Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 11161 del 27/02/2014


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 11161 Anno 2014
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: IANNELLO EMILIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI
BRESCIA
nei confronti di:
TRICCI SERGIO N. IL 03/06/1965
RAIANO CONCETTA N. IL 10/04/1973
avverso la sentenza n. 786/2012 TRIBUNALE di CREMA, del
25/01/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 27/02/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. EMILIO IANNELLO
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. A ri6e(0 òi PO Pot.°
che ha concluso per ,e
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Udito, per la parte civile, l’Avv
Uditi difensor Avv.

G

Data Udienza: 27/02/2014

Ritenuto in fatto

1. Tricci Sergio e Raiano Concetta erano tratti a giudizio per rispondere del
reato di furto di merce varia (bottiglie di liquore, amaro, birra, un biberon, una
bottiglia di latte e una tazza) per un valore complessivo di € 143,27 dai banchi di
vendita di un supermercato, aggravato dall’essere le cose esposte per necessità
e consuetudine alla pubblica fede: fatto commesso in Crema il 12/10/2011.
Con sentenza del 25/01/2013, il Tribunale di Crema, esclusa la circostanza

antitaccheggio – e riqualificato pertanto il fatto come furto semplice, dichiarava
non doversi procedere, per difetto di querela.

2. Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione il Procuratore
generale presso la Corte d’appello di Brescia denunciando violazione di legge e
vizio di motivazione con riferimento alla esclusione dell’aggravante contestata.
Rileva infatti che, da un lato, in punto di diritto, secondo la prevalente
giurisprudenza della Suprema Corte, il sistema antitaccheggio presente sui capi
non esclude l’aggravante dell’esposizione alla pubblica fede, in quanto non
consente il controllo del percorso della merce ma solo una rilevazione acustica
qualora il prodotto con le placche antitaccheggio passi attraverso i congegni che
lo rilevano, dall’altro, in punto di fatto, non si evince comunque dalla motivazione
della sentenza che i prodotti asportati fossero muniti dei detti dispositivi,
dovendosi anzi escludere tale circostanza trattandosi, in prevalenza, di bottiglie
di liquore e di birra su cui tale apposizione non è possibile.
Deduce inoltre violazione dell’art. 526 cod. proc. pen. per avere il giudice a
quo ricostruito i fatti sulla scorta di una frase

(“al di là della barriera

antitaccheggio”) contenuta in querela, atto presente agli atti del fascicolo del
dibattimento ai sensi dell’art. 431 lett. a) cod. proc. pen. e non invece per
acquisizione operata quale prova del suo contenuto, dandone atto verbale e
conseguente lettura sull’accordo delle parti.

Considerato in diritto

3. Il ricorso è fondato, nei termini appresso precisati.

3.1. Ritiene questo Collegio che, nel contrasto ravvisabile nella
giurisprudenza di questa S.C. sulla questione della configurabilità dell’aggravante
di cui all’art. 625, n. 7, cod. pen. (fatto commesso su cose esposte per necessità
o per consuetudine alla pubblica fede), ove il furto abbia ad oggetto cose esposte

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aggravante – risultando dalla querela la presenza nel supermercato di un sistema

all’interno di esercizio commerciale dotato di sistema antitaccheggio – per la tesi
affermativa essendosi espresse Sez. 5, n. 24862 del 25/02/2011, Leopoldo, Rv.
250914; Sez. 5, n. 49640 del 02/10/2009, Porcelli, Rv. 245820; in senso
contrario registrandosi invece le pronunce di Sez. 2, n. 38716 del 25/09/2009,
Lo Cascio, Rv. 245300; Sez. 5, n. 39429 del 31/01/2005, Raimondo, non mass.;
Sez. 4, n. 7297 del 16/01/2004, Pino, non mass.; Sez. 4, n. 46531 del
29/10/2003 – dep. 04/11/2004, Pino, non mass., nonché, incidentalmente, Sez.
4 n. 35637 del 13/05/2009, Duna, non mass. – sia preferibile la soluzione

