Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 11000 del 28/02/2014


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 11000 Anno 2014
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: DELL’UTRI MARCO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Messina
Foti Giuseppe n. il 13.10.1969
Facciolà Paola n. il 16.5.1966
nei confronti di:
Conti Nibali Sergio Maria n. il 12.9.1958
avverso la sentenza n. 4250/2011 pronunciata dal giudice per
l’udienza preliminare presso il Tribunale di Messina il 5.7.2013;
sentita nella camera di consiglio del 28.2.2014 la relazione fatta dal
Cons. dott. Marco Dell’Utri;
sentito il Procuratore Generale, in persona del dott. G. Pratola, che ha
concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
udito per la parte civile l’avv.to N. Rosso del foro di Messina, che ha
concluso per l’accoglimento del ricorso delle parti civili;
udito per l’imputato l’avv.to A. Gullino del foro di Messina, che ha
concluso per dichiarazione d’inammissibilità o il rigetto dei ricorsi.

Data Udienza: 28/02/2014

Ritenuto in fatto
i. — Con due distinti atti, rispettivamente in data n/12.11.2013
e in data 12/13.11.2013, il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Messina, da un lato, e Giuseppe Foti e Paola Facciolà, in
qualità di parti civili costituite, dall’altro, hanno proposto ricorso per
cassazione avverso la sentenza in data 5.7.2013 con la quale il giudice
per l’udienza preliminare presso il tribunale di Messina ha dichiarato
non doversi procedere nei confronti di Sergio Conti Nibali per insussistenza del fatto, in relazione a un’imputazione di omicidio colposo
commesso, ai danni del piccolo Francesco Foti (di sei mesi di età), in
violazione delle norme concernenti l’esercizio della professione medica; decesso, avvenuto in data 22.2.2007, nella specie asseritamente
provocato dalla cooperazione colposa, oltre all’odierno imputato, di
diversi medici pediatri e di medici chirurghi del reparto di chirurgia
pediatrica del Policlinico universitario di Messina.
In particolare, al Conti Nibali, in qualità di medico pediatra ‘di
base’ del piccolo Francesco Foti, erano state contestate diverse condotte omissive nell’esame e nella visita del piccolo paziente, consistite
nella sostanziale sottovalutazione e nel mancato approfondimento
delle effettive condizioni del bambino, allorché lo stesso aveva manifestato i primi sintomi dell’invaginazione intestinale occorsa a suo
danno, nonché nel riferire in modo completo e adeguato, ai medici
della struttura ospedaliera, la sintomatologia manifestata da Francesco Foti nonostante le comunicazioni ricevute dai genitori del bambino.
Con la sentenza impugnata, il giudice a quo ha escluso il ricorso di elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio, non ravvisando
la sussistenza di alcuna condotta colposa e soprattutto di alcun effettivo nesso di causalità rilevabile tra le omissioni contestate
all’imputato e la verificazione del decesso del bimbo.
Con le impugnazioni avanzate in questa sede, tutti i ricorrenti censurano la sentenza impugnata sotto molteplici profili concernenti la violazione di legge e il vizio di motivazione.
In particolare, il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Messina censura il provvedimento impugnato nella parte in
cui esprime un immotivato giudizio circa la non riconoscibilità
dell’occlusione intestinale sofferta dal piccolo paziente nel momento
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in cui i sintomi accusati da quest’ultimo erano stati condotti al vaglio
dell’imputato, in contrasto con le evidenze emerse dal complesso degli atti d’indagine acquisiti, tali da giustificarne la sottoposizione
all’esame del giudizio dibattimentale.
Da un diverso punto di vista, le parti civili si dolgono
dell’erroneità in cui sarebbe incorso il giudice a quo nel disattendere
la regola di giudizio imposta dall’art. 425 c.p.p., essendosi lo stesso
spinto alla valutazione nel merito della responsabilità dell’imputato,
senza limitarsi alla verifica dell’idoneità degli elementi complessivamente acquisiti a sostenere l’accusa in giudizio.
Al riguardo, rilevano le parti civili come del tutto erroneamente il giudice dell’udienza preliminare avrebbe pronunciato la sentenza
di non luogo a procedere, omettendo di sottoporre alla valutazione
del giudice dibattimentale le rilevate aporie, i contrasti o le supposte
fragilità della consulenza del pubblico ministero analizzata nella motivazione dettata dallo stesso giudice dell’udienza preliminare, financo spingendosi ad esprimere valutazioni su fatti ed evidenze probatorie relative alla responsabilità dell’imputato e necessariamente riservate all’esame del giudice del dibattimento.
Considerato in diritto
3. — Entrambi i ricorsi proposti in questa sede sono fondati.
Secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di
legittimità, anche all’esito delle modificazioni introdotte dalla legge n.
479/99, l’udienza preliminare deve ritenersi tale da aver conservato
la propria originaria natura di provvedimento d’indole processuale (e
non di merito).
Se è vero, infatti, che le modificazioni apportate dalla legge citata hanno conferito all’udienza preliminare aspetti più significativi
con riguardo al merito dell’azione penale (in particolare per l’ampliamento dei poteri officiosi relativi all’acquisizione della prova: nel
testo previgente della rubrica dell’art. 422 c.p.p. compare il riferimento a ‘sommarie informazioni’, là dove attualmente si parla di ‘integrazione probatoria’), è altrettanto vero che identica è rimasta la
finalità cui l’udienza preliminare è preordinata, consistente nell’evitare la celebrazione di dibattimenti inutili senza spingersi
all’accertamento dell’eventuale colpevolezza o innocenza
dell’imputato.

