Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 1135 del 30/11/2012


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 1135 Anno 2013
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: DE MARZO GIUSEPPE

SENTENZA
sul ricorso proposto da
Rapisarda Remo Luca, nato a Catania il 17/06/1984
avverso la sentenza del 24/09/2010 della Corte d’appello di Catania R.G.
1404/2008
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione svolta dal Consigliere Giuseppe De
Marzo;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Maria
Giuseppina Fodaroni, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Ritenuto In fatto
1. Con sentenza del 24/09/2010, la Corte d’appello di Catania ha confermato la
sentenza del Tribunale di Catania del 31/03/2008, che aveva dichiarato Remo
Luca Rapisarda colpevole dei reati a lui ascritti, riuniti sotto il vincolo della
continuazione, e, concesse le attenuanti generiche ritenute equivalenti alle
contestate aggravanti e previa riduzione di un terzo della pena per il rito, lo
aveva condannato alla pena di anni uno di reclusione ed euro 200,00 di multa.
2. Il Rapisarda era chiamato a rispondere: a) dei reato di cui agli artt. 110, 61, n.
5, 624, 625, n. 2 e 7 cod. pen., perché, in concorso con altra persona per la quale
si era proceduto separatamente, dopo avere forzato il blocco dello sterzo di un
motociclo, si era impossessato del veicolo, sottraendolo al proprietario che lo
aveva parcheggiato sulla pubblica via, con l’aggravante di avere usato violenza
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Data Udienza: 30/11/2012

sulle cose e su cosa esposta per necessità o consuetudine alla pubblica fede, di
avere agito in tempo di notte e con l’aggravante della recidiva reiterata, specifica
infraquinquennale; b) del reato di cui agli artt. 110, 337, cod. pen., perché, in
concorso con la medesima persona, dopo avere abbandonato la refurtiva, in
quanto scoperto dalla polizia, usava violenza per opporsi agli agenti intervenuti,
urtando, con il ciclomotore usato per darsi alla fuga, l’autovettura di servizio,
posizionata dagli agenti a chiusura di una piccola stradina per impedire la fuga,
ammaccando la fiancata destra dell’auto, con l’aggravante di avere commesso il

artt. 110, 635, comma secondo, n. 3, in relazione all’art. 625, n. 7, cod. pen., con
riferimento al danneggiamento della menzionata auto di servizio, con
l’aggravante di avere commesso il fatto su cosa destinata al pubblico servizio.
3. La Corte territoriale ha ritenuto la sussistenza dell’elemento soggettivo sia in
ordine al reato di danneggiamento, sia in ordine al reato di resistenza, avendo
l’imputato proseguito la marcia passando attraverso il ristretto spazio esistente
tra l’autovettura di servizio e un muro per trovare una via di fuga, in tal modo
opponendosi all’arresto, con violenza consistita nello strisciare con il ciclomotore
l’autovettura, che ne era rimasta danneggiata. La Corte ha altresì respinto la
richiesta di riduzione della pena, ritenuta congrua, in relazione ai precedenti
specifici dell’imputato (cinque furti e resistenza a pubblico ufficiale).
4. Nell’interesse del Rapisarda è stato proposto ricorso per cassazione affidato ai
seguenti motivi.
4.1. In primo luogo, nel ricorso si lamenta la mancata applicazione dell’art. 56
cod. pen., in relazione al capo a) dell’imputazione, attesa l’assenza di
consumazione del reato, per essere l’impossessamento stato impedito dal pronto
intervento delle forze dell’ordine, secondo le risultanze del verbale d’arresto, agli
atti del processo, celebrato nelle forme del rito abbreviato.
4.2. In secondo luogo, il ricorrente lamenta l’assoluto vuoto motivazionale, in
ordine alle ragioni che hanno indotto la Corte territoriale a ritenere integrato
l’elemento soggettivo dei reati di cui ai capi b) e c). In particolare, con
riferimento al capo b), si rileva che il mero tentativo di fuga, in assenza di
ulteriori elementi, non può essere posto a fondamento del reato di cui all’art. 337
cod. pen. Quanto al reato di cui al capo c), si insiste per l’assenza di dolo
dell’agente, dal momento che quest’ultimo non voleva provocare un danno
quanto darsi alla fuga, con la conseguenza che la Corte, senza fornire adeguata
motivazione, aveva qualificato una condotta colposa in termini di delitto doloso.
4.3. Da ultimo, il ricorrente lamenta che la sentenza non sia completa in tutte le
sue parti, non dando conto, ad esempio, della posizione giuridica dell’imputato,
se presente o contumace.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.