Come infatti condivisibilmente evidenziato da ultimo dalla citata Sez. 2, n.
38716 del 2009, «la ratio dell’aggravamento è rappresentata dalla esigenza di
apprestare una tutela penale rafforzata per le cose mobili che, per necessità,
consuetudine o per destinazione delle cose stesse, sono lasciate dal titolare di
tali beni prive di una diretta ed effettiva custodia, permanentemente o per un
determinato periodo di tempo. Agli effetti che qui rilevano, dunque, la “pubblica
fede” non e’ considerata quale bene giuridico a se’ stante, meritevole di una
propria tutela penale, come avviene, appunto, nei reati contro la fede pubblica,
ma unicamente in senso oggettivo, quale termine qualificativo del concetto di
“esposizione”. L’esposizione alla pubblica fede, pertanto, determina una
condizione delle cose mobili, per la quale le stesse, anzichè essere custodite da
chi ne è titolare, ricevono protezione essenzialmente dal pactum fiduciae tra i
consociati in ordine al rispetto della proprietà e del possesso altrui. Un vincolo
etico – normativo, quindi, la dissoluzione del quale giustifica l’inasprimento della
sanzione. Ciò spiega il rigore che ha ispirato il tradizionale orientamento secondo
il quale l’aggravante in esame può essere esclusa da una sorveglianza esercitata
sulla cosa, solo se questa formi oggetto di una diretta e continua custodia da
parte del proprietario o di persona addetta, dovendosi invece ritenere inidonea a
far venir meno la sussistenza della aggravante stessa una sorveglianza generica
della polizia, o una sorveglianza che, per sua natura risulti necessariamente
saltuaria ed eventuale, anche se specificamente esercitata dal possessore o da
altri (cfr, ad es. Cass., Sez. 5, 20 settembre 2006, P.M. in proc. Mocarski)».
Ciò premesso, nel caso di esercizi commerciali dotati di dispositivi di allarme
antitaccheggio, non appare dubitabile che a prescindere dalla libertà della amotio
dal sito in cui gli oggetti sono esposti al pubblico, la relativa ablatio resti tuttavia
assoggettata al controllo elettronico, predisposto come strumento di verifica
operato dal titolare dei beni o dai relativi incaricati, proprio per impedire la
sottrazione dei beni stessi senza la effettuazione del relativo pagamento. Come
nota ancora il precedente citato, «il sistema di apporre alle merci in vendita la
placca “antitaccheggio” esclude, infatti, che possa parlarsi di un congegno

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negativa.

destinato a consentire una attività di sorveglianza saltuaria od eventuale,
giacché il meccanismo di rilevazione elettronica permette, in concreto, una
costante “tracciatura” del bene, senza alcuna soluzione di continuità, a seconda
del numero e della ubicazione degli appositi strumenti di rilevazione; così da
permettere di segnalare immediatamente – esattamente come avverrebbe in
ipotesi di diretto controllo visivo, personalmente effettuato dal proprietario o
dagli addetti alla vigilanza – la abusiva asportazione degli oggetti dai banchi di
vendita al momento del passaggio al varco, senza che ne sia stato effettuato il

ambientale, per rientrare appieno nel concetto di controllo costante e diretto,
seppure “a distanza”, tale da escludere l’ipotesi di un “abbandono” delle cose alla
“pubblica fede” degli avventori e dei clienti, cui la merce è stata offerta in
vendita».
Per contro non appare conferente l’obiezione a tale argomentare opposta
dall’orientamento contrario secondo cui «il sistema di funzionamento, attivo solo
in uscita, non consente, dunque, di monitorare il percorso della merce dal banco
di esposizione sino alle casse e non presenta, pertanto, alcuna caratteristica che
Io renda, oggettivamente o concettualmente, incompatibile con la

