Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 11110 del 25/02/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 11110 Anno 2014
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: PEZZELLA VINCENZO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
KIOGWU JOHN N. IL 15/01/1965
avverso la sentenza n. 2495/2013 GIP TRIBUNALE di VENEZIA, del
04/04/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 25/02/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. VINCENZO PEZZELLA
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. 6.- .
ih’iche ha concluso per etc:,161472,7n.c.m .i:m.,ete
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Udito, per la parte civile, l’Avv
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Data Udienza: 25/02/2014

RITENUTO IN FATTO
1. Il G.I.P. presso il Tribunale di Venezia, in data 4/4/2013, pronunciava
sentenza ex art. 444 cod. proc. pen. di applicazione della pena, su accordo delle
parti, nei confronti di KIOGWU JFION, ritenuto il comma V dell’art.73 DPR 309/90
prevalente sulla contestata recidiva ed applicata la riduzione del rito, di anni 2 di
reclusione ed euro 6.700,00 di multa.
All’imputato era stato contestato di avere illegalmente acquistato e detenuto
a fini diversi dall’uso personale oltre 180 grammi di sostanza stupefacente del ti-

visi in 6 involucri- consegnava a Mohammed Sami. Accertato in Venezia-Mestre il
10.10.2012. Con la recidiva specifica infraquinquennale.

2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione KIOGWU
31-10N, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari
per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc.
pen.:
a. inosservanza e/o erronea applicazione, ex art.606, comma 1, lett. b),
cod. proc. pen. degli art.444, comma 2, e 129 cod. proc. pen.;
b. in subordine, mancanza di motivazione sul punto ai sensi dell’art. 606,
comma 1, lett. e) cod. proc. pen. risultante dal testo del provvedimento
impugnato.
Il ricorrente deduce la mancanza di motivazione in ordine all’impossibilità di
pronunciare una sentenza di proscioglimento, in quanto il GIP si sarebbe limitato
ad affermare che

“…non vi siano elementi in forza dei quali fondare il

proscioglimento secondo il disposto dell’art.129 cod. proc. pen.”.
Deduce che in tal modo non è possibile ricostruire l’iter logico compiuto dal
giudicante per giustificare l’esclusione dei requisiti di cui all’art.129 cod. proc.
pen.
Chiede, pertanto, in accoglimento dei motivi, annullarsi con o senza rinvio

po marijuana suddivisa in 11 involucri parte della quale -33 grammi circa suddi-

ad altro giudice di merito la sentenza impugnata.

In data 20.2.2014 il difensore ha depositato una memoria nella quale ripropone, in sintesi, i sopraindicati motivi di doglianza.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1.

Il ricorso è manifestamente infondato e pertanto va dichiarato

inammissibile.

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2. Preliminarmente ritiene il Collegio che ci si debba domandare quale influenza abbia sui processi ancora in corso, siano stati essi definiti con rito ordinario ovvero, come nel caso che ci occupa, con un rito alternativo, la modifica legislativa riguardante il quinto comma dell’art. 73 dpr. 309/90 operata con l’articolo
2, comma 1 lett. a) del D.L. 23.12.2013 n. 146, convertito, senza modifiche sul
punto, dalla legge 21.2.2014 n. 10 (in G.U. Serie generale n. 43 del 21.2.2014).
Com’è noto la modifica più importante attiene all’aver trasformato quella
che per giurisprudenza consolidata di questa Corte era pacificamente ritenuta

Parisi, rv. 187930; conf. sez. 1, n. 496 del 3.2.1992, confl. comp. Pret. e Trib.
Palermo in proc. Di Gaetano, rv. 191131; e, anche dopo le modifiche introdotte
dall’art. 4-bis I. 49/2006, ancora Sez. Unite n. 35737 del 24.6.2010, P.G. in
proc. Rico, rv. 247910; conf. sez. 6 n. 458 del 28.9.2011 dep. 11.1.2012, Khadhraoui Farouk e altro, rv. 251557; sez. 6, n. 13523 del 22.10.2008 dep.
26.3.2009, De Lucia e altri, rv. 243827) in un’ipotesi autonoma di reato.
Le perplessità avanzate da taluno dopo l’emanazione del DL 146/2013 risultano fugate dall’analisi dei lavori parlamentari e dagli ulteriori “ritocchi” posti
in essere con la citata legge 10/2014 di conversione laddove nei vari richiami
operati alla fattispecie di cui all’art. 73 co. 5 Dpr. 309/90 il legislatore si è preoccupato di sostituire il riferimento alla “circostanza” di cui al comma 5 con quello
al “delitto” (ad esempio all’art. 380 co. 2 lett. h c.p.p. o all’art. 19 co. 5 delle disposizioni sul processo penale a carico di minorenni).
Del resto, già l’avere con il D.L. 146/2013 introdotto una clausola di riserva per circoscrivere negativamente l’applicazione della norma, scrivendo “salvo