fatto per assicurarsi l’impunità del reato di cui al capo a); c) del reato di cui agli

2. Il primo motivo è inammissibile, ai sensi dell’art. 606, comma 3, cod. proc.
pen., in quanto prospetta una violazione di legge, consistente nella mancata
applicazione dell’art. 56 cod. pen., non dedotta con i motivi di appello.
3. Il secondo motivo è inammissibile, in quanto manifestamente infondato. La
decisione di questa Corte menzionata nel ricorso (Sez. 6, n. 31716 del
08/04/2003, Laraspata, Rv. 226251, cui si può aggiungere anche la più recente
Sez. 2, n. 41419 del 18/09/2009, X., Rv. 245243) che ha ravvisato il reato di
resistenza ad un pubblico ufficiale nella condotta di chi si dia alla fuga, creando

cod. pen. in comportamenti di minore gravità, ma che comunque si concretino
non in una mera resistenza passiva o in una reazione spontanea e istintiva al
compimento dell’atto del pubblico ufficiale, ma in un vero e proprio impiego di
forza diretto a neutralizzarne l’azione ed a sottrarsi alla presa, guadagnando la
fuga (Sez. 6, n. 8997 del 11/02/2010, Palombo, Rv. 246412).
Coerentemente con tale premessa, questa Corte (Sez. 6, n. 5995 del 24/04/1997,
Marzaloni, Rv. 208312) ha ritenuto che integra gli estremi del delitto di
resistenza a pubblico ufficiale persino la condotta della persona che, sottoposta a
controllo a bordo di un natante, si dia alla fuga, recidendo la cima con la quale la
propria barca era stata agganciata a quella dei pubblici ufficiali legittimamente
intervenuti per un controllo.
Alla stregua di tali corrette premesse in diritto, la motivazione della Corte
territoriale appare priva dei vizi lamentati, proprio perché ha valorizzato la
condotta dell’imputato, il quale aveva proseguito la marcia, passando attraverso
il ristretto spazio esistente tra l’autovettura di servizio e un muro per trovare una
via di fuga, in tal modo opponendosi all’arresto, con violenza consistita nello
strisciare con il ciclomotore l’autovettura, che ne era rimasta danneggiata.
4. Anche il terzo motivo è manifestamente infondato.
Va premesso che, secondo l’orientamento già espresso in passato da questa
Corte (Sez. 2, n. 2386 del 06/11/1984, Di Vita, Rv. 168272), l’elemento
psicologico del delitto di danneggiamento va ravvisato nella coscienza e volontà
di danneggiare, a nulla rilevando il movente o le finalità per le quali il fatto sia
commesso. Il reato, pertanto, sussiste anche quando l’azione sia posta in essere
non al diretto scopo di provocare danno, bensì quale mezzo per conseguire uno
scopo diverso (nel caso di specie, la sentenza ha ritenuto che esattamente la
Corte territoriale aveva ravvisato il dolo eventuale del delitto di danneggiamento
nel fatto di un imputato che, tentando di sfuggire in auto ai carabinieri, aveva
danneggiato sei veicoli parcheggiati sulla pubblica via, escludendo la colpa con
previsione dell’evento configurabile quando l’evento si presenti come possibile e
probabile, ma non sia dallo autore né voluto né considerato di sicuro
accadimento).

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una situazione di pericolo generale, non esclude affatto la violazione dell’art. 337

Alla stregua di tali considerazioni, appare priva di vizi la motivazione della
sentenza impugnata che, per le specifiche modalità del tentativo di fuga, ha
ritenuto non equivocamente sussistente la piena accettazione del rischio di
provocare danni al veicolo della polizia.
5. L’ultima considerazione relativa alla mancata indicazione della posizione
giuridica del Rapisarda e ad una generica incompletezza sul piano formale del
provvedimento impugnato non appare idonea a radicare alcuna violazione di
norma processuale e, in particolare, dell’art. 546 cod. proc. pen., che indica i

6. Alla pronuncia di inammissibilità consegue ex art. 616 cod. proc. pen, la
condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al
versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, in ragione
delle questioni dedotte, appare equo determinare in euro 1.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
Ammende.

Così deciso in Roma il 30/11/2012

Il Componente estensore

li P

‘dente

requisiti di contenuto della sentenza.

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