Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 11166 del 12/12/2013


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 11166 Anno 2014
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: D’ISA CLAUDIO

SENTENZA
Sul ricorso proposto da:
COLETTA GAETANO

n. il 2.08.1979

avverso l’ordinanza n. 44/2013 del Tribunale del Riesame di Trento del
7.05.2013
Visti gli atti, l’ordinanza ed il ricorso
Udita in UDIENZA camerale del 12 dicembre 2013 la relazione fatta dal
Consigliere dott. CLAUDIO D’ISA
Udite le richieste del Procuratore Generale nella persona del dott.
Francesco Salzano che ha concluso per l’annullamento dell’impugnata
sentenza con rinvio limitatamente al 2° motivo di ricorso, rigetto nel
resto.
L’avv. Luca Perrone, difensore del ricorrente chiede l’accoglimento del
ricorso.

Data Udienza: 12/12/2013

RITENUTO IN FATTO E DIRITTO
Con ordinanza del 17.05.2012 il GIP del Tribunale di Trento applicava a
COLETTA Gaetano la misura della custodia cautelare domiciliare in relazione al
reato ex art. 416 cod. pen., nella qualità di mero partecipe del sodalizio
criminoso, ed ai reati ex artt. 110, 81, 348, 445 e 443 cod. pen. e 9, comma 7,
della legge 376/2000.
Le indagini svolte dall’A.G. di Trento hanno messo in evidenza l’esistenza di
un commercio non occasionale di prodotti anabolizzanti e di medicinali

COLETTA, che operava quale “body builder”, avrebbe in modo abusivo
acquistato, detenuto e verosimilmente destinato a terzi sostanze anabolizzanti e
farmaci non consentiti. Alle pagine 33 e seguenti dell’ordinanza cautelare
vengono elencati i fatti e le condotte specificamente riferibili all’indagato, fatti
consistenti in cessioni di sostanze e farmaci a più persone, solo in parte
identificate.
L’ordinanza cautelare veniva impugnata dall’indagato innanzi al Tribunale
sezione riesame.
Il giorno prima della celebrazione dell’udienza camerale, il GIP revocava la
misura coercitiva.
Il Tribunale di Trento, quale giudice del riesame, confermava con ordinanza
dell’8.06.2012 la misura cautelare, avverso di essa proponeva ricorso per
cassazione il COLETTA.
Con sentenza del 17.01.2013 questa Corte, sez. III, ha annullato con rinvio
l’impugnata ordinanza per mancanza di valida ed effettiva motivazione in ordine
al reato associativo ed alla qualificazione dei reati fine.
Con ordinanza del 7.05.2013, il Tribunale di Trento, in sede di rinvio, ha
rigettato l’originario riesame confermando l’ordinanza applicativa della misura
cautelare.
Ricorre, nuovamente, in Cassazione avverso tale ultima ordinanza il
COLETTA denunciando:
1) Violazione degli artt. 273 e 280 c.p.p, nonché vizio di motivazione in
relazione alla sussistenza dei gravi indizi del reato associativo e travisamento
della prova con riferimento al ruolo ricoperto dal Coletta. Ci si riferisce ai ritenuti
rapporti diretti tra l’indagato ed il Seminara Roberto, ricoprente un ruolo
preminente nella struttura associativa, diversamente da quanto emerge dalla
ordinanza cautelare che fa riferimento esclusivamente a rapporti tra il COLETTA
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abusivamente acquisiti, detenuti, utilizzati e fatti utilizzare. In particolare il

e lo Scarpelli, cessionario di sostanze dopanti da parte del primo; per altro, si
evidenzia che i contatti COLETTA-Scarpelli sono risultati assolutamente sporadici
e tali da non offrire un serio indizio quanto alla consapevole partecipazione del
COLETTA ad un sodalizio criminoso. Si richiama l’intercettazione telefonica del
27.01.2012, intercorsa tra lo Scarpelli ed il Seminara, per avvalorare che i
rapporti intercorrevano tra questi due e non tra il COLETTA ed il Seminara. In
ragione di tali oggettivek . circostanza, si argomenta, appare illogica e
contraddittoria la motivazione offerta dal Tribunale del Riesame di Trento, atteso

