Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 10938 del 20/02/2014


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 10938 Anno 2014
Presidente: SIRENA PIETRO ANTONIO
Relatore: PICCIALLI PATRIZIA

Data Udienza: 20/02/2014

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
CANANZI FRANCESCO N. IL 11/04/1947
DE ROSA ARSENIO N. IL 18/09/1941
GABRIELLI GIUSEPPE N. IL 14/03/1967
avverso la sentenza n. 1547/2011 CORTE APPELLO di GENOVA, del
13/03/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 20/02/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. PATRIZIA PICCIALLI
Udito il Procuratore GeRerale in persona del Dott. ectil/y2r, ..x_
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Ritenuto in fatto
Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Genova, in riforma della
sentenza di primo grado, impugnata dalla parte civile SERAFINI Maria Casseri, dichiarava
GABRIELLI Giuseppe, DE ROSA Arsenio, CANANZI Francesco, responsabili ai fini civili del
reato di incendio colposo ex artt. 113, 449 c.p., contestato sotto il profilo di condotte
colpose indipendenti.

incendio sul tetto del condominio ” Casa Mia”, che veniva domato dopo alcune ore dai
Vigili del Fuoco.
L’origine del fuoco che si propagava per l’interra copertura del palazzo, che andava
completamente distrutta e che estendendosi al piano sottostante raggiungeva gli
appartamenti siti al sesto piano, distruggendoli quasi completamente nelle strutture
murarie e negli arredi, è stata attribuita, secondo l’impostazione accusatoria, al
comportamento negligente del Gabrielli, operaio addetto alla posa della guaina
bituminosa per la impermeabilizzazione del manto di copertura del tetto. Tale condotta
colposa veniva individuata in profili di colpa generica ed in profili di colpa specifica
concretizzatasi nella violazione delle norme di sicurezza ricavabili dalle istruzioni d’uso del
cannello a fiamma utilizzato per la saldatura della guaina impermeabilizzante ed
appoggiato ancora acceso ovvero spento ma ancora incandescente sulla superficie di
copertura.
Al De Rosa,nella qualità di presidente della cooperativa edile LUNEDIL, avente in appalto i
lavori di rifacimento ed impermeabilizzazione del tetto di copertura del predetto palazzo e
di datore di lavoro del Gabrielli, ed al Cananzi, quale direttore dei lavori e progettista
nonché coordinatore per la sicurezza, veniva contestato di avere colposamente dato
causa al disastro, avendo disposto quale modalità più adeguata per la copertura ed
impermeabilizzazione del tetto la posa delle guaine bituminose a caldo con l’utilizzo di
strumento a fiamma, senza avere adeguatamente valutato il rischio della lavorazione in
concreto, posto che la struttura del tetto era particolarmente vulnerabile sotto il profilo
della possibilità di prendere fuoco perché costituita da materiali facilmente contestabili. Al
De Rosa, inoltre, era contestato di non avere adeguatamente provveduto a formare ed
informare il proprio dipendente Gabrielli sulle modalità di utilizzo del cannello a fiamma,
non avendo neanche introdotto nel piano operativo di sicurezza le specifiche modalità di
sicurezza da seguire dopo l’utilizzo dello strumento, così come indicate nel manuale
d’uso.
Il giudice di primo grado affermava, alla luce dell’istruttoria espletata, che non sussisteva
in atti una prova certa in ordine alla sussistenza del nesso di causalità tra la condotta

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Il giorno 3 dicembre 2002 in La Spezia, via XX settembre n. 166 si era sviluppato un

ascritta agli imputati- tutte incentrate sull’uso incauto del cannello a fiamma- e l’incendio.
Sul punto veniva anzi sottolineato che le consulenze della difesa avevano introdotto
evidenze che minavano la stessa validità scientifica della ricostruzione della causa
dell’incendio proposta dall’accusa, vale a dire quella riconducibile ad un uso incauto del
cannello a fiamma. Anche aderendo alla prospettiva dell’accusa e cioè che il cannello
fosse stato appoggiato incautamente sulla lamiera che rivestiva la struttura lignea e sulla
quale lamiera si stava stendendo la guaina ramata, il giudicante riteneva che tale azione
non poteva dare luogo all’incendio poiché la temperatura di infiammabilità del legno varia

