Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 11128 del 25/02/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 11128 Anno 2014
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: PEZZELLA VINCENZO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
GRASSO SEBASTIANO N. IL 27/09/1978
avverso la sentenza n. 2024/2013 GIUDICE UDIENZA
PRELIMINARE di CATANIA, del 28/05/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. VINCENZO
PEZZELLA;
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Data Udienza: 25/02/2014

RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 28.5.2013 il G.U.P. presso il Tribunale di Catania applicava ex artt. 444 e ss. cod. proc. pen. a Grasso Sebastiano, per il reato di cui
all’art. 81 cpv., 110 cod. pen., 73 co. 1 D.P.R. 309/90, ritenuta l’ipotesi attenuata di cui al co. 5 dell’art. 73 Dpr 309/90 ed operata la riduzione per il rito, la pena di anni uno e mesi sei di reclusione ed euro 2.000,00 di multa, con ordine di
confisca e distruzione della sostanza stupefacente in sequestro.
La condotta contestata all’imputato era quella di avere, in concorso con

all’art. 17 del predetto d.p.r., con più azioni del medesimo disegno criminoso ed
in tempi diversi, illecitamente ceduto dosi di sostanza stupefacente del tipo “marijuana” in cambio di danaro. In Acireale il 15.2.2013.

2. Avverso detto provvedimento, Grasso Sebastiano propone personalmente ricorso per cassazione deducendo mancanza di motivazione e inosservanza di norme processuali.
Il ricorrente si duole che il GUP abbia motivato sull’insussistenza di cause
di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. ricorrendo ad una motivazione carente “con l’utilizzo di formule apodittiche”.

Chiede pertanto annullarsi la sentenza impugnata.

Il P.G. presso questa Corte in data 9.12.2013 ha reso conclusioni scritte
chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del proposto ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1.

Il ricorso è manifestamente infondato e pertanto va dichiarato

inammissibile.

più soggetti non identificati, in assenza della prescritta autorizzazione di cui

2. Preliminarmente ritiene il Collegio che ci si debba domandare quale influenza abbia sui processi ancora in corso, siano stati essi definiti con rito ordinario ovvero come nel caso che ci occupa con un rito alternativo, la modifica legislativa riguardante il quinto comma dell’art. 73 dpr. 309/90 operata con l’articolo
2, comma 1 lett. a) del D.L. 23.12.2013 n. 146, convertito, senza modifiche sul
punto, dalla legge 21.2.2014 n. 10 (in G.U. Serie generale n. 43 del 21.2.2014).
Com’è noto la modifica più importante attiene all’aver trasformato quella
che per giurisprudenza consolidata di questa Corte era pacificamente ritenuta
una circostanza attenuante (cfr. ex plurimis Sez. Unite n. 9148 del 31.5.1991,
Parisi, rv. 187930; conf. sez. 1, n. 496 del 3.2.1992, confl. comp. Pret. e Trib.

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Palermo in proc. Di Gaetano, rv. 191131; e, anche dopo le modifiche introdotte
dall’art. 4-bis I. 49/2006, ancora Sez. Unite n. 35737 del 24.6.2010, P.G. in
proc. Rico, rv. 247910; conf. sez. 6 n. 458 del 28.9.2011 dep. 11.1.2012, Khadhraoui Farouk e altro, rv. 251557; sez. 6, n. 13523 del 22.10.2008 dep.
26.3.2009, De Lucia e altri, rv. 243827) in un’ipotesi autonoma di reato.
Le perplessità avanzate da taluno dopo l’emanazione del DL 146/2013 risultano fugate dall’analisi dei lavori parlamentari e dagli ulteriori “ritocchi” posti
in essere con la citata legge 10/2014 di conversione laddove nei vari richiami

cupato di sostituire il riferimento alla “circostanza” di cui al comma 5 con quello
al “delitto” (ad esempio all’art. 380 co. 2 lett. h c.p.p. o all’art. 19 co. 5 delle disposizioni sul processo penale a carico di minorenni).
Del resto, già l’avere con il D.L. 146/2013 introdotto una clausola di riserva per circoscrivere negativamente l’applicazione della norma, scrivendo “salvo

