Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 113 del 14/12/2015


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 113 Anno 2016
Presidente: BIANCHI LUISA
Relatore: CAPPELLO GABRIELLA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
LISO SAVINO N. IL 11/08/1972
avverso l’ordinanza n. 102/2012 CORTE APPELLO di BARI, del
19/02/2015
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GABRIELLA
CAPPELLO;
lette/igentite le conclusioni del PG Dott. -te.24.2,«07 12-.

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Udit i difensor Avv.;

Data Udienza: 14/12/2015

Ritenuto in fatto
1.

LISO Savino ha proposto ricorso avverso l’ordinanza 19

febbraio 2015 della Corte d’Appello di Bari che ha rigettato la richiesta di
riparazione dell’ingiusta detenzione subita in carcere dal 05 dicembre
2006 al 05 aprile 2007, con riferimento al reato di partecipazione ad

ruolo di assicurare i collegamenti con l’esterno a CAMPANILE Riccardo,
detenuto in Foggia, e in relazione al quasi-reato di cui al capo 2
(istigazione ad azione di sangue in danno di PESCE Giuseppe).
2. Secondo quanto emerge dall’ordinanza impugnata, il titolo era
stato confermato dal tribunale adito per il riesame, ma l’ordinanza era
stata annullata con rinvio dalla Corte di Cassazione.
Nelle more del giudizio di rinvio era intervenuta scarcerazione da
parte del G.I.P., cosicché, secondo la corte territoriale, nel caso di specie,
si era innanzi ad un’ipotesi di ingiustizia sostanziale ex art. 314 comma 1
c.p.p., essendo stata l’assoluzione definitivamente pronunciata senza che
fosse previamente intervenuto un provvedimento irrevocabile che
accertasse il difetto iniziale o sopravvenuto delle condizioni di applicabilità
della misura ai sensi degli artt. 273 e 280 codice di rito.
La corte territoriale ha ritenuto esistenti profili di colpa grave nel
comportamento del LISO, nella genesi della restrizione cautelare,
deducendoli dagli atti processuali, da cui era emerso come provato che:
sull’utenza detenuta in carcere da CAMPANILE Riccardo (soggetto
al vertice del clan PASTORE) erano state intercettate conversazioni di
costui con la moglie, nel corso delle quali egli faceva ripetutamente
riferimento a “Savino” o “zio Savino” come soggetto deputato al ruolo di
assistenza alla famiglia del detenuto e di interessamento alle sue vicende
giudiziarie;
l’imputato era stato identificato nel “Savino” menzionato nelle
conversazioni, anche sulla scorta di quanto dichiarato dal CAMPANILE al
P.M. in data 27.07.07 al p.m.;
il LISO era ben conscio della caratura criminale del CAMPANILE;
egli era consapevole dell’intenzione del primo di cagionare la morte
di PESCE Giuseppe, appartenente al clan rivale dei PISTILLO;
egli, infine, aveva fatto da tramite nel veicolare messaggi tra il
CAMPANILE e tale PIOMBAROLO.
2

associazione per delinquere di tipo mafioso (clan Pastore di Andria), con il

Sebbene il G.U.P. non avesse ritenuto la condotta così descritta
dimostrativa di un’adesione o solidarietà dell’imputato alla compagine
criminosa in esame, potendo la stessa esser stata determinata
esclusivamente da motivi di amicizia verso il CAMPANILE e di vicinanza
affettiva alla famiglia di costui, tali comportamenti sono stati ritenuti dal
giudice della riparazione indicativi di una colpa grave in rapporto
eziologico con la detenzione.
In altri termini, per quel giudice, poiché il detenuto CAMPANILE era

l’elementare regola prudenziale che suggerisce anche a un pregiudicato
per reati comuni di non allacciare senza ragione rapporti con esponenti
della criminalità organizzata, pena il coinvolgimento in più gravi reati,
aveva invece intrattenuto con il CAMPANILE rapporti assidui, mettendosi
al servizio di costui, mantenendo rapporti con avvocati e svolgendo il
ruolo di collegamento con l’esterno, quantomeno con il PIOMBAROLO. La
consapevolezza in capo al LISO della caratura criminale del CAMPANILE
doveva ritenersi poi provata, per la corte barese, alla luce della frequenza
dei contatti, della dimestichezza dei rapporti (il LISO essendo indicato dal
CAMPANILE alla moglie come soggetto cui rivolgersi in caso di bisogno) e
della paritaria condizione di pregiudicati.
La scelta di coltivare tali ambigui rapporti (dei quali, la corte
sottolinea, il LISO non si è neppure curato di fornire la minima
spiegazione), è stata pertanto stigmatizzata come condotta di
sconsiderata imprudenza, oggettivamente idonea ad essere interpretata
come indizio di complicità, causalmente collegata alla detenzione subita.
3. Con il proposto ricorso, la parte deduce il travisamento di una
prova decisiva, nonché la mancanza, contraddittorietà e/o manifesta
illogicità della motivazione ex art. 606 comma 1 lett. b), c) ed e) c.p.p.
In particolare, si evidenzia che i rapporti tra CAMPANILE e LISO
non potevano definirsi frequenti, poiché il G.U.P., pur avendo rimarcato
che non vi erano dubbi circa l’identificazione dell’interlocutore “Savino”
nel LISO per quanto riguarda la conversazione del 13/4/2002, avendolo
dichiarato lo stesso CAMPANILE nel suo interrogatorio, aveva pure
affermato che non vi era prova che, ogni qualvolta il CAMPANILE usava
quel nome, si rivolgesse proprio al LISO. Era stato lo stesso G.U.P. nella
sentenza assolutoria, inoltre, a definire “poche” le telefonate intercettate
nelle quali il LISO colloquiava con il CAMPANILE o nelle quali veniva fatto
il suo nome. Quanto alla dimestichezza nei rapporti e alla paritaria
condizione di pregiudicati, la parte assume che la frequentazione con
3

