Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 10956 del 28/11/2013


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 10956 Anno 2014
Presidente: SIRENA PIETRO ANTONIO
Relatore: FOTI GIACOMO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
VIDETTA PASQUALE N. IL 18/10/1966
avverso l’ordinanza n. 16/2010 CORTE APPELLO di POTENZA, del
09/03/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIA OMO FOTI;
lette/sentite le conclusioni del PG Dott.

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Uditi difens Avv.;

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Data Udienza: 28/11/2013

-1- Videtta Pasquale ricorre per cassazione, per il tramite del difensore, avverso l’ordinanza
della Corte d’Appello di Potenza, del 9 marzo 2012, con la quale è stata respinta la domanda,
dallo stesso avanzata, di riparazione per l’ingiusta detenzione sofferta a seguito di ordinanza di
custodia cautelare in carcere emessa dal Gip dello stesso tribunale per concorso nel delitto di
omicidio volontario di Sarti Valentino. Accusa dalla quale è stato in seguito assolto.
I giudici della riparazione sono pervenuti alla decisione di rigetto, avendo ravvisato una
condotta processuale gravemente colposa dell’istante, laddove lo stesso, a fronte di un
complesso quadro indiziario che lo indicava quale responsabile, in concorso con il padre ed un
fratello, nell’omicidio, aveva mantenuto il più assoluto silenzio su circostanze ritenute dal
giudice della riparazione processualmente utili e che, se rivelate, e verificate, avrebbero potuto
orientare le indagini in senso favorevole all’imputato. In particolare, il silenzio avrebbe
riguardato alcune circostanze rivelate dal figlio dell’uomo ucciso, e cioè, che l’auto ed il
bestiame dei Videtta sono stati avvistati, il giorno del delitto, in luoghi non distanti da quello
ove è stato rinvenuto il cadavere della vittima. Il Videtta, quindi, venendo meno ad
un’elementare regola di condotta, aveva omesso di fornire contributi conoscitivi concernenti
tali circostanze, di guisa che aveva finito con il rafforzare il contesto indiziario acquisito a
carico dello stesso, in tal guisa avendo contribuito a produrre un effetto idoneo a trarre in errore
l’autorità giudiziaria.
-2- Deduce il ricorrente, nel chiedere l’annullamento dell’ordinanza impugnata, violazione
di legge e vizio di motivazione della stessa, laddove la corte territoriale, senza tener conto
delle emergenze istruttorie e di quanto sostenuto nelle sentenze assolutorie, di primo e
secondo grado, indebitamente avrebbe individuato una condotta gravemente colpevole ed
ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione nelle stesse difese dell’imputato; il
quale, in realtà, non aveva serbato silenzi di sorta ma si era adeguatamente difeso.
-3- L’Avvocatura Generale dello Stato, costituitasi in giudizio nell’interesse del Ministero
dell’Economia e delle Finanze, chiede dichiararsi inammissibile ovvero rigettarsi il ricorso.
Considerato in diritto.
Il ricorso è fondato e deve essere, quindi, accolto.
-1- Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di riparazione per
ingiusta detenzione al giudice del merito spetta, anzitutto, di verificare se chi l’ha patita vi
abbia dato causa, ovvero vi abbia concorso, con dolo o colpa grave. A tal fine, egli deve
prendere in esame tutti gli elementi probatori disponibili, relativi alla condotta del soggetto,
sia precedente che successiva alla perdita della libertà, al fine di stabilire se tale condotta
abbia determinato, ovvero anche solo contribuito a determinare, la formazione di un quadro
indiziario che ha indotto all’adozione o alla conferma del provvedimento restrittivo. Tale
condizione, ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo, deve manifestarsi
attraverso comportamenti concreti, precisamente individuati, che il giudice di merito è
tenuto ad apprezzare, in modo autonomo e completo, al fine di stabilire, con valutazione “ex
ante”, non se essi abbiano rilevanza penale, ma solo se si siano posti come fattore
condizionante rispetto all’emissione o il mantenimento del provvedimento di custodia
cautelare.
E’ stato anche affermato che nel procedimento riparatorio può costituire elemento di
valutazione la stessa condotta processuale del richiedente, in relazione al silenzio dallo
stesso serbato durante le indagini e in occasione degli stessi interrogatori resi all’autorità
giudiziaria.
A tale proposito, è stato sostenuto che l’avvalersi della facoltà di non rispondere costituisce
legittimo esercizio di un diritto, riconosciuto dalla legge, ritenuto dall’indagato funzionale

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Ritenuto in fatto.

