Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 1131 del 22/03/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 1131 Anno 2014
Presidente: FERRUA GIULIANA
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sul ricorso proposto nell’interesse di
Morelli Enzo, nato a Zumpano il 03/08/1973
avverso la sentenza emessa il 26/01/2012 dalla Corte di appello di Catanzaro
visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Mario Fraticelli, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso

Data Udienza: 22/03/2013

RITENUTO IN FATTO

Il difensore di Enzo Morelli ricorre avverso la pronuncia indicata in epigrafe,
recante la conferma della sentenza di condanna ad anni 3 di reclusione e pene
accessorie di legge – a carico dello stesso imputato, per il reato di bancarotta
per distrazione – emessa dal Tribunale di Cosenza in data 25/01/2011. I fatti si
riferiscono al fallimento della Tele Elettrica S.r.l., dichiarato nel settembre 2001:

di detta società, stando alla rubrica, il Morelli era stato amministratore unico tra
il novembre 1998 ed il febbraio 1999, in seguito liquidatore.
La difesa lamenta:
1. inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 216 e 219 legge fall., che
non consentirebbero di ascrivere i fatti di rilevanza penale ivi contemplati
a soggetti cui si debbano riconoscere qualifiche diverse da quelle
espressamente considerate dal dato normativo.

Stando infatti alla

motivazione del giudice di prime cure, al Morelli sarebbero state

carica di liquidatore, assunta come significativa perché richiamata dal
disposto dell’art. 223 del r.d. n. 267 del 1942: tuttavia, nell’interesse
dell’imputato si obietta che il capo d’imputazione non opera riferimenti di
sorta a quest’ultima norma, né appare comunque motivato (se il
ricorrente dovesse intendersi responsabile in quanto amministratore)
perché di quei fatti distrattivi dovrebbe rispondere soltanto lui, e non
anche i due amministratori che lo avevano preceduto e quello che gli era
subentrato. Sul punto, deve intendersi censurabile la motivazione della
Corte territoriale, laddove si afferma che ai fini della contestazione deve
aversi riguardo alla descrizione del fatto, piuttosto che agli articoli di
legge assunti come violati: i diritti dell’imputato erano stati comunque
menomati, non essendo egli stato messo nella condizione di conoscere
l’addebito e di adottare le linee difensive più opportune;
2. carenza di motivazione della sentenza impugnata, con riferimento al
quantum della presunta distrazione complessiva, visto che il valore delle
rimanenze di magazzino in ipotesi oggetto materiale della condotta era
stato indicato in circa 30 milioni di lire nelle scritture contabili, ma era poi
risultato pari a 550,00 euro in sede di inventario fallimentare, a distanza
di tre anni. In proposito, appare irragionevole l’assunto dei giudici di
appello secondo cui un deprezzamento di quella entità non poteva
ritenersi verosimile (riferendosi a materiale ferroso ed elettrico, soggetto
ad usura ma non facilmente deperibile) e che in ogni caso il liquidatore
avrebbe dovuto vigilare sulla conservazione dei beni in questione: si
tratta, secondo il difensore, di argomenti fondati su mere presunzioni,
essendo impossibile per chiunque impedire una fisiologica perdita di
valore di merci peculiari, e risultando dimostrato al contrario che le merci
medesime erano custodite in luoghi aperti, oltre che facilmente accessibili
a terzi;
3. erronea applicazione dell’art. 216, ultimo comma, legge fall., essendo
stata applicata la pena accessoria ivi prevista per la durata di anni 10,

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addebitate delle distrazioni verificatesi nel 2001, quando egli rivestiva la