rapporti tra il COLETTA ed il solo Scarpelli Tommaso, circostanza questa che
elide in radice la evocata consapevole partecipazione del ricorrente ad un (a lui
ignoto) sodalizio criminoso.
Manca, inoltre, per il ricorrente una congrua motivazione che dia conto
della consapevolezza del COLETTA di apportare, acclarata la esclusività del
rapporto, un contributo alla vita della associazione nella quale gli associati, con
pari coscienza e volontà, fanno convergere il loro contributo in vista della
realizzazione di un programma comune. Il Tribunale, invero, non ha dimostrato e
coerentemente motivato perché le condotte poste in essere dal COLETTA
abbiano trasceso il significato negoziale delle singole operazioni sostanziandosi,
invece, nella ” disponibilità a quell’impegno permanente e continuativo a
svolgere un determinato compito che costituisce il tratto distintivo tra il reato
associativo ed il concorso di persone nel reato, al fine di realizzare un
programma criminoso” soprattutto se, come nel caso di specie, il coinvolgimento
del ricorrente non è andato oltre i rapporti interpersonali con il solo Scarpelli.
2) Violazione dell’art. 9 comma 7 della L. 376/2000 e artt. 348 e 445 cod.
pen. e vizio di motivazione.
Si evidenzia che sussiste un rapporto di specialità tra il richiamato art. 9 e
le norme del codice penale indicate atteso che ” colui che senza esser in
possesso della prescritta abilitazione professionale, commercia farmaci e
sostanze dopanti esercita abusivamente, attraverso la medesima condotta, la
professione di farmacista e, qualora le sostanze medicinali vengano commerciate
in specie, qualità e quantità non corrispondenti alle indicazioni mediche, pone il
medesimo comportamento sanzionato dall’art. 445 cod. pen.”
La previsione dell’art. 9 comma 7 L. 376/2000 introduce una fattispecie
speciale che assorbe quelle dell’esercizio abusivo della professione di farmacista
e della somministrazione di farmaci in modo pericoloso per la salute.

che il compendio investigativo conduce nella direzione della bilateralità dei

Sul punto il Tribunale non ha offerto alcuna motivazione.
3) Violazione dell’art. 274 c.p.p e vizio di motivazione.
Si rileva che la motivazione addotta a sostegno della sussistenza delle
esigenze cautelari, impugnate in ragione di un concreto ed attuale interesse
nell’ottica di un giudizio ex art. 314 c.p.p., denota violazione di legge e
manifesta illogicità. Il Tribunale ha motivato sul punto ritenendo la sussistenza
delle esigenze cautelari in ragione “delle quantità trattate, dalla pluralità dei
contati e delle cessioni e dal rilievo che il prevenuto viva del traffico illecito”. Si

elementi indiziari estranei al procedimento e non elementi concreti,
trascurandosi il dato oggettivo della assoluta episodicità dei rapporti intercorsi
con il solo Scarpelli.
Il ricorso va dichiarato inammissibile.
Ritiene il Collegio che debba considerarsi, al fine di verificare la sussistenza
dell’interesse ad agire, la circostanza della revoca della misura cautelare de qua
da parte del GIP, prima che il Tribunale del riesame si pronunciasse.
Sul punto questa Corte ha affermato (Sez. 6, Sentenza n. 37764 del
21/09/2010 Cc. Rv. 248245 ) che persiste l’interesse dell’indagato
all’impugnazione del provvedimento applicativo di una misura cautelare
custodiale poi revocata o dell’efficacia poi cessata, nella prospettiva di una futura
richiesta di riparazione per ingiusta detenzione, soltanto quando l’indagato voglia
far valere l’insussistenza delle condizioni di applicabilità della misura restrittiva in
relazione a presupposti diversi da quelli suscettibili di fondare la pronunzia di
proscioglimento nel procedimento principale per una delle cause menzionate nel
primo comma dell’art. 314 cod. proc. pen..
In particolare, si è affermato che la pronuncia inoppugnabile di
annullamento costituisce una decisione idonea a fondare il diritto
dell’indagato alla riparazione per ingiusta detenzione (art. 314 c.p.p.),
ancorché soltanto con riferimento alla misura della custodia cautelare,
comprensiva anche degli arresti domiciliari (Cass., Sez. Un., 12 ottobre
1993, Corso, rv. 195357). Il raccordo tra interesse all’impugnazione e diritto
alla riparazione per ingiusta detenzione (art. 314 c.p.p.) opera limitatamente
alla deduzione dell’insussistenza delle condizioni genetiche o speciali previste
dagli artt. 273 e 280 c.p.p., con esclusione delle esigenze cautelari (Cass.,
Sez. Un., 13 luglio 1998, rv. 211194; Cass., Sez. Un., 25 giugno 1997, rv.
208165; Cass., Sez. Un., 28 marzo 2006, rv. 234268). In linea di principio

argomenta che il ragionamento è minato dal fatto che sono staiti utilizzati

può quindi sussistere, sotto il profilo di cui all’art. 314 c.p.p., l’interesse
dell’indagato a una pronuncia sul ricorso attinente alla legittimità della
custodia cautelare, in punto di gravi indizi di colpevolezza, quando la stessa
non sia più in atto.
E’ stato peraltro puntualizzato nella più recente giurisprudenza di

questa Corte (sentenze nn. 9943/06, 27580/07, 38855/07, 2210/07,
4222/07, 34605/08) che anche in caso di contestazione della sussistenza
delle condizioni di applicabilità delle misure cautelari necessita ugualmente