che il fatto costituisca più grave reato” lasciava chiaramente intendere che quello
di cui al quinto comma dell’art. 73 Dpr. 309/90 voleva essere un titolo autonomo
di reato. Conclusioni cui portava anche l’individuazione da parte del legislatore di
un soggetto attivo (“chiunque”) e di una condotta “commette”, tipici delle norme
incriminatrici autonome. O il fatto che lo stesso articolo 2 del D.L. 146/2013 era
rubricato “Delitto di condotte illecite in tema di sostanze stupefacenti o psicotro-

pe di lieve entità”.
La sanzione prevista dal nuovo reato autonomo è senza dubbio più favorevole per l’imputato.
Il nuovo articolo 73 co. 5 Dpr. 309/90 punisce, infatti, con la reclusione
da uno a cinque anni e con la multa da euro 3.000 a euro 26.000 chiunque, salvo che il fatto costituisca più grave reato, commetta uno dei fatti previsti dal
medesimo art. 73 che per i mezzi, le modalità o le circostanze dell’azione ovvero
per la qualità e quantità delle sostanze, sia “di lieve entità”. La norma previgente
prevedeva identica sanzione pecuniaria e, quanto alla pena detentiva, identico

operati alla fattispecie di cui all’art. 73 co. 5 Dpr. 309/90 il legislatore si è preoc-

minimo edittale (anni uno di reclusione) ma una pena massima più alta (anni sei
di reclusione).
La natura di reato autonomo sottrae poi oggi la norma al bilanciamento
con eventuali circostanze aggravanti, che spesso finiva per portare il trattamento
sanzionatorio, anche per fatti di lieve entità (a fronte ad esempio di una recidiva
reiterata ritenuta equivalente all’ipotesi attenuata, qual era il quinto comma previgente) a dover necessariamente riferirsi alle ben più severe pene di cui al primo comma dell’articolo 73.

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L’abbassamento del massimo edittale produce inoltre effetti di maggior
favore per l’imputato sui termini di custodia cautelare e su quelli per il computo
della prescrizione.

3. Un cenno va fatto anche ai rapporti con l’intervenuta pronuncia della
Corte Costituzionale n. 32/2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272

(Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime
Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al
testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze
psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di
tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre
1990, n. 309), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21
febbraio 2006, n. 49.
Sul punto va precisato che le motivazioni della sentenza della Consulta,
pronunciata il 12 febbraio 2014, risultano depositate nella stessa data di cui viene in decisione il presente processo (25 febbraio 2014), ma non risulta ancora
avvenuta la pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale e pertanto, ai sensi del combinato
disposto dell’art. 136 Cost. e dell’art. 30 co. 3 I. 87/53, la stessa non è ancora
produttiva di effetti.
Con la sentenza in questione, rimossa dal giudice delle leggi la novella del
2006 di cui alla c.d legge Fini-Giovanardi, si ha la reviviscenza del primo e del
quarto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 nel testo anteriore alle
modifiche con quella apportate che, mentre prevedono un trattamento
sanzionatorio più mite, rispetto a quello caducato, per gli illeciti concernenti le
cosiddette “droghe leggere” (puniti con la pena della reclusione da due a sei anni
e della multa, anziché con la pena della reclusione da sei a venti anni e della
multa), viceversa contemplano sanzioni più severe per i reati concernenti le
cosiddette “droghe pesanti” (puniti, oltre che con la multa, con la pena della
reclusione da otto a venti anni, anziché con quella da sei a venti anni).
E’ la stessa Corte Costituzionale a precisarlo in sentenza laddove afferma
che “in considerazione del particolare vizio procedurale accertato in questa sede,

per carenza dei presupposti ex art. 77, secondo comma, Cost., deve ritenersi
che, a seguito della caducazione delle disposizioni impugnate, tornino a ricevere
applicazione l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e le relative tabelle, in quanto
mai validamente abrogati, nella formulazione precedente le modifiche apportate
con le disposizioni impugnate”.

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Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno.