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In tal senso, mentre, da un lato, deve ritenersi sicuramente
non irrilevante la circostanza che, all’udienza preliminare, emergano
elementi di prova che, in dibattimento, potrebbero ragionevolmente
condurre all’assoluzione dell’imputato, dall’altro occorre tener presente che il proscioglimento può essere pronunciato, dal giudice
dell’udienza preliminare, solo se ed in quanto l’innocenza sia ritenuta
con certezza non superabile in dibattimento attraverso l’acquisizione
di nuove prove o a seguito di una diversa e sempre possibile rivalutazione degli elementi di prova già acquisiti.
In sintesi, al fine di pervenire a una sentenza di non luogo a
procedere, il quadro probatorio e valutativo complessivamente delineatosi ad esito dall’udienza preliminare dev’essere tale apparire, secondo un criterio di ragionevolezza, di per sé immutabile.
Si può dunque affermare che il giudice dell’udienza preliminare ha il potere di pronunziare la sentenza di non luogo a procedere in
quei soli casi nei quali non esista una prevedibile possibilità che il dibattimento possa pervenire a una diversa soluzione; ossia, in tutti i
casi in cui il dibattimento deve indubitabilmente ritenersi superfluo.
Non contrasta, con questa interpretazione, il tenore dell’art.
425, co. 3, c.P.p., che prevede la pronunzia della sentenza di non luogo a procedere “anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contradditori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in
giudizio”. Tale norma, infatti – che riecheggia la regola di giudizio
prevista dall’art. 530 c.p.p. -, conferma i rilievi indicati, poiché il parametro di giudizio rimane, non già quello relativo alla verifica
dell’innocenza dell’imputato, bensì quello concernente il riscontro
dell’impossibilità di sostenere l’accusa in giudizio. L’insufficienza e la
contraddittorietà degli elementi devono quindi avere caratteristiche
tali da non poter essere ragionevolmente considerate superabili o suscettibili di chiarimenti o sviluppi nel corso del giudizio, in forza di
un giudizio prognostico destinato a valere, tanto per l’ipotesi dell’insufficienza, quanto per quella della contraddittorietà degli elementi
di prova acquisiti, legittimando, entrambe dette caratteristiche, la
pronunzia di una sentenza di non luogo a procedere nel caso in cui le
stesse non appaiano più superabili.
In conclusione, a meno che ci si trovi in presenza di elementi
palesemente insufficienti per sostenere l’accusa in giudizio, per l’esistenza di prove positive di innocenza o per la manifesta inconsistenza

