Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 1154 del 22/03/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 1154 Anno 2014
Presidente: FERRUA GIULIANA
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sul ricorso proposto nell’interesse di
Defina Nicola, nato a Toronto (Canada) il 20/02/1973

avverso la sentenza emessa 1’11/07/2012 dal Tribunale di Roma

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
lette le conclusioni del Procuratore generale presso questa Corte, nella persona
del Dott. Antonio Gialanella, che ha richiesto l’annullamento con rinvio della
sentenza impugnata, con trasmissione degli atti al Tribunale di Roma per
l’ulteriore corso

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Roma, con la sentenza indicata in epigrafe, applicava nei
confronti di Nicola Defina, imputato del reato di cui agli artt. 110 cod. pen. e 132
d.lgs. n. 385 del 1993 (ed altri), la pena di anni 3 e mesi 10 di reclusione, su

Data Udienza: 22/03/2013

istanza ex art. 444 cod. proc. pen. presentata dall’imputato e con il consenso del
Pubblico Ministero. Nell’ambito dell’accordo intervenuto fra le parti, nulla era
previsto circa la destinazione di alcuni beni sottoposti a sequestro preventivo nel
corso delle indagini preliminari; a riguardo, il Tribunale ravvisava (richiamando
l’art. 240, comma primo, cod. pen., nonché – per mero refuso – l’art. 2341, in
luogo dell’art. 2641, cod. civ.) l’obbligatorietà della «confisca dei beni sottoposti
a sequestro preventivo per equivalente con ordinanza emessa dal Giudice per le
indagini preliminari di questo Tribunale in data 12 settembre 2011, con

alla posizione di Sandra Zoccali». Nella motivazione della sentenza si segnalava
l’impossibilità di accogliere una richiesta di sostituzione del sequestro delle quote
sociali della Adonis s.r.l. con la somma di 10.000,00 euro, in difetto di elementi
di certezza sulla stima effettuata dal consulente di parte della difesa.

2. Propone ricorso per cassazione, lamentando violazione dell’art. 240 cod.
pen. ed omessa motivazione in ordine alla disposta confisca, il difensore del
Defina. Il ricorrente osserva che il Tribunale non avrebbe in alcun modo esposto
le ragioni della decisione adottata, senza peraltro indicare l’entità della somma
confiscata e non tenendo conto della circostanza che nel corpo dell’accordo
intervenuto fra le parti, in relazione alla pena da applicare all’imputato, non vi
era alcuna intesa in proposito.
Secondo la difesa, l’obbligo di individuazione dei beni da considerare prezzo,
profitto od equivalente, correlati all’ipotesi criminosa contestata all’imputato,
sussiste sia nel caso di sentenza di condanna che di pronuncia di applicazione di
pena su richiesta; individuazione, peraltro, che comporta anche la necessità di
motivare sul perché i beni in questione debbano qualificarsi nei termini anzidetti,
senza dunque la possibilità di considerare utile nel caso di specie il richiamo del
decreto di sequestro a firma del G.i.p., dove non sono evidenziate indicazioni di
sorta a riguardo. Nel ricorso vengono evocati precedenti giurisprudenziali di
legittimità sull’obbligo di motivazione sia in punto di confisca tout court che a
proposito del giudizio sulla pericolosità che deriverebbe dal mantenimento della
res nella disponibilità dell’avente diritto; viene altresì richiamata, in quanto
espressiva di nuovi principi cui la difesa manifesta adesione, la sentenza n.
12508 dell’11/03/2010 della Sezione Sesta di questa Corte (ric. Valente),
secondo la quale una richiesta ex art. 444 cod. proc. pen., in relazione ad un
reato che comporti la confisca di beni o valori, deve necessariamente
contemplare anche l’accordo fra le parti sull’oggetto della confisca medesima.