E anche per quanto riguarda i rapporti con il vigente quinto comma la
Consulta è esplicita. Si legge in sentenza: “È appena il caso di aggiungere che,
alla luce delle considerazioni sopra svolte, risulta evidente che nessuna incidenza
sulle questioni sollevate possono esplicare le modifiche apportate all’art. 73,
comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 dall’art. 2 del decreto-legge 23 dicembre
2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei
detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2014, n.10″.
giudizio a quo – scrivono ancora i giudici costituzionali per giustificare il rigetto
della richiesta in tal senso- non si ravvisa la necessità di una restituzione degli
atti al giudice rimettente, dal momento che le modifiche, intervenute medio
tempore, concernono una disposizione di cui è già stata esclusa l’applicazione
nella specie, e sono tali da non influire sullo specifico vizio procedurale lamentato
dal giudice rimettente in ordine alla formazione della legge di conversione n. 49
del 2006, con riguardo a disposizioni differenti. Inoltre, gli effetti del presente
giudizio di legittimità costituzionale non riguardano in alcun modo la modifica
disposta con il decreto-legge n. 146 del 2013, sopra citato, in quanto stabilita
con disposizione successiva a quella qui censurata e indipendente da
quest’ultima”.
Né può ritenersi che un’abrogazione implicita del vigente quinto comma
dell’articolo 73 la si possa desumere, in via interpretativa, dal passo conclusivo
della sentenza 32/2014 laddove la Consulta riconosce al giudice comune il compito di individuare “quali norme, successive a quelle impugnate, non siano più
applicabili perché divenute prive del loro oggetto, in quanto rinviano a disposizioni caducate e quali, invece, devono continuare ad avere applicazione”.
Vi osta il chiaro dictum dei giudici costituzionali che riguarda, come detto,
specificamente il quinto comma dell’art. 73 Dpr. 309/90, ma, soprattutto, la considerazione che tale norma non è divenuta privq.del proprio oggetto dopo la reviviscenza della precedente normativa, in quanto i fatti-reato cui la norma rinvia
sono gli stessi, anche se sanzionati diversamente.
4. Pare acclarato, dunque, che, anche quando avrà assunto piena vigenza
la decisione della Corte Costituzionale, ci troveremo di fronte ad una disciplina in
materia di stupefacenti che punirà con pene diverse i fatti-reato riconducibili al
primo comma quando riguardino le tabelle inclusive delle droghe “pesanti” e
quelli di cui alle tabelle delle droghe “leggere” di cui al quarto comma. Ma punirà
in maniera indifferenziata, sia per le droghe leggere che per quelle pesanti, i
“fatti di lieve entità” .
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“Trattandosi di ius superveniens che riguarda disposizioni non applicabili nel

In ogni caso, l’assetto normativo nel momento in cui interviene la presente sentenza vede ancora vigente l’articolo 73, co. 1, Dpr. 309/90 punitivo in
via indifferenziata delle droghe c.d. pesanti e di quelle leggere come introdotto
dal D.L. 30.12.2005 n. 272 conv. con modif. dalla I. 21.2.2006 n. 49.
Orbene, come si è anticipato, va valutato il rapporto intertemporale che,
in casi come quelli all’odierno esame intercorre tra la previsione di cui al quinto
comma dell’art. 73 Dpr. 309/90 ante DL 146/2013 e quella, più favorevole, oggi
vigente.

rarsi legale la pena inflitta dal giudice del merito che, quando ha pronunciato la
propria sentenza, aveva come riferimento l’art. 73 co. 5 Dpr. 309/90 nel testo
previgente.
E’ fuori discussione che, ancorché i fatti siano accaduti sotto la legge previgente, trovi applicazione ai sensi dell’art. 2 co. 4 cod. pen., per il principio del
favor rei, la più favorevole legge sopravvenuta.
Ritiene tuttavia il Collegio che, a fronte di un’immutata previsione del fatto-reato sanzionato, un problema di successione di leggi penali nel tempo – e di
necessità di ricalcolare una pena divenuta illegale, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato- si ponga soltanto nel caso in cui il giudice del
merito sia partito da una pena base, oggi non più contemplata, superiore a cinque anni di reclusione. Oppure quando, considerata l’ipotesi di cui al quinto
comma dell’art. 73 Dpr. 309/90 circostanza attenuante, ne abbia eliso la portata
bilanciandola, in quanto ritenuta minusvalente o equivalente, rispetto a circostanze aggravanti.
Una conclusione in tal senso è conforme alla pacifica giurisprudenza di
questa Corte di legittimità formatasi in materia di ius superveniens per i reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace commessi prima dell’entrata in vigore
del d.lgs. n. 274/2000, che ha affermato che, sulla base della disciplina transitoria ivi prevista, andavano applicate le nuove sanzioni indicate dall’art. 52 d.lgs.