568 c.p.p., comma 4, come condizione di ammissibilità di qualsiasi
impugnazione, la sussistenza (e la persistenza al momento della decisione)
di un interesse diretto a rimuovere un effettivo pregiudizio derivato alla
parte dal provvedimento impugnato. La regola contenuta nel citato art. 568
c.p.p. è, infatti, applicabile anche al regime delle impugnazioni contro i
provvedimenti de liberiate, in forza del suo carattere generale, implicando
che solo un interesse pratico, concreto ed attuale del soggetto impugnante
sia idoneo a legittimare la richiesta di riesame. Pertanto, come ammesso
anche dalla succitata giurisprudenza delle Sezioni Unite, un tale interesse
non può risolversi in una mera ed astratta pretesa alla esattezza teorica del
provvedimento impugnato, priva cioè di incidenza pratica sull’economia del
procedimento.
Ora, un’applicazione pressoché automatica dei principi posti da tale
giurisprudenza delle SS.UU. presenta il rischio di accogliere una nozione di
“interesse” troppo ampia, che finisce per presumere sempre e comunque che
l’indagato agisca anche all’utile fine di precostituirsi il titolo in funzione di
una futura richiesta di un’equa riparazione per l’ingiusta detenzione ai sensi
della disposizione contenuta nell’art. 314 c.p.p., comma 2. Oltre, infatti, alla
ipotesi di palese insussistenza dell’interesse concreto ed attuale,
contemplata nel citato art. 314 c.p.p., comma 4 (che esclude che la
riparazione sia dovuta qualora le limitazioni conseguenti all’applicazione
della custodia cautelare siano sofferte anche in forza di altro titolo), bisogna
in generale considerare che la disposizione dell’art. 314 cpv. c.p.p. disciplina
una fattispecie tendenzialmente eccezionale e residuale rispetto alle altre
ipotesi previste.
Al riguardo, è doveroso sottolineare, da un lato, che il procedimento
per la riparazione dei danni da ingiusta detenzione non può comunque

la verifica dell’attualità e della concretezza dell’interesse, richiedendo l’art.

essere attivato prima che vi sia stata una pronuncia conclusiva del
procedimento principale nei confronti dell’accusato (art. 315 c.p.p.) e,
dall’altro, che il diritto alla riparazione, già direttamente connesso a una
conclusione del procedimento principale con una delle formule di cui all’art.
14 c.p.p., comma 1 può scaturire dall’accertata insussistenza delle condizioni
di applicabilità della misura cautelare previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p.
nel caso in cui il procedimento principale si concluda con una pronuncia di
condanna o con una formula liberatoria (anche) diversa da quelle previste

Ne consegue, sul piano logico e sistematico, che un’esclusione delle
condizioni di applicabilità della misura cautelare, stabilita nel procedimento
de liberiate sulla base di ragioni riconducibili a quelle di cui all’art. 314
c.p.p., comma 1 in tanto potrà avere un rilievo autonomo quale causa
legittimante l’azione per la riparazione, in quanto si connoti per presupposti
diversi da quelli suscettibili di fondare la analoga pronuncia principale. In
mancanza di tale diversità, infatti, sarà quest’ultima pronuncia, e solo essa,
a costituire titolo per la riparazione.
Da tanto consegue che l’interesse a coltivare il ricorso in materia de
liberrate in riferimento a una futura utilizzazione della pronuncia in sede di
riparazione per ingiusta detenzione dovrà essere oggetto di una specifica e
motivata deduzione, idonea a evidenziare in termini concreti, alla luce dei
parametri di valutazione sopra illustrati, il pregiudizio che deriverebbe dalla
omissione della pronuncia medesima.
Considerato poi che la domanda di riparazione – come si evince dal
coordinato disposto dell’art. 315 c.p.p., comma 3 e dell’art. 645 c.p.p.,
comma 1 – è atto riservato personalmente alla parte, occorre che
l’intenzione della sua futura presentazione sia con certezza riconducibile alla
sua volontà (Cass. sent. 3531 del 2009). Ora, nella specie, da un lato, non
risulta in atti che a tale onere di specifica e personale deduzione si sia
adempiuto. In ragione di tutto quanto sopra, il ricorso deve essere dichiarato
inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse.
Ricorrono giuste ragioni, per le questioni in diritto affrontate, per non
disporre la condanna al pagamento delle spese processuali e di una somma
in favore della cassa delle ammende.
a.n/Q- —L

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