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riferimento esclusivo ai beni riferibili all’imputato e ad eccezione di quelli riferiti

3. In una successiva memoria depositata il 04/03/2013, il difensore del
ricorrente torna a ribadire le tesi esposte, prendendo atto del contenuto della
requisitoria del Procuratore generale presso questa Corte, dove si esamina il
dibattito giurisprudenziale sul tema indicato al punto precedente: avuto riguardo
alle diverse indicazioni offerte da più decisioni della Sezione Seconda rispetto a
quanto affermato nella sentenza Valente, sopra richiamata, nell’interesse del
Defina si sollecita la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite, onde risolvere il

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso non può trovare accoglimento.
1.1 Deve innanzi tutto rilevarsi che sui limiti dell’oggetto dell’accordo fra le
parti, in sede di istanze ex art. 444 cod. proc. pen., l’esegesi offerta con la già
ricordata sentenza Valente (Cass., Sez. VI, n. 12508 dell’11/03/2010, la cui
massima ufficiale – Rv 246731 – recita che «il giudice non può accogliere la
richiesta di applicazione della pena se l’accordo intervenuto tra le parti non
comprende anche l’oggetto della confisca prevista per il reato cui il
patteggiamento si riferisce ovvero non consente la determinazione certa dei beni
destinati all’ablazione») risulta isolata, e peraltro espressa in una fattispecie
concreta affatto peculiare, dove il problema di fondo consisteva appunto nella
mancata individuazione dell’entità della somma da confiscare. Come
puntualmente osservato nelle analitiche conclusioni rassegnate per iscritto dal
P.g. presso questa Corte, si è avuto modo, più di recente, di precisare che la
confisca del profitto del reato presupposto, eventualmente nella forma per
equivalente, deve sempre essere disposta anche con la sentenza di
patteggiamento, a prescindere dal rilievo che l’accordo fra le parti riguardi tale
aspetto, oltre alla misura della pena principale (v. Cass., Sez. II, n. 20046 del
04/02/2011, Marone, in un caso concernente addebiti mossi ad un ente, ai sensi
del d.lgs. n. 231 del 2001). Ancor più esplicitamente, ed in via generale, si è poi
affermato che «le parti, nel c.d. “patteggiamento”, non possono vincolare il
giudice con un accordo avente ad oggetto anche le pene accessorie, le misure di
sicurezza o la confisca, atteso che le suddette misure sono fuori dalla loro
disponibilità, e, nel caso in cui l’accordo riguardi anche esse, il giudice non è
obbligato a recepirlo o non recepirlo per intero, rimanendo vincolato soltanto con
riguardo alle parti dell’accordo riguardanti elementi in disponibilità delle parti»
(Cass., Sez. II, n. 19945 del 19/04/2012, Toseroni, Rv 252825).

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contrasto interpretativo de quo.

Il collegio ritiene di aderire senz’altro a quest’ultimo orientamento,
richiamando ed espressamente condividendo le argomentazioni esposte nella
motivazione della pronuncia appena richiamata, dove si legge che «la sentenza
di applicazione della pena è una sentenza che ha una natura giuridica diversa da
quella ordinaria di condanna avendo caratteristiche formali, strutturali, genetiche
e funzionali differenti da ogni altra sentenza di condanna. Si è infatti chiarito che
l’atipicità della sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. è
strettamente correlata alle particolari caratteristiche del procedimento del quale

riconoscibili tutti gli elementi essenziali, idonei a qualificare una sentenza come
sussumibile, a pieno titolo, nella categoria delle “sentenze di condanna”. Se
essa, infatti, è assimilabile ad una sentenza di condanna solo sotto l’astratto
profilo del provvedimento giurisdizionale con il quale si dispone l’applicazione
della pena nei confronti di un soggetto per un determinato reato, da quella si
dissocia per la mancanza di una essenziale componente, l’accertamento
giudiziale della responsabilità penale, formalmente estrinsecabile in una espressa
dichiarazione di colpevolezza. Invece, in quella sentenza l’accertamento
completo del fatto reato e della sua commissione da parte di un determinato
soggetto sono sostituiti dalla ricognizione dell’accordo intervenuto tra le parti sul
merito del processo e sulla pena da applicare […]. La principale peculiarità della
sentenza di patteggiamento consiste, quindi, nell’accordo che interviene fra le
parti (pubblico ministero ed imputato) sul trattamento sanzionatorio ex art. 444
cod. proc. pen., accordo rispetto al quale il giudice ha una sola alternativa: o
ritenerlo congruo ed accoglierlo, disponendo con sentenza l’applicazione della
pena (art. 444 cod. proc. pen., comma 2), o rigettarlo (art. 448 cod. proc. pen.).
L’accordo, quindi, è opportuno ribadirlo, si forma solo ed esclusivamente sul
trattamento sanzionatorio e solo su questo il giudice rimane vincolato sicché, ove
non lo condivida, non gli resta che respingere l’istanza […]. Resta, pertanto,
fuori da ogni accordo ex art. 445 cod. proc. pen., comma 1:
a) l’applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza ove la pena irrogata
superi i due anni;
b) la confisca – sia essa obbligatoria o facoltativa – qualunque sia la pena
irrogata e, quindi, anche ove la medesima sia inferiore ai due anni.
La circostanza che alcuni tipici effetti della sentenza di condanna vengano fatti
salvi nel senso che non possono costituire oggetto di patteggiamento, è un
ulteriore indice della natura allogena della sentenza di patteggiamento rispetto
alla sentenza di condanna tout court.