Nello specifico di questa Corte di legittimità va valutato se possa conside-

274 cit. in quanto più favorevoli ai sensi dell’art. 2 comma 3 cod. pen.
In quel caso la pena applicata dal giudice sotto la legge previgente venne
considerata “illegale” in quanto non più prevista dalla normativa disciplinante il
reato per il quale si procedeva (ex plurimis, sez. 4, n. 1007 del 10.10.2002 dep.
il 14.1.2003, Firpo, rv. 223490; sez. 2, n. 759 del 19.12.2005 dep. 1’11.1.2006,
Ballini Katy, rv. 232862; sez. 4, n. 36725 del 1.4.2004, Battisti, rv. 229679; in
particolare, sulla disciplina sanzionatoria applicabile in quanto più favorevole al
reo, sez. 4, n. 1017 del 22.10.2002 dep il 14.1.2003, Gismondi, rv. 223491; sez.
4, n. 4799 del 19.11.2002 dep. il 3.2.2003, Clementi, rv. 223492; sez. 4, n.
7292 del 26.11.2002 dep. il 14.2.2003, Alite, rv. 223493; sez. 4 n. 4852 del
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20.12.2002 dep. il 3.2.2003, Cangiano, rv. 223495; sez. 4, n. 5933
dell’11.12.2002 dep. il 7.2.2003, PM in proc. Baisi, rv. 223496; sez. 4, n. 7343
del 16.1.2003, Giovara, rv. 223497; sez. 4, n. 3982 del 12.11.2002 deo. il
28.1.2003, Mancini, rv. 223501; sez. 5 n. 40009 del 6.10.2003, Scalas, rv.
226785).
Caso analogo è stato quello in cui questa Corte ha annullato senza rinvio
la sentenza di patteggiamento impugnata con la quale la pena era stata concordata anche tenendo conto della contestata aggravante di cui all’art. 69, comma

zione della pena (sez. 6, n. 4836 del 17.11.2010, Nasri, rv. 248533 nella cui motivazione viene evidenziato che l’annullamento è rilevato d’ufficio per una sopravvenuta causa di nullità che investe la qualificazione aggravata della condotta
criminosa e la definizione del trattamento sanzionatorio applicato).
Di fronte, dunque, ad un giudice del merito che, ritenuto il quinto comma
dell’art. 73 Dpr. 309/90 abbia pronunciato una sentenza di condanna partendo
da una pena superiore a cinque anni di reclusione ovvero operando una comparazione di circostanze che non abbia comportato la prevalenza dell’allora ipotesi
attenuata (giudizio di prevalenza possibile anche per la recidiva reiterata dopo la
sentenza della Corte Costituzionale n. 251/2012 che ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 69 cod. pen. laddove non lo consentiva) questo giudice di
legittimità non potrebbe che prendere atto dell’illegalità della pena e annullare la
sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio, per
un nuovo giudizio sul punto, al giudice di merito.
Nella medesima situazione, in caso di patteggiamento, discenderebbe
l’esclusione della validità dell’accordo siglato tra le parti e ratificato dal giudice,
per cui, al fine di rispettare la volontà delle parti, dovrebbe operarsi un annullamento senza rinvio, con ritrasmissione degli atti, per consentire alle parti del
processo, se lo ritengono, di rinegoziare l’accordo su altre basi, con riferimento
alle più favorevoli sanzioni, ovvero di proseguire con il rito ordinario (in tal senso