che il fatto costituisca più grave reato” lasciava chiaramente intendere che quello
di cui al quinto comma dell’art. 73 Dpr. 309/90 voleva essere un titolo autonomo
di reato. Conclusioni cui portava anche l’individuazione da parte del legislatore di
un soggetto attivo (“chiunque”) e di una condotta “commette”, tipici delle norme
incriminatrici autonome. O il fatto che lo stesso articolo 2 del D.L. 146/2013 era

una circostanza attenuante (cfr. ex plurimis Sez. Unite n. 9148 del 31.5.1991,

rubricato “Delitto di condotte illecite in tema di sostanze stupefacenti o psicotro-

pe di lieve entità”.
La sanzione prevista dal nuovo reato autonomo è senza dubbio più favorevole per l’imputato.
Il nuovo articolo 73 co. 5 Dpr. 309/90 punisce, infatti, con la reclusione
da uno a cinque anni e con la multa da euro 3.000 a euro 26.000 chiunque, salvo che il fatto costituisca più grave reato, commetta uno dei fatti previsti dal
medesimo art. 73 che per i mezzi, le modalità o le circostanze dell’azione ovvero
per la qualità e quantità delle sostanze, sia “di lieve entità”. La norma previgente
prevedeva identica sanzione pecuniaria e, quanto alla pena detentiva, identico

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minimo edittale (anni uno di reclusione) ma una pena massima più alta (anni sei
di reclusione).
La natura di reato autonomo sottrae poi oggi la norma al bilanciamento
con eventuali circostanze aggravanti, che spesso finiva per portare il trattamento
sanzionatorio, anche per fatti di lieve entità (a fronte ad esempio di una recidiva
reiterata ritenuta equivalente all’ipotesi attenuata, qual era il quinto comma previgente) a dover necessariamente riferirsi alle ben più severe pene di cui al primo comma dell’articolo 73.
favore per l’imputato sui termini di custodia cautelare e su quelli per il computo
della prescrizione.
3. Un cenno va fatto anche ai rapporti con l’intervenuta pronuncia della
Corte Costituzionale n. 32/2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo
unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope,
prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al
decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49.
Sul punto va precisato che le motivazioni della sentenza della Consulta,
pronunciata il 12 febbraio 2014, risultano depositate nella stessa data di cui viene in decisione il presente processo (25 febbraio 2014), ma non risulta ancora
avvenuta la pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale e pertanto, ai sensi del combinato
disposto dell’art. 136 Cost. e dell’art. 30 co. 3 I. 87/53, la stessa non è ancora
produttiva di effetti.
Con la sentenza in questione, rimossa dal giudice delle leggi la novella del
2006 di cui alla c.d legge Fini-Giovanardi, si ha la reviviscenza del primo e del
quarto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 nel testo anteriore alle modifiche con quella apportate che, mentre prevedono un trattamento sanzionatorio
più mite, rispetto a quello caducato, per gli illeciti concernenti le cosiddette “droghe leggere” (puniti con la pena della reclusione da due a sei anni e della multa,
anziché con la pena della reclusione da sei a venti anni e della multa), viceversa
contemplano sanzioni più severe per i reati concernenti le cosiddette “droghe pesanti” (puniti, oltre che con la multa, con la pena della reclusione da otto a venti
anni, anziché con quella da sei a venti anni).

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L’abbassamento del massimo edittale produce inoltre effetti di maggior