malgrado l’orientamento giurisprudenziale – che il ricorrente segnala
essere ormai costante – secondo cui detta durata dovrebbe essere
determinata in misura corrispondente all’entità della pena principale
irrogata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.1 n primo motivo di gravame si palesa innanzi tutto generico, in quanto il
ricorrente ripropone le medesime doglianze fatte valere in sede di giudizio di
appello, senza neppure prendere validamente in considerazione gli argomenti in
base ai quali la Corte territoriale ha ritenuto infondate le doglianze già proposte.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, il difetto di specificità del motivo rilevante ai sensi dell’art. 581, lett. c), cod. proc. pen. – va infatti apprezzato non
solo in termini di indeterminatezza, ma anche «per la mancanza di correlazione
tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a
fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare
le esplicitazioni del giudice censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità che
conduce, a norma dell’art. 591, comma 1, lett. c), cod. proc. pen.,
all’inammissibilità dell’impugnazione» (Cass., Sez. II, n. 29108 del 15/07/2011,
Cannavacciuolo).
Peraltro, la censura è da considerare manifestamente infondata. Nel caso di
specie, dinanzi ad una rubrica che espressamente evoca – per richiamare il
criterio di riferibilità all’imputato del delitto contestatogli, trattandosi di reato
proprio – sia la veste di amministratore che quella di liquidatore della società
fallita, non ha infatti alcuna rilevanza l’omessa menzione dell’art. 223 legge fall.,
né la responsabilità del Morelli potrebbe intendersi esclusa solo per la presa
d’atto che lo stesso addebito avrebbe (in ipotesi) dovuto ascriversi anche ad altri
soggetti.
1.2 Quanto al secondo profilo di doglianza, è evidente che gli argomenti
utilizzati dal difensore dell’imputato tendono a sottoporre al giudizio di legittimità
aspetti che riguardano la ricostruzione del fatto e l’apprezzamento del materiale
probatorio, da riservare alla esclusiva competenza del giudice di merito e già
adeguatamente valutati sia in primo che in secondo grado.
Sino alla novella introdotta con la legge n. 46 del 2006, la giurisprudenza di
questa Corte affermava pacificamente che al giudice di legittimità deve ritenersi
preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione
impugnata e l’autonoma adozione di nuovi o diversi parametri di ricostruzione e

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1. Il ricorso deve ritenersi inammissibile, sotto vari profili.

valutazione dei fatti, ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore
capacità esplicativa, dovendo soltanto controllare se la motivazione della
sentenza di merito fosse intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e
spiegare l’iter logico seguito. Quindi, non potevano avere rilevanza le censure
che si limitavano ad offrire una lettura alternativa delle risultanze probatorie, e la
verifica della correttezza e completezza della motivazione non poteva essere
confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite: la Corte, infatti,
«non deve accertare se la decisione di merito propone la migliore ricostruzione

questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una
plausibile opinabilità di apprezzamento» (v., ex plurimis, Cass., Sez. IV, n. 4842
del 02/12/2003, Elia).
I parametri di valutazione possono dirsi solo parzialmente mutati per effetto
delle modifiche apportate agli artt. 533 e 606 cod. proc. pen. con la ricordata
novella: in linea di principio, questa Corte potrebbe infatti ravvisare un vizio
rilevante in termini di inosservanza di legge processuale, e per converso in
termini di manifesta illogicità della motivazione, laddove si rappresenti che le
risultanze processuali avrebbero in effetti consentito una ricostruzione dei fatti
alternativa rispetto a quella fatta propria dai giudici di merito, purché tale
diversa ricostruzione abbia appunto maggior spessore sul piano logico
(realizzando così il presupposto del “ragionevole dubbio” ostativo ad una
pronuncia di condanna).
Si è peraltro più volte ribadito che anche all’esito della suddetta riforma «gli
aspetti del giudizio che consistono nella valutazione e nell’apprezzamento del
significato degli elementi acquisiti attengono interamente al merito e non sono
rilevanti nel giudizio di legittimità se non quando risulti viziato il discorso
giustificativo sulla loro capacità dimostrativa e […], pertanto, restano
inammissibili, in sede di legittimità, le censure che siano nella sostanza rivolte a
sollecitare soltanto una rivalutazione del risultato probatorio» (Cass., Sez. V, n.
8094 dell’11/01/2007, Ienco, Rv 236540). E, proprio con riguardo al principio
dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”, si è da ultimo precisato che esso non ha
comunque inciso sulla natura del sindacato della Corte di Cassazione in punto di
motivazione della sentenza e non può, quindi, «essere utilizzato per valorizzare e
rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto,
eventualmente emerse in sede di merito e segnalate dalla difesa, una volta che
tale duplicità sia stata oggetto di attenta disamina da parte del giudice
dell’appello» (Cass., Sez. V, n. 10411 del 28/01/2013, Viola, Rv 254579).
Nella fattispecie oggi in esame, al contrario, la difesa punta proprio a far
rivalutare a questa Corte le emergenze istruttorie in ordine alle modalità di