1, n. 11bis, cod. pen. dichiarata incostituzionale in epoca successiva alla pattui-

questa sez. 3, n. 1883 del 22.9.2011. P.G. in proc. La Sala , rv. 251796; sez. 1
n. 16766 del 7.4.2010, P.G. in proc. Ndiaye, rv. 246930; sez. 3, n. 34302 del
14.6.2007, P.G. in proc. Cotugno, rv. 237124; sez. 5, n. 1411 del 22.9.2006,
P.G. in proc. Braidich e altro, rv. 236033; sez. 3 n. 30851 del 12.6.2001, n.
30851, Santullo, rv. 220046; sez. 3 n. 641 del 16.2.1999, PM in proc. Zanon, rv.
213274; sez. 1, n. 1571 del 14.3.1995, PM in proc. Panariello, rv. 201163)
Orbene, non pare esservi dubbio alcuno che non si debba rideterminare la
pena – e che in caso di patteggiamento ci si trovi di fronte ad un accordo ancora
pienamente valido – quando, ritenuto il quinto comma dell’art. 73 Dpr. 309/90, si

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sia rimasti significativamente in prossimità del minimo edittale, rimasto immutato.
Qualche dubbio potrebbe sussistere nei soli casi in cui il giudice (in proprio o ratificando una pena da applicare sottopostagli) sia partito da una pena
base assai vicina ai cinque anni, attuale massimo edittale. Si può ritenere in quel
caso, infatti, tenendo conto anche del caso concreto, che la pena non possa dirsi
più attuale “in peius” per l’imputato, perché, quando è stata irrogata, la stessa
non costituiva, come oggi, il massimo edittale.

conto di tutti gli elementi valutati dal giudice del merito nella dosimetria della
pena.

5. Ebbene, alla luce dei principi di diritto sopra ricordati, non pare sussistere alcun dubbio in un caso come quello all’odierno esame in cui, a fronte di
reiterati episodi di spaccio di marijuana, si è partiti nel computo della pena patteggiata da una pena base di anni due e mesi tre di reclusione ed euro 3000 di
multa e non c’erano aggravanti o recidiva contestate.
Quanto ai motivi di ricorso, gli stessi paiono manifestamente infondati.
E’ ormai principio consolidato di questa Corte di legittimità, anche a
Sezioni Unite, quello secondo cui, nell’ipotesi di impugnazione di una decisione
assunta in conformità alla richiesta formulata dalla parte secondo lo schema
procedimentale previsto dall’art. 444 cod. proc. pen., l’esigenza di specificità
delle censure deve ritenersi addirittura “rafforzata” rispetto ad ipotesi di diversa
conclusione del giudizio, dato che la critica al provvedimento che abbia accolto la
domanda dell’imputato deve impegnarsi a demolire, prima di tutto, proprio
quanto dalla stessa parte richiesto (Sez. U, n. 35738 del 27.05.2010, P.G., Calibè e altro, rv. 247839; Sez. U., n. 11493 del 24.6.1998, Verga, rv. 211468).
Con particolare riferimento all’onere di verifica dell’insussistenza delle
cause di proscioglimento immediato, questa Corte ha altresì precisato che la

La valutazione andrà, però, operata in concreto, caso per caso, tenendo

sentenza del giudice di merito che applichi la pena su richiesta delle parti,
escludendo che ricorra una delle ipotesi proscioglimento previste dall’art. 129
cod. proc. pen., può essere oggetto di controllo di legittimità, sotto il profilo del
vizio di motivazione, soltanto se dal testo della sentenza impugnata appaia
invece evidente la sussistenza di una causa di non punibilità (Sez. 1, n. 4688 del
10.1.2007, Brendolin, rv. 236622).
E’ altrettanto pacifico, poi, che in caso di patteggiamento ai sensi dell’art.
444 c.p.p., “l’accordo intervenuto tra le parti esonera l’accusa dall’onere della

prova e comporta che la sentenza che recepisce l’accordo fra le parti sia da
considerare sufficientemente motivata con una succinta descrizione del fatto
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(deducibile dal capo d’imputazione), con l’affermazione della correttezza della
qualificazione giuridica di esso, con il richiamo all’art. 129 c.p.p. per escludere la
ricorrenza di alcuna delle ipotesi ivi previste, con la verifica della congruità della
pena patteggiata ai fini e nei limiti di cui all’art. 27 Cost.”. (sez. 4, 13.7.2006, n.
34494, P.G. in proc. Koumya, rv. 234824; vedasi anche, Sez. 1, n. 3980 del
27.9.1994, Magliulo, rv. 199479). E ancora, di recente, si è precisato che nella
motivazione della sentenza di patteggiamento il richiamo all’art. 129 cod. proc.
pen. è sufficiente a far ritenere il giudice abbia verificato ed escluso la presenza