potevano essere trasmesse dal cannello ancora caldo e munito della sola fiamma pilota
(equivalente a quella di un semplice accendino). L’unico modo per sviluppare quelle
temperature sarebbe stato indirizzare la fiamma del cannello, ad elevata intensità,
direttamente sulla superficie del tetto, in un unico punto e per un tempo prolungato. La
sentenza di primo grado sottolineava, altresì, che la consulenza tecnica del PM e la polizia
giudiziaria non avevano neanche preso in considerazione le cause alternative dell’incendio
evidenziate dalle difese.
La Corte di appello individuava,invece, la colpa nella condotta negligente del Gabrielli, che
aveva indugiato eccessivamente nell’uso della fiamma, tenendo soltanto conto della
particolare situazione metereologica ( caratterizzata da un forte vento) ed omettendo di
acquisire le necessarie informazioni sulla composizione della superficie sottostante.
Il giudicante individuava, altresì, quale ulteriore profilo di colpa dell’imputato l’aver
lasciato in loco le bombole anziché riporle nei termini di cui al piano di sicurezza; inoltre,
il punto di rinvenimento del cannello ( sulla verticale del cupolotto) indicava, secondo la
Corte di merito, un abbandono dello stesso, ancora caldo, sul cupolotto medesimo, già
ovviamente surriscaldato.
La responsabilità del De Rosa, nella qualità di datore di lavoro, veniva, invece fondata,
innanzitutto nella mancanza di informazione del lavoratore sui rischi insiti nel particolare
tipo di lavorazione in relazione alle tipologie dei materiali su cui veniva effettuato il lavoro
e nella mancanza di formazione, sul rilievo della mancanza di riunioni specifiche di
formazione e coordinamento per la sicurezza con riferimento al tipo di mansioni da
svolgere e di aggiornamento in relazione alla specificità delle operazioni da compiere. La
responsabilità del Cananzi,in quanto progettista, direttore dei lavori e coordinatore per la
sicurezza era fondata sulla omessa valutazione del rischio specifico del tipo di
lavorazione, attesa la mancata menzione del rischio nel piano, definito come un
prestampato riempito nell’occasione. Allo stesso erano, infine, imputate le mancate
riunioni sulla sicurezza e la mancata verificazione dell’impiego della somma, pure
preventivata, in 50.000,00 euro per la sicurezza.

3

dai 200 ai 300 gradi mentre la guaina si scioglie a 143 gradi e tali temperature non

Avverso tale sentenza hanno proposto distinti ricorsi Cananzi, De Rosa e Gabrielli ( gli
ultimi due sovrapponibili).
Cananzi lamenta vizio di motivazione della sentenza sotto più profili.
Innanzitutto per avere indicato apoditticamente che l’origine del fuoco era da individuarsi
nella condotta colposa del Gabrielli così accogliendo acriticamente l’impostazione
accusatoria sul nesso causale. Sul punto il giudice di primo grado aveva ritenuto che la
presenza della lamierina in rame avrebbe impedito il contatto tra il calore della fiamma

consentito la creazione di una brace silente. Si sostiene che la Corte di appello sorvolando
sulle argomentazioni assolutorie del primo giudice e sulle risultanze processuali ed
accogliendo le argomentazioni della difesa aveva affermato che il sistema di applicazione
della guaina poljram- che prevede un incollaggio a caldo tra lo strato di primer e lo strato
bituminoso della guaina- in considerazione alla situazione climatica contingente aveva
richiesto una più vigorosa applicazione della fiamma; che l’indugiare con la fiamma
accesa sulla superficie di lavoro era sufficiente a conferire al legno sottostante la sottile
lamiera sufficiente calore idoneo a superare la temperatura di autoaccensione del legno
(200-300 gradi), rendendo così possibile l’incendio senza che l’operatore se ne accorga.
Si censura quale illogica tale motivazione insistendo sulla circostanza che dall’uso incauto
del cannello per fare aderire i pannelli di polyram alla lamiera sarebbe derivato la
liquefazione dei pannelli e che se la fiamma fosse stata orientata incautamente, in modo
da lambire anche la superficie costituita dalla lamiera ricoperta di primer, il legno non
avrebbe raggiunto le condizioni di autoaccensione, essendo impossibile che l’