ratio di

previsione dell’aggravante in oggetto» (così in motivazione Sez. 5, n. 24862 del
2011, cit.), atteso che, al fine di escludere l’aggravante non rileva il fatto che la
merce possa o meno essere seguita o tracciata nel percorso seguito,
successivamente alla sua amotio dal suo luogo di esposizione (scaffale, cesta, o
altro arredo simile) all’interno dell’esercizio commerciale e fino all’uscita, quanto
il fatto che il sistema consenta – attraverso l’attivazione di un allarme sonoro in
prossimità della barriera – di tempestivamente rilevare il passaggio delle merce
non pagata e il correlato intervento di personale dell’esercizio addetto al
controllo, in ciò comunque integrandosi quel controllo costante e diretto idoneo a
impedire la ablatio della merce, ossia il suo allontanamento dalla sfera di pieno
controllo e dominio da parte dell’esercente, ciò che di per sé esclude la
ricorrenza dell’aggravante.
In tal senso nemmeno appare poi pertinente il paragone con l’impianto di
antifurto installato in autovettura, atteso che questo, pur attuando la costante
percepibilità della localizzazione del veicolo, non ne impedisce la sottrazione ed il
conseguente impossessamento, consentendo solo di porre rimedio all’azione
delittuosa con il successivo recupero del bene, laddove il sistema antitaccheggio,
consentendo, come detto, il rilevamento della merce non pagata al di là della
barriera delle casse ma pur sempre prima dell’uscita dal locale commerciale e
dunque all’interno della sfera di controllo e di intervento del titolare o del
personale addetto, è certamente idoneo a impedire la consumazione del furto (v.

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pagamento. Si è, quindi, al di fuori di una ipotesi di generica sorveglianza

in tal senso Sez. 2, n. 8445 del 05/02/2003, ove condivisibilmente si evidenzia
che «un connotato di “effettività” … deve caratterizzare l’impossessamento quale
momento consumativo del delitto di furto, rispetto al semplice momento
sottrattivo, con la conseguenza che l’autonoma disponibilità del bene potrà dirsi
realizzata solo ove sia stata correlativamente rescissa la altrettanto autonoma
signoria che sul bene esercitava il detentore», da ciò derivando che «in caso di
oggetti esposti per la vendita in un esercizio commerciale ai quali sia stata
applicata la cosiddetta placca antítaccheggio, il titolare del bene non può dirsi ne

ad operare il relativo controllo»).

3.2. Ciò precisato, in via generale, sulla (non) configurabilità dell’aggravante
predetta in presenza di sistemi elettronici antitaccheggio, deve tuttavia rilevarsi
che la sentenza impugnata risulta inficiata da vizio di motivazione proprio in
punto di sussistenza del presupposto di fatto cui è imprescindibilmente legata
l’esclusione nei termini detti dell’aggravante: ossia in ordine alla estensione
dell’efficacia del sistema antitaccheggio considerato anche alla merce oggetto del
furto.
È del tutto evidente, infatti, che a tal fine non è sufficiente la sola esistenza
di una barriera antitaccheggio ma è necessario che il furto ricada anche su beni
per i quali quella barriera può attivarsi, ossia che si tratti di beni dotati di placche
antitaccheggio (cosa che non può indifferentemente presumersi con riferimento a
tutti i beni presenti all’interno del negozio commerciale dotato del predetto
sistema, essendo notorio che per lo più non ne sono dotati i beni di minor valore
ovvero quelli che per le loro caratteristiche fisiche non ne consentano una sicura
e non facilmente amovibile apposizione).
Al riguardo la sentenza impugnata tace del tutto, dovendosi sul punto
rilevare una dirimente carenza motivazionale.

3.3. È invece infondata l’ulteriore censura con la quale il P.G. ricorrente
denuncia violazione di norma processuale nella quale sarebbe incorso il giudice a
quo per avere desunto il convincimento circa l’esistenza nel luogo del fatto
contestato di una barriera antitaccheggio da una frase contenuta in un atto
inserito nel fascicolo del dibattimento ai sensi dell’art. 431 lett. a) cod. proc. pen.
È ben vero che, trattandosi – secondo quanto ritenuto in sentenza – di
dichiarazione proveniente da soggetto non avente la veste di persona offesa, né
munito di valida delega, e pertanto non legittimato a proporre querela, deve
escludersi che l’atto in questione possa essere qualificato come querela (tant’è
vero che il giudice a quo ha dichiarato non doversi procedere nei confronti degli