un pregiudicato, al vertice di un clan mafioso, il ricorrente, trascurando

esponenti della criminalità organizzati e malavitosi, tanto più se parenti,
non integrerebbe una colpa grave, rilevante ai presenti fini.
4.

Il Procuratore Generale, nella sua memoria, ha concluso per

l’inammissibilità del ricorso, risultando la motivazione del provvedimento
impugnato immune da censure e valendo, quali comportamenti ostativi,
secondo la giurisprudenza di legittimità, le frequentazioni ambigue
consapevolmente intrattenute dall’istante con ambienti delinquenziali o
soggetti esponenti della criminalità organizzata nella quale il giudice della

5.

Con memoria, depositata in data 25 novembre 2015,

l’Avvocatura dello Stato per il Ministero convenuto, ha concluso
preliminarmente per la declaratoria d’inammissibilità del ricorso, in
subordine per sua infondatezza, condividendo le argomentazioni svolte
dal procuratore generale.
Considerato in diritto

1. Il ricorso va rigettato.
Va, infatti, osservato, sulla scorta del costante orientamento di
questa corte (cfr. sez. U., sentenza n. 34559 del 26/06/2002 C.. (dep.
15/10/2002), Rv. 222263; ma anche successivamente sez. 4,
sentenza n. 9212 del 13/11/2013 Cc. (dep. 25/02/2014) Rv. 259082)
che “In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il giudice di
merito, per valutare se chi l’ha patita vi abbia dato o concorso a darvi
causa con dolo o colpa grave, deve apprezzare, in modo autonomo e
completo, tutti gli elementi probatori disponibili, con particolare
riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino edatante o
macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o
regolamenti, fornendo del convincimento conseguito motivazione, che,
se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità.
(Nell’occasione, la Corte ha affermato che il giudice deve fondare la
deliberazione conclusiva su fatti concreti e precisi e non su mere
supposizioni, esaminando la condotta tenuta dal richiedente sia prima,
sia dopo la perdita della libertà personale, indipendentemente
dall’eventuale conoscenza, che quest’ultimo abbia avuto, dell’inizio
dell’attività di indagine, al fine di stabilire, con valutazione “ex ante”,
non se tale condotta integri estremi di reato, ma solo se sia stata il
presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore
dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità
come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa
ad effetto).

4

cautela aveva ritenuto il LISO inserito.

Nel caso che ci occupa, l’iter argomentativo seguito dalla
corte territoriale resiste alle censure di cui al ricorso, in quanto gli
elementi probatori emersi dal processo costituiscono condotte
indicative di una eclatante e macroscopica negligenza ed
imprudenza, presupposto che ha ingenerato la falsa apparenza della
sua configurabilità come illecito penale dando luogo, così, alla
detenzione con rapporto di causa ed effetto.
In sostanza, l’aver il LISO intrattenuto rapporti confidenziali (il
dialogo del 13/04/2002, riportato alla pag. 4 del ricorso, basta di per

sé a dar conto di tale familiarità tra i due) con il CAMPANILE e la sua
famiglia, nella consapevolezza (determinata dallo stato detentivo del
CAMPANILE e dal suo ruolo apicale nel clan PASTORE) della caratura
criminale di quegli, costituiscono condotta certamente valutabile in
termini di ostacolo all’insorgenza del diritto azionato.
Per consolidato orientamento giurisprudenziale, infatti, “In tema
di riparazione per l’ingiusta detenzione, integra gli estremi della colpa
grave ostativa al riconoscimento del diritto, la condotta di chi, nei reati
contestati in concorso, abbia tenuto, pur consapevole dell’attività
criminale altrui, comportamenti percepibili come indicativi di una sua
contiguità” (cfr. Sez. 4, n. 45418 del 25/11/2010 Cc. (dep.
27/12/2010) Rv. 249237; vedi più recentemente, anche Sez. 4, n.
5628 del 13/11/2013 Cc. (dep. 04/02/2014) Rv. 258425).
In tale cornice di diritto, la corte territoriale ha correttamente
valutato la condotta del LISO, ai soli fini dello scrutinio demandatole,
congruamente motivando in ordine al rapporto di causa ed effetto della
condotta gravemente imprudente del LISO rispetto alla detenzione dal
medesimo subita.
2. – Dalle considerazioni che precedono discende, pertanto, il
rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle
spese processuali nonché alla rifusione delle spese in favore del
Arì
Ministero dell’Economia e delle Finanze che guida in euro 1.000,00.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali nonché alla rifusione delle spese in favore del
Ministero dell’Economia e delle Finanze che liquida in euro 1.000,00.
Deciso in Roma il 14 dicembre 2015.
Il Consigliere est.
briella Cappelli

esidente
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