La suddetta precisazione consente,

pertanto, di affermare che la sentenza di patteggiamento è una sentenza
vincolata relativamente al trattamento sanzionatorio (nel senso che il capo della

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rappresenta il naturale epilogo, con la conseguenza che in essa non sono

condanna deve rispecchiare fedelmente l’accordo intervenuto fra le parti)
contrariamente al capo relativo alle pene accessorie, alle misure di sicurezza e
alla confisca, rispetto alle quali, la discrezionalità del giudice si riespande come in
una normale sentenza di condanna. Il fatto che il legislatore abbia sottratto
all’accordo delle parti le suddette misure, non significa che le parti, nell’ambito
della loro discrezionalità ed autonomia, non possano inserire, nell’accordo sul
trattamento sanzionatorio, anche un accordo sulle suddette misure. Tuttavia,
proprio perché la legge è categorica nello stabilire che le suddette misure non

giudice, è ovvio che un eventuale accordo potrebbe avere solo una semplice
funzione di orientamento nella decisione del giudice il quale, quindi, può tenerne
conto o no, avendo solo l’obbligo di motivare sulla decisione adottata. Ciò
comporta, di conseguenza, che non solo il giudice non è vincolato ad un
eventuale accordo sulle pene accessorie, sulle misure di sicurezza o sulla
confisca, ma che il medesimo deve considerarsi

tamquam non esset,

quand’anche le parti subordinassero l’intero patteggiamento all’accoglimento
dell’accordo relativo alle pene accessorie, alle misure di sicurezza o alla confisca.
Se, infatti, da una parte, la legge vincola il giudice solo sull’accordo sul
trattamento sanzionatorio e, dall’altra, stabilisce che alla sentenza di
patteggiamento si applicano anche le pene accessorie, le misure di sicurezza o la
confisca, è consequenziale desumere, sul piano logico, che queste ultime misure
non possono far parte dell’accordo fra le parti sicché, ove ciononostante le parti
si accordino anche sulle suddette misure, il giudice ben può – motivando – non
tenerne conto senza che perciò la sentenza – in caso d’impugnazione – possa
essere completamente travolta sul presupposto del mancato recepimento
dell’intero accordo. Ad una tale conclusione osta sia l’inequivoco complesso
normativo citato ed illustrato sia la natura giuridica della sentenza di
patteggiamento che è formata da due capi che rispondono a logiche giuridiche
completamente diverse: il capo relativo al trattamento sanzionatorio è di natura
pattizia (e, quindi, non derogabile da parte del giudice), mentre quello attinente
alle sanzioni accessorie è di natura pubblicistica (e, quindi, non soggetto ad
alcun patteggiamento essendo sottratto alla disponibilità delle parti) come in
ogni sentenza di condanna, alla quale la sentenza di patteggiamento, sotto
questo profilo, è espressamente equiparata ex art. 445 cod. proc. pen., comma
2».
Alla luce della completezza ed esaustività delle argomentazioni appena
ribadite, nonché della ricordata peculiarità della fattispecie sottesa alla diversa
soluzione adottata dalla Sezione Sesta nel 2010, non possono ravvisarsi gli

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rientrano nella disponibilità delle parti, essendone riservata l’applicazione al

estremi di un contrasto giurisprudenziale che imponga la rimessione del ricorso
ex art. 618 del codice di rito.
1.2 n Tribunale di Roma, all’atto della decisione in tema di confisca di cui alla
sentenza impugnata, non trovava dunque alcuna preclusione all’adozione delle
determinazioni di legge nella presa d’atto che l’accordo negoziale fra il P.M. e
l’imputato non contemplava alcunché a riguardo. Resta ovviamente
impregiudicato il problema dell’obbligo di motivazione, che il P.g. reputa
«sostanzialmente inadempiuto dal Tribunale, atteso che non v’è vera traccia,