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di quelle di colpevolezza, la sentenza di non luogo a procedere non è
consentita là dove l’insufficienza o la contraddittorietà degli elementi
acquisiti appaiano superabili in dibattimento.
Si può affermare, in aderenza anche a quanto affermato in dottrina, che “sfuggono all’epilogo risolutivo i casi nei quali, pur rilevando incertezze, la parziale consistenza del panorama d’accusa è suscettibile di essere migliorata al dibattimento” (cfr. Cass., Sez. 2, n.
3180/2012, Rv. 254465).
Quello indicato è del resto l’orientamento della giurisprudenza
di questa Corte che, dopo la riforma del 1999, ha ribadito i principi
indicati (si vedano in questo senso Cass., Sez. 6, n. 42275/2001, Rv.
221303; Cass., Sez. 6, n. 1662/2000, Rv. 220751; Cass., Sez. 4, n.
26410/2007, Rv. 236800; Cass. Sez. 4, n. 13163/2008, Rv. 239597)
in precedenza fatti propri anche dalla Corte Costituzionale (v. Corte
Cost., sent. n. 71/1996 che così si esprime su questo punto: “l’apprezzamento del merito che il giudice è chiamato a compiere all’esito della udienza preliminare non si sviluppa, infatti, secondo un canone,
sia pur prognostico, di colpevolezza o di innocenza, ma si incentra
sulla ben diversa prospettiva di delibare se, nel caso di specie, risulti
o meno necessario dare ingresso alla successiva fase del dibattimento: la sentenza di non luogo a procedere, dunque, era e resta, anche
dopo le modifiche subite dall’art. 425 c.p.p., una sentenza di tipo
“processuale”, destinata null’altro che a paralizzare la domanda di
giudizio formulata dal Pubblico Ministero”).
L’esame della sentenza impugnata dimostra che il giudice di
merito non si è attenuto ai principi indicati.
Il provvedimento impugnato risulta, infatti, nella sua sostanziale impostazione, incentrato sulla verifica dell’insussistenza del delitto contestato all’imputato, e di fatto governato da una logica di giudizio sovrapponibile a quella propria dell’esame dibattimentale, piuttosto che a quella coerente alle specifiche finalità dell’udienza preliminare, avendo la sentenza impugnata apoditticamente correlato
l’asserzione dell’indimostrabilità del rilievo causale delle condotte
omissive addebitate all’imputato (cfr. pag. 7 della sentenza impugnata) (tale da escludere che l’approfondimento istruttorio dibattimentale avrebbe potuto condurre ad esiti diversi) al presupposto secondo
cui le contrarie affermazioni astrattamente ricavabili dalle valutazioni
espresse dal consulente tecnico del pubblico ministero (secondo cui

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l’invaginazione intestinale sofferta dal piccolo Francesco era già insorta quando lo stesso era sotto il controllo medico dell’imputato) sarebbero minate da “non modeste aporie di ordine logico e argomentativo” (cfr. pag. n della sentenza impugnata), oltre che contrastate da
altre emergenze probatorie, segnatamente consistenti nella mancata
percezione, da parte dei medici ch’ebbero successivamente a intervenire chirurgicamente sul piccolo Francesco, di alcun fenomeno necrotico della parete intestinale invaginata che sarebbe stata “talmente
evidente da non poter sfuggire neanche al più disattento e negligente
tra i medici” se l’insorgere della patologia fosse stata già presente nei
giorni in cui il paziente era sotto l’esclusivo controllo medico del Conti Nibali (cfr. pag. 14); con la conseguente valutazione di inverosimiglianza di tale ipotesi (per l’assurda scelleratezza” che avrebbe connotato una simile condotta dei chirurghi) e della stessa spiegazione
sul punto fornita dal consulente tecnico del pubblico ministero.
Sotto altro profilo – ritenuta l’impossibilità di sostenere che,
all’epoca della sottoposizione del paziente all’esclusivo controllo
dell’imputato, l’invaginazione intestinale fosse già presente o potesse
costituire oggetto di una ragionevole previsione (cfr. pag. 16) -, il giudice a quo ha escluso la dimostrabilità delle ulteriori omissioni contestate all’imputato (consistite nell’omettere di riferire in modo completo e adeguato, ai medici della struttura ospedaliera, la sintomatologia manifestata da Francesco Foti nonostante le comunicazioni ricevute dai genitori del bambino), avuto riguardo all’irriducibile contraddittorietà degli elementi probatori di natura testimoniale complessivamente acquisiti.
Ciò posto, osserva il collegio come le valutazioni così assertivamente compendiate dal giudice a quo appaiano tali da lasciare ancora interamente scoperta l’area delle possibili differenti valutazioni
del materiale probatorio complessivamente acquisito; e ciò, non solo
nella prospettiva della rilevabile diversità delle possibili letture degli
elementi di prova acquisiti (possibilità adombrata nello stesso provvedimento impugnato con riguardo alla tempestiva rilevabilità della
patologia: cfr. pag. 12), bensì anche sotto il profilo della ragionevole
prevedibilità di un differente approccio alla ricostruzione del ragionamento controfattuale e della relativa caratterizzazione probatoria,
sì da condurre a una differente interpretazione delle possibilità di un
diverso andamento del decorso patologico del paziente, nonché dei

profili di colpevolezza dell’imputato rilevabili nelle condotte assunte
nel corso del trattamento diagnostico del piccolo Francesco e nei successivi colloqui informativi con il personale medico della struttura
pubblica.
La mancata analitica specificazione, da parte del giudice a quo,
delle ragioni dell’assoluta e certa superfluità della celebrazione del
dibattimento, a causa della sicura inesistenza di possibili sviluppi
probatori e/o argomentativi degli elementi acquisiti o di possibili interpretazioni alternative di questi, impone la pronuncia dell’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio al tribunale di Messina
per nuovo esame.
Per questi motivi
la Corte Suprema di Cassazione, annulla la impugnata sentenza con rinvio al tribunale di Messina per nuovo esame.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 28.2.2014.

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