P.Q.M.

3

alla propria difesa, e dunque del tutto neutro, di per sé, rispetto ai temi del dolo e della colpa
grave come delineati dalla norma ai fini del giudizio riparatorio. Analogamente, peraltro, a
quanto è stato osservato con riguardo a comportamenti processuali caratterizzati persino da
reticenza o menzogna, che pure rappresentano il legittimo esercizio del diritto di difesa
dell’ indagato.
Anche detti comportamenti, pur legittimi, possono però essere oggetto di indagine nel
giudizio riparatorio, posto che è stato individuato in capo all’indagato un onere di
rappresentazione ed allegazione di elementi probatori allo stesso favorevoli, per dar modo
all’organo inquirente di comporre un più preciso quadro investigativo ed indiziario che
consenta interventi ad esso adeguati, anche correttivi, proprio con riguardo a provvedimenti
concernenti la libertà personale dell’indagato. Il mancato rispetto di tale onere può quindi
rappresentare manifestazione di colpa grave, posto che, in tal caso, non si tratta di
sanzionare l’esercizio di un diritto fondamentale della persona, quale quello al silenzio, ma
di attribuire rilevanza al mancato esercizio di un diritto o facoltà che, anche nel processo
sulla responsabilità, acquista rilievo (ad es., la mancata indicazione di un alibi).
E tuttavia, è stato da questa Corte condivisibilmente anche affermato che, perché i predetti
comportamenti possano essere ricondotti nell’ambito del dolo o della colpa grave, occorre
che siano accompagnati dalle seguenti circostanze:
a) che i fatti taciuti siano specifici e sicuramente noti all’indagato,
b) che essi siano ignoti all’autorità giudiziaria,
c) che essi abbiano effetto decisamente dirimente rispetto alle accuse contestate (diverse
sentenze di questa Corte sostengono che i fatti taciuti debbano essere “risolutamente
favorevoli”), nel senso che siano tali da determinare la completa eliminazione del valore
indiziante degli elementi, acquisiti in sede investigativa, che hanno determinato l’adozione
del provvedimento restrittivo,
d) che la condotta dell’indagato si sia posta in posizione sinergica rispetto all’adozione del
provvedimento restrittivo e al mantenimento dello stesso (Cass. nn. 14439/06, 24355/06,
26686/06, 43309/08, 16370/03, 40902/08, 47041/08, 44090/11)
-2- Orbene, ritiene la Corte che, nel caso di specie, tale analisi non sia stata compiutamente
svolta dal giudice della riparazione, ovvero sia stata svolta in maniera incompleta ed
assertiva.
In realtà, la corte territoriale, dopo avere individuato nel silenzio del Videtta -per la verità
dallo stesso negato, laddove nel ricorso si sostiene che l’indagato aveva puntualmente
risposto alle domande rivoltegli ed aveva persino depositato una perizia giurata dalla quale
sarebbe emersa l’inconsistenza della tesi d’accusa- non ha chiarito:
a) quali elementi il Videtta aveva omesso di allegare a propria discolpa;
b) perché ed in che termini gli elementi taciuti potevano ritenersi dirimenti (“risolutamente
favorevoli”) rispetto alle accuse contestate, nel senso che, ove conosciuti dagli inquirenti,
essi avrebbero annullato il valore indiziante degli elementi acquisiti in sede investigativa, sui
quali il Gip ha fondato il provvedimento restrittivo;
c) perché ed in che termini la condotta silente dell’indagato si è posta in posizione
sinergica rispetto all’adozione del provvedimento restrittivo e al mantenimento dello stesso,
ove si consideri che, secondo quanto emerge dall’ordinanza impugnata, gli elementi di
accusa a carico del Videtta sono stati tratti, in primis, dalle dichiarazioni rese dal figlio della
vittima.
-3- Sussistenti, in conclusione, sono i vizi motivazionali dedotti dal ricorrente, di guisa che
l’ordinanza impugnata deve essere annullata, con rinvio al giudice a quo per nuovo esame.

Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Potenza per l’ulteriore
corso.

Così deciso in Roma, il 28 novembre 2013.

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