e del rinvio al provvedimento di sequestro, delle ragioni che presiedono alla
confisca in esame»; come ricordato, anche la difesa rileva l’insufficienza – ai fini
qui in esame – di un richiamo per relationem al decreto di sequestro preventivo,
dove non risultava comunque precisato se i beni da sottoporre a vincolo reale
avrebbero dovuto intendersi profitto o prezzo del reato addebitato al Defina,
piuttosto che di valore equivalente.
Si tratta di censure che non possono condividersi.
Ad avviso di questa Corte, il richiamo al decreto di sequestro era
evidentemente da intendere esteso non solo alla parte dispositiva di quel
provvedimento, ma anche alla motivazione.

Ergo,

deve in primo luogo

osservarsi che non vi è alcuna possibilità di equivoco circa i beni da confiscare,
risultando apertis verbis dal testo della sentenza impugnata che questi debbono
individuarsi in quelli appresi al Defina (e non invece in quelli che riguardavano
disponibilità di Sandra Zoccali, espressamente esclusi dal Tribunale) in
esecuzione del decreto del G.i.p.
Quanto alla natura dei beni

de quibus

ed alla giustificazione della

confiscabilità, deve rilevarsi che nel provvedimento di sequestro preventivo non
era stata compiuta alcuna disamina sulla possibilità di considerare quelle utilità
come profitto o prezzo dei reati contestati al Defina, ma ne emergeva con
assoluta evidenza che quei beni risultavano da apprendere perché chiaramente
individuati in ragione del valore equivalente degli stessi rispetto al lucro
realizzato dall’imputato mediante le condotte criminose a lui ascritte. Infatti, nel
decreto del 12/09/2011 il G.i.p. del Tribunale di Roma dava espressamente atto
che «il sequestro preventivo richiesto si profila strumentale alla confisca per
equivalente, e l’uno e l’altra costituiscono due inscindibili momenti del medesimo
percorso cautelare mirato al recupero di quelle risorse finanziarie delle quali
l’indagato comunque dispone, anche per interposta persona […], dovendosi qui
rilevare che la connotazione tipica di tale genere di confisca si profila
riconducibile, per un verso, al fatto che essa prescinde dall’accertamento del
nesso pertinenziale tra il reato ed i beni oggetto di sequestro e, per altro verso,

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nella parte motiva della sentenza impugnata, al di là dell’impiego di frasi di stile

dall’insistenza di tali beni nella sfera patrimoniale dell’interessato». Segnalando
quindi «l’oggettivo configurarsi di quel compendio indiziario che, ove
definitivamente accertato, imporrebbe

ex lege l’applicazione della speciale

misura di sicurezza patrimoniale», il G.i.p. romano aveva posto in relazione con
l’attività illecita oggetto di contestazione flussi finanziari riconducibili al consorzio
Congafid, facente capo al Defina, per un ammontare di 3.163.863,00 euro:
quelle entrate, da collocare nel periodo 2008-2010, derivavano dalla emissione
di polizze (nello stesso torno di tempo, in particolare dal maggio 2008 al

di diversi soggetti economici, ivi compresi enti pubblici, così venendosi a
realizzare il reato di esercizio abusivo di attività finanziaria. A quel punto, si
rendeva doveroso il sequestro di beni nella disponibilità del Defina fino alla
concorrenza del valore di 3.100.000,00 euro, beni individuati nelle giacenze sui
conti correnti di cui l’odierno ricorrente risultava titolare, in un’autovettura di sua
proprietà e nelle quote della Adonis s.r.I., della quale il medesimo appariva socio
unico per il tramite della Unione Fiduciaria s.p.a.
Argomentazioni che, in uno con il venir meno di uno stringente obbligo di
accertamento sulla consistenza del compendio indiziario (per effetto della
richiesta di applicazione di pena presentata dall’imputato), mantenevano
giocoforza rilievo ai fini della confisca per equivalente: confisca imposta dalla
legge, senza alcuna necessità di approfondire il tema dell’eventuale pericolosità
intrinseca, in vista della commissione di reati ulteriori, del perdurare del rapporto
dell’imputato con le res.

2. Il rigetto del ricorso comporta la condanna del Defina al pagamento delle
spese del presente giudizio di legittimità.

P. Q. M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 22/03/2013.

dicembre 2010) non già in favore dei consorziati, come imposto dalla legge, ma

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