riguardo (Sez. 2, n. 6455 del 17.11.2011 dep. 17.2.2012, Alba, rv. 252085). In
tale pronuncia è stato chiarito, in motivazione, che il semplice e testuale rinvio al
medesimo articolo, il cui contenuto entra in tal modo a far parte per relationem
del ragionamento decisorio, esprime l’avvenuta verifica, da parte del giudice,
dell’inesistenza di motivi di non punibilità, senza che occorra una ulteriore e più
analitica disanima, purché dal testo della sentenza medesima non emergano in
modo positivo elementi di segno contrario.
Del resto, già agli albori del vigente codice di rito era stato affermato che
la motivazione della sentenza in ordine alla mancanza dei presupposti per
l’applicazione dell’art. 129 c.p.p. potesse essere meramente enunciativa (Sez.
U., 27.3.1992, Di Benedetto; Sez. 1, 12.1.1994, Di Modugno).
Né può ritenersi in contrasto con tale orientamento l’annullamento senza
rinvio disposto in una pronuncia di questa Corte (Sez. 4, 21.4.2010, n. 31392,
rv. 248198) in base al principio secondo il quale “il giudice del patteggiamento

deve, nei limiti di una motivazione semplificata della sentenza, indicare le ragioni
dell’accoglimento dell’accordo e dare canto dell’accertamento sull’assenza di
cause di non punibilità, sull’esatta qualificazione del fatto, sulla correttezza della
valutazione delle circostanze e sull’adeguatezza della pena’.

Nel caso-limite in

concreto esaminato nella pronuncia 31392/2010 si era, infatti, di fronte ad una
sentenza la cui motivazione era affidata a tre righe di un modulo prestampato, in

di cause di proscioglimento, non occorrendo ulteriori e più analitiche disamine al

cui non vi era neanche un riferimento all’art. 129 c.p.p.
La proposta doglianza, nel caso di specie, è manifestamente infondata in
quanto l’esigenza minima di motivazione della sentenza a seguito di
“patteggiamento” della pena può ritenersi adempiuta, in relazione all’assenza di
cause di proscioglimento di cui all’art. 129 cod. proc. pen., dal semplice testuale
rinvio al medesimo articolo, il cui contenuto, come detto, è entrato in tal modo a
far parte per relationem del ragionamento decisorio ed esprime l’avvenuta
verifica, da parte del giudice, dell’inesistenza di motivi di non punibilità.
Il GUP di Catania premette, infatti, che “alla stregua delle risultanze de-

sumibili dagli atti processuali, non ricorre, nella vicenda all’esame, alcuna delle

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ipotesi di proscioglimento di cui all’art. 129 c.p.p.” per poi passare ad affermare
la correttezza della qualificazione giuridica dei fatti, con ampi riferimenti alle risultanze delle indagini preliminari, quindi a verificare la congruità della pena
patteggiata, che la porta a recepire integralmente le statuizioni concordate
applicando la pena stabilita.
Come si vede, secondo i principi di diritto sopra richiamati, il giudice di
merito, con motivazione del tutto esauriente ha dato conto in maniera più che
sufficiente della insussistenza delle cause di non punibilità ex art. 129 cod. proc.
non emergendo da essa in modo positivo alcun elemento di segno contrario, ma
anzi l’esistenza di elementi indiziari di responsabilità.
Il ricorso appare tendere solo a rimettere in discussione i termini
dell’accordo finalizzato all’applicazione della pena oggetto del patteggiamento, il
che non è consentito.
6. Non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità (Corte Cost. sentenza 13.6.2000 n. 186), alla condanna della
parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al
pagamento della sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. nella
misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di €. 1.500,00 in favore della Cassa delle
Ammende.
Così deciso in Roma, il 25 febbraio 2014
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pen. e quindi la sentenza impugnata si sottrae certamente alla censura mossa,

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