittorio circa il merito
dell’imputazione. Sul primo versante, e salvo che non siano infranti specifici
divieti, generalmente relativi alla tutela di diritti fondamentali, vige un criterio di
relativa libertà delle forme, e soprattutto è fisiologica l’utilizzazione

di dati

acquisiti senza alcuna partecipazione dell’interessato. Sarebbe paradossale che
notizie apprese sotto il controllo giudiziale, e con la partecipazione di parti
private e loro difensori, ancorché diverse da quelle interessate, fossero escluse
da un compendio cognitivo che può invece comprendere acquisizioni di polizia,
consulenze di parte, ecc.
L’utilizzabilità

erga omnes

degli esiti dell’incidente probatorio è stata

riconosciuta dalle Sezioni unite di questa Corte, previa classificazione del caso
quale ipotesi di inutilizzabilità «relativa», perfino con riguardo al giudizio
abbreviato («parimenti non rilevano nel rito alternativo le ipotesi d’inutilizzabilità
“relativa” stabilite dal legislatore in via esclusiva “nel dibattimento”, quali, ad
esempio, quelle previste […] dall’art. 403 comma 1 c.p.p. per l’incidente
probatorio cui non abbia partecipato il difensore dell’imputato: Sez. Un.,
Sentenza n. 16 del 21/06/2000, Tammaro, rv. 216246).
A «maggior ragione» – è il caso di dire – la giurisprudenza ha stabilito che gli
esiti dell’incidente probatorio sono liberamente utilizzabili, a fini cautelari, nel
corso delle indagini preliminari, indipendentemente dai limiti posti al comma 1
dell’art. 403 cod. proc. pen. (Sez. 5, Sentenza n. 299 del 27/01/1993, Prost, rv.
194346).

11

relativa», cioè di divieti probatori che valgono solo a determinati fini, o per

5. Atteso l’esito del presente giudizio di legittimità, il ricorrente deve essere
condannato al pagamento delle relative spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 12/12/2013.

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