E’ la stessa Corte Costituzionale a precisarlo in sentenza laddove afferma
che “in considerazione del particolare vizio procedurale accertato in questa sede,

per carenza dei presupposti ex art. 77, secondo comma, Cost., deve ritenersi
che, a seguito della caducazione delle disposizioni impugnate, tornino a ricevere
applicazione l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e le relative tabelle, in quanto
mai validamente abrogati, nella formulazione precedente le modifiche apportate
con le disposizioni impugnate”.
E anche per quanto riguarda i rapporti con il vigente quinto comma la

alla luce delle considerazioni sopra svolte, risulta evidente che nessuna incidenza
sulle questioni sollevate possono esplicare le modifiche apportate all’art. 73,
comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 dall’art. 2 del decreto-legge 23 dicembre
2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2014, n.10″. “Trattandosi di ius superveniens che riguarda disposizioni non applicabili nel giudizio a quo
– scrivono ancora i giudici costituzionali per giustificare il rigetto della richiesta in
tal senso- non si ravvisa la necessità di una restituzione degli atti al giudice ri-

mettente, dal momento che le modifiche, intervenute medio tempore, concernono una disposizione di cui è già stata esclusa l’applicazione nella specie, e sono
tali da non influire sullo specifico vizio procedurale lamentato dal giudice rimettente in ordine alla formazione della legge di conversione n. 49 del 2006, con riguardo a disposizioni differenti. Inoltre, gli effetti del presente giudizio di legittimità costituzionale non riguardano in alcun modo la modifica disposta con il decreto-legge n. 146 del 2013, sopra citato, in quanto stabilita con disposizione
successiva a quella qui censurata e indipendente da quest’ultima’ .
Né può ritenersi che un’abrogazione implicita del vigente quinto comma
dell’articolo 73 la si possa desumere, in via interpretativa, dal passo conclusivo
della sentenza 32/2014 laddove la Consulta riconosce al giudice comune il com-

Consulta è esplicita. Si legge in sentenza: “È appena il caso di aggiungere che,

pito di individuare “quali norme, successive a quelle impugnate, non siano più

applicabili perché divenute prive del loro oggetto, in quanto rinviano a disposizioni caducate e quali, invece, devono continuare ad avere applicazione”.
Vi osta il chiaro dictum dei giudici costituzionali che riguarda, come detto,
specificamente il quinto comma dell’art. 73 Dpr. 309/90, ma, soprattutto, la considerazione che tale norma non è divenuta priva-del proprio oggetto dopo la reviviscenza della precedente normativa, in quanto i fatti-reato cui la norma rinvia
sono gli stessi, anche se sanzionati diversamente.

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4. Pare acclarato, dunque, che, anche quando avrà assunto piena vigenza
la decisione della Corte Costituzionale, ci troveremo di fronte ad una disciplina in
materia di stupefacenti che punirà con pene diverse i fatti-reato riconducibili al
primo comma quando riguardino le tabelle inclusive delle droghe “pesanti” e
quelli di cui alle tabelle delle droghe “leggere” di cui al quarto comma. Ma punirà
in maniera indifferenziata, sia per le droghe leggere che per quelle pesanti, i
“fatti di lieve entità”.
In ogni caso, l’assetto normativo nel momento in cui interviene la pre-

via indifferenziata delle droghe c.d. pesanti e di quelle leggere come introdotto
dal D.L. 30.12.2005 n. 272 conv. con modif. dalla I. 21.2.2006 n. 49.
Orbene, come si è anticipato, va valutato il rapporto intertemporale che,
in casi come quelli all’odierno esame intercorre tra la previsione di cui al quinto
comma dell’art. 73 Dpr. 309/90 ante DL 146/2013 e quella, più favorevole, oggi
vigente.
Nello specifico di questa Corte di legittimità va valutato se possa considerarsi legale la pena inflitta dal giudice del merito che, quando ha pronunciato la
propria sentenza, aveva come riferimento l’art. 73 co. 5 Dpr. 309/90 nel testo
previgente.
E’ fuori discussione che, ancorché i fatti siano accaduti sotto la legge previgente, trovi applicazione ai sensi dell’art. 2 co. 4 cod. pen., per il principio del

favor rei, la più favorevole legge sopravvenuta.
Ritiene tuttavia il Collegio che, a fronte di un’immutata previsione del fatto-reato sanzionato, un problema di successione di leggi penali nel tempo – e di
necessità di ricalcolare una pena divenuta illegale, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato- si ponga soltanto nel caso in cui il giudice del
merito sia partito da una pena base, oggi non più contemplata, superiore a cinque anni di reclusione. Oppure quando, considerata l’ipotesi di cui al quinto
comma dell’art. 73 Dpr. 309/90 circostanza attenuante, ne abbia eliso la portata
bilanciandola, in quanto ritenuta minusvalente o equivalente, rispetto a circostanze aggravanti.
Una conclusione in tal senso è conforme alla pacifica giurisprudenza di
questa Corte di legittimità formatasi in materia di ius superveniens per i reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace commessi prima dell’entrata in vigore
del d.lgs. n. 274/2000, che ha affermato che, sulla base della disciplina transitoria ivi prevista, andavano applicate le nuove sanzioni indicate dall’art. 52 d.lgs.
274 cit. in quanto più favorevoli ai sensi dell’art. 2 comma 3 cod. pen.
In quel caso la pena applicata dal giudice sotto la legge previgente venne
considerata “illegale” in quanto non più prevista dalla normativa disciplinante il