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dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma limitarsi a verificare se

custodia ed alle possibilità di deterioramento delle rimanenze di magazzino,
occupandosi soltanto degli elementi di fatto a dispetto della dedotta sussistenza
di vizi ex art. 606, lett. e), cod. proc. pen.
1.3 D terzo motivo di ricorso è a sua volta manifestamente infondato.
La questione concernente la durata della pena accessoria applicata al Morelli
è da considerare oramai superata, alla luce dell’intervento del giudice delle leggi.
Nella giurisprudenza di questa stessa Sezione si era infatti registrato un
contrasto interpretativo, con pronunce che avevano affermato – aderendo alla

impropria, è illegittima la pena accessoria irrogata d’ufficio – in sede di
patteggiamento allargato – nella misura fissa di cinque anni, in applicazione
dell’art. 29 cod. pen., con riferimento all’interdizione dei pubblici uffici, e di anni
dieci, ai sensi dell’art. 216, ultimo comma, legge fall. con riferimento
all’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità per la
stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, in quanto
essendo la pena accessoria prevista per il delitto di bancarotta determinata dalla
legge soltanto nel massimo, la sua durata deve corrispondere, ai sensi dell’art.
37 cod. pen., a quella della pena principale inflitta, nella specie di durata
inferiore» (Cass., Sez. V, n. 23720 del 31/03/2010, Travaini, Rv 247507);
ancora nel 2010, si era invece ritenuto che «in tema di bancarotta fraudolenta
impropria, è legittima la pena accessoria – irrogata in sede di patteggiamento dell’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale ed all’incapacità di
esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per dieci anni e, pertanto, nella
specie, in misura superiore a quella della pena principale inflitta, trattandosi di
pene accessorie la cui durata è fissata dal legislatore in misura predeterminata e
fissa e, quindi, a prescindere dalla durata della pena principale, con conseguente
inapplicabilità dell’art. 37 cod. pen.» (Cass., Sez. V, n. 269 del 10/11/2010,
Marianella, Rv 249500).
Alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 216, comma quarto, legge
fall., sollevata da questa Corte e dalla Corte di appello di Trieste nel 2011,
faceva quindi seguito la declaratoria di inammissibilità da parte della Corte
Costituzionale (sentenza n. 134/2012): confermando l’interpretazione più
rigorosa, secondo cui la legge impone una predeterminazione della pena
accessoria in misura fissa, la Corte stessa ha osservato che la soluzione di
calibrare l’entità di quella sanzione sulla durata di quella principale, sollecitata
nelle ordinanze di rimessione, «è solo una tra quelle astrattamente ipotizzabili in
caso di accoglimento della questione: infatti sarebbe anche possibile prevedere
una pena accessoria predeterminata ma non in misura fissa (ad esempio da
cinque a dieci anni) o una diversa articolazione delle pene accessorie in rapporto

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tesi oggi prospettata dalla difesa – che «in tema di bancarotta fraudolenta

all’entità della pena detentiva.

Risulta evidente che l’addizione normativa

richiesta dai giudici a quibus non costituisce una soluzione costituzionalmente
obbligata, ed eccede i poteri di intervento di questa Corte, implicando scelte
affidate alla discrezionalità del legislatore».

2. La declaratoria di inammissibilità del ricorso, ai sensi dell’art. 616 cod.
proc. pen., impone la condanna dell’imputato al pagamento delle spese del
procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della

Corte Cost., sent. n. 186 del 13/06/2000) – al versamento in favore della Cassa
delle Ammende della somma di C 1.000,00, così equitativamente stabilita.

P. Q. M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
Ammende.

Così deciso il 22/03/2013.

causa di inammissibilità, in quanto riconducibile alla volontà del ricorrente (v.

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