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perda il possesso se non dopo il superamento o l’elusione dell’apparato destinato

imputati per difetto di querela) e che lo stesso deve piuttosto intendersi quale
notizia di reato contenente dichiarazioni rese da persona informata dei fatti (cfr.
Sez. 1, n. 4502 del 10/11/1997, Venturelli, Rv. 210409), come tale non
rientrante tra gli atti di indagine acquisibili al fascicolo del dibattimento ai sensi
dell’art. 431 cod. proc. pen..
Nondimeno, non essendovi stata tempestiva opposizione al suo inserimento
agli atti del fascicolo del dibattimento, l’utilizzazione che del suo contenuto viene
fatta in sentenza a fini probatori non incorre in violazione dell’art. 526 cod. proc.

3.3.1. Secondo consolidato indirizzo di questa Suprema Corte, infatti,
l’erroneo inserimento di atti, legittimamente assunti, nel fascicolo per il
dibattimento non determina di per sè la loro inutilizzabilità.
Per conseguire tale risultato processuale, la parte interessata deve proporre
la relativa eccezione tempestivamente e, cioè, entro il termine stabilito dall’art.
491 comma 2 cod. proc. pen., ossia subito dopo compiuto per la prima volta
l’accertamento della costituzione delle parti e sono decise immediatamente.
In mancanza, l’atto è pienamente utilizzabile ai fini del decidere, salvo che
sia stato acquisito con un procedimento contrario a divieti legislativi (art. 191
cod. proc. pen.), ciò che però non è neppure ipotizzato dal ricorrente (v. Sez. 3,
n. 24410 del 05/04/2011, Bolognini, Rv. 250806; Sez. 4, n. 33387 del
08/07/2008, Kofler, Rv. 241573; Sez. 2, n. 23608 del 11/05/2006, La Barbera,
Rv. 234904).

3.3.2. Né la dedotta nullità può farsi conseguire dalla mancata lettura del
contenuto dell’atto o dalla sua omessa indicazione ai sensi dell’art. 511, commi 2
e 5, cod. proc. pen..
Ed invero, la violazione dell’obbligo previsto dall’art. 511 cod. proc. pen. di
dare lettura degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento ovvero di
indicare quelli utilizzabili ai fini della decisione non può essere considerata come
causa di nullità, non essendo essa specificamente sanzionata in tal senso nè
apparendo inquadrabile in alcuna della cause generali di nullità previste dall’art.
178 cod. proc. pen..
Tale violazione, inoltre, neppure può dare luogo ad inutilizzabilità, ai sensi
dell’art. 191 cod. proc. pen., degli atti di cui è stata omessa la lettura o
l’indicazione, non incidendo essa sulla legittimità dell’acquisizione delle prove
documentate nei menzionati atti e facendosi, d’altra parte, riferimento sia
nell’art. 191 che nell’art. 526 cod. proc. pen. al solo concetto di acquisizione e,
quindi, ad un’attività che, logicamente e cronologicamente, si distingue,

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pen..

precedendola, da quella di lettura od indicazione degli atti inseriti nel fascicolo
del dibattimento (v. in tal senso, Sez. 1, n. 38306 del 04/10/2005, Safsaf, Rv.
232443; Sez. 1, n. 36290 del 16/05/2001, Celotti, Rv. 219742; Sez. 3, n. 12866
del 25/10/2000, Onoyivwe, Rv. 217599; Sez. 4, n. 7895 del 15/07/1996,
Tesser, Rv. 206795)

4. In ragione delle considerazioni che precedono, e segnatamente del rilievo
svolto al par. 3.2, deve pertanto pronunciarsi l’annullamento della sentenza

d’appello di Brescia, per nuovo esame.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello dì Brescia per
nuovo esame.
Così deciso il 27/02/2014

impugnata con rinvio, ai sensi dell’art. 569, comma 4, cod. proc. pen. alla Corte

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