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sente sentenza vede ancora vigente l’articolo 73, co. 1, Dpr. 309/90 punitivo in

reato per il quale si procedeva (ex plurimis, sez. 4, n. 1007 del 10.10.2002 dep.
il 14.1.2003, Firpo, rv. 223490; sez. 2, n. 759 del 19.12.2005 dep. 1’11.1.2006,
Ballini Katy, rv. 232862; sez. 4, n. 36725 del 1.4.2004, Battisti, rv. 229679; in
particolare, sulla disciplina sanzionatoria applicabile in quanto più favorevole al
reo, sez. 4, n. 1017 del 22.10.2002 dep il 14.1.2003, Gismondi, rv. 223491; sez.
4, n. 4799 del 19.11.2002 dep. il 3.2.2003, Clementi, rv. 223492; sez. 4, n.
7292 del 26.11.2002 dep. il 14.2.2003, Alite, rv. 223493; sez. 4 n. 4852 del
20.12.2002 dep. il 3.2.2003, Cangiano, rv. 223495; sez. 4, n. 5933

del 16.1.2003, Giovara, rv. 223497; sez. 4, n. 3982 del 12.11.2002 dep. il
28.1.2003, Mancini, rv. 223501; sez. 5 n. 40009 del 6.10.2003, Scalas, rv.
226785).
Caso analogo è stato quello in cui questa Corte ha annullato senza rinvio
la sentenza di patteggiamento impugnata con la quale la pena era stata concordata anche tenendo conto della contestata aggravante di cui all’art. 69, comma
1, n. 11bis, cod. pen. dichiarata incostituzionale in epoca successiva alla pattuizione della pena (sez. 6, n. 4836 del 17.11.2010, Nasri, rv. 248533 nella cui motivazione viene evidenziato che l’annullamento è rilevato d’ufficio per una sopravvenuta causa di nullità che investe la qualificazione aggravata della condotta
criminosa e la definizione del trattamento sanzionatorio applicato).
Di fronte, dunque, ad un giudice del merito che, ritenuto il quinto comma
dell’art. 73 Dpr. 309/90 abbia pronunciato una sentenza di condanna partendo
da una pena superiore a cinque anni di reclusione ovvero operando una comparazione di circostanze che non abbia comportato la prevalenza dell’allora ipotesi
attenuata (giudizio di prevalenza possibile anche per la recidiva reiterata dopo la
sentenza della Corte Costituzionale n. 251/2012 che ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 69 cod. pen. laddove non lo consentiva) questo giudice di
legittimità non potrebbe che prendere atto dell’illegalità della pena e annullare la
sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio, per

dell’11.12.2002 dep. il 7.2.2003 , PM in proc. Baisi, rv. 223496; sez. 4, n. 7343

un nuovo giudizio sul punto, al giudice di merito.
Nella medesima situazione, in caso di patteggiamento, discenderebbe
l’esclusione della validità dell’accordo siglato tra le parti e ratificato dal giudice,
per cui, al fine di rispettare la volontà delle parti, dovrebbe operarsi un annullamento senza rinvio, con ritrasmissione degli atti, per consentire alle parti del
processo, se lo ritengono, di rinegoziare l’accordo su altre basi, con riferimento
alle più favorevoli sanzioni, ovvero di proseguire con il rito ordinario (in tal senso
questa sez. 3, n. 1883 del 22.9.2011. P.G. in proc. La Sala , rv. 251796; sez. 1
n. 16766 del 7.4.2010, P.G. in proc. Ndiaye, rv. 246930; sez. 3, n. 34302 del
14.6.2007, P.G. in proc. Cotugno, rv. 237124; sez. 5, n. 1411 del 22.9.2006,

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P.G. in proc. Braidich e altro, rv. 236033; sez. 3 n. 30851 del 12.6.2001, n.
30851, Santullo, rv. 220046; sez. 3 n. 641 del 16.2.1999, PM in proc. Zanon, rv.
213274; sez. 1, n. 1571 del 14.3.1995, PM in proc. Panariello, rv. 201163)
Orbene, non pare esservi dubbio alcuno che non si debba rideterminare la
pena – e che in caso di patteggiamento ci si trovi di fronte ad un accordo ancora
pienamente valido – quando, ritenuto il quinto comma dell’art. 73 Dpr. 309/90, si
sia rimasti significativamente in prossimità del minimo edittale, rimasto immutato.

prio o ratificando una pena da applicare sottopostagli) sia partito da una pena
base assai vicina ai cinque anni, attuale massimo edittale. Si può ritenere in quel
caso, infatti, tenendo conto anche del caso concreto, che la pena non possa dirsi
più attuale “in peius” per l’imputato, perché, quando è stata irrogata, la stessa
non costituiva, come oggi, il massimo edittale.
La valutazione andrà, però, operata in concreto, caso per caso, tenendo
conto di tutti gli elementi valutati dal giudice del merito nella dosimetria della
pena.

5. Ebbene, alla luce dei principi di diritto sopra ricordati, non pare sussistere alcun dubbio in un caso come quello all’odierno esame in cui, a fronte di un
quantitativo di marijuana di 180 grammi e della prova della cessione a terzi, si è
partiti nel computo della pena patteggiata da una pena base di anni tre di reclusione ed euro 10.000 di multa, con un operato giudizio di prevalenza dell’allora
ipotesi attenuata di cui al V comma dell’art. 73 Dpr. 309/90 sulla contestata recidiva.
Quanto ai motivi di ricorso, gli stessi paiono manifestamente infondati.
Va evidenziato, quanto alla memoria depositata in data 20 febbraio 2014
dal difensore, ovvero cinque giorni prima dell’udienza pubblica di fronte a questa
Corte, che la stessa è in larga parte riproduttiva dei motivi già proposti e, co-

Qualche dubbio potrebbe sussistere nei soli casi in cui il giudice (in pro-

munque, è inammissibile per tardività. Trova, infatti, applicazione il disposto degli artt. 585, comma 4, e 611, comma 1, ultimo periodo, cod. proc. pen., secondo i quali le parti possono presentare motivi nuovi e memorie solo fino a 15
giorni prima dell’udienza. Il mancato rispetto di tale termine comporta decadenza, ai sensi di quanto disposto dal successivo comma 5 del richiamato art. 585.
Quanto ai proposti profili di doglianza, é ormai principio consolidato di
questa Corte di legittimità, anche a Sezioni Unite, quello secondo cui, nell’ipotesi
di impugnazione di una decisione assunta in conformità alla richiesta formulata
dalla parte secondo lo schema procedimentale previsto dall’art. 444 cod. proc.
pen., l’esigenza di specificità delle censure deve ritenersi addirittura “rafforzata”

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ì.1

rispetto ad ipotesi di diversa conclusione del giudizio, dato che la critica al provvedimento che abbia accolto la domanda dell’imputato deve impegnarsi a demolire, prima di tutto, proprio quanto dalla stessa parte richiesto (Sez. U, n. 35738
del 27.05.2010, P.G., Calibè e altro, rv. 247839; Sez. U., n. 11493 del
24.6.1998, Verga, rv. 211468).
Con particolare riferimento all’onere di verifica dell’insussistenza delle
cause di proscioglimento immediato, questa Corte ha altresì precisato che la sentenza del giudice di merito che applichi la pena su richiesta delle parti, escluden-

pen., può essere oggetto di controllo di legittimità, sotto il profilo del vizio di motivazione, soltanto se dal testo della sentenza impugnata appaia invece evidente
la sussistenza di una causa di non punibilità (Sez. 1, n. 4688 del 10.1.2007,
Brendolin, rv. 236622).
E’ altrettanto pacifico, poi, che in caso di patteggiamento ai sensi dell’art.
444 c.p.p., “l’accordo intervenuto tra le parti esonera l’accusa dall’onere della

prova e comporta che la sentenza che recepisce l’accordo fra le parti sia da considerare sufficientemente motivata con una succinta descrizione del fatto (deducibile dal capo d’imputazione), con l’affermazione della correttezza della qualificazione giuridica di esso, con il richiamo all’art. 129 c.p.p. per escludere la ricorrenza di alcuna delle ipotesi ivi previste, con la verifica della congruità della pena
patteggiata ai fini e nei limiti di cui all’art. 27 Cost.”.

(sez. 4, 13.7.2006, n.

34494, P.G. in proc. Koumya, rv. 234824; vedasi anche, Sez. 1, n. 3980 del
27.9.1994, Magliulo, rv. 199479). E ancora, di recente, si è precisato che nella
motivazione della sentenza di patteggiamento il richiamo all’art. 129 cod. proc.
pen. è sufficiente a far ritenere il giudice abbia verificato ed escluso la presenza
di cause di proscioglimento, non occorrendo ulteriori e più analitiche disamine al
riguardo (Sez. 2, n. 6455 del 17.11.2011 dep. 17.2.2012, Alba, rv. 252085). In
tale pronuncia è stato chiarito, in motivazione, che il semplice e testuale rinvio al
medesimo articolo, il cui contenuto entra in tal modo a far parte per relationem

do che ricorra una delle ipotesi proscioglimento previste dall’art. 129 cod. proc.

del ragionamento decisorio, esprime l’avvenuta verifica, da parte del giudice,
dell’inesistenza di motivi di non punibilità, senza che occorra una ulteriore e più
analitica disanima, purché dal testo della sentenza medesima non emergano in
modo positivo elementi di segno contrario.
Del resto, già agli albori del vigente codice di rito era stato affermato che
la motivazione della sentenza in ordine alla mancanza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 129 c.p.p. potesse essere meramente enunciativa (Sez. U.,
27.3.1992, Di Benedetto; Sez. 1, 12.1.1994, Di Modugno).
Né può ritenersi in contrasto con tale orientamento l’annullamento senza
rinvio disposto in una pronuncia di questa Corte (Sez. 4, 21.4.2010, n. 31392,

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i

rv. 248198) in base al principio secondo il quale “il giudice del patteggiamento
deve, nei limiti di una motivazione semplificata della sentenza, indicare le ragioni
dell’accoglimento dell’accordo e dare canto dell’accertamento sull’assenza di cause di non punibilità, sull’esatta qualificazione del fatto, sulla correttezza della valutazione delle circostanze e sull’adeguatezza della pena’. Nel caso-limite in concreto esaminato nella pronuncia 31392/2010 si era, infatti, di fronte ad una sentenza la cui motivazione era affidata a tre righe di un modulo prestampato, in cui
non vi era neanche un riferimento all’art. 129 c.p.p.
quanto l’esigenza minima dì motivazione della sentenza a seguito di “patteggiamento” della pena può ritenersi adempiuta, in relazione all’assenza di cause di
proscioglimento di cui all’art. 129 cod. proc. pen., dal semplice testuale rinvio al
medesimo articolo, il cui contenuto, come detto, è entrato in tal modo a far parte
per relationem del ragionamento decisorio ed esprime l’avvenuta verifica, da
parte del giudice, dell’inesistenza di motivi di non punibilità.
Il GUP di Venezia, peraltro, non si limita ad un semplice richiamo del dato
normativo, se è vero che scrive: “si ritiene che non vi siano elementi in forza dei
quali fondare il proscioglimento secondo il disposto dell’art. 129 cod. proc. pen.
atteso che la perquisizione dell’abitazione dell’imputatoé seguita ad attività di osservazione e controllo dei Carabinieri di Spinea, che hanno potuto, prima, vedere
la cessione di droga al coimputato, ora separatamente giudicato, Mohammed
Sami, e poi recuperare l’involucro che conteneva stupefacente gettato dalla finestra dal Kiogwu” (così pag. 2 della sentenza impugnata). Successivamente, poi,
passa ad affermare la correttezza della qualificazione giuridica dei fatti, quindi a
verificare la congruità della pena patteggiata, che lo porta a recepire integralmente le statuizioni concordate applicando la pena stabilita.
Come si vede, secondo i principi di diritto sopra richiamati, il giudice di
merito, con motivazione del tutto esauriente ha dato conto in maniera più che
sufficiente della insussistenza delle cause di non punibilità ex art. 129 cod. proc.
pen. e quindi la sentenza impugnata si sottrae certamente alla censura mossa,
non emergendo da essa in modo positivo alcun elemento di segno contrario, ma
anzi l’esistenza di elementi indiziari di responsabilità.
Il ricorso appare tendere solo a rimettere in discussione i termini dell’accordo finalizzato all’applicazione della pena oggetto del patteggiamento, il che
non è consentito.
6. Non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità (Corte Cost. sentenza 13.6.2000 n. 186), alla condanna della
parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al

10

La proposta doglianza, nel caso di specie, è manifestamente infondata in

pagamento della sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. nella
misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di €. 1.500,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 25 febbraio 2014
nsigliere es ensore

Il P
Alfr

dente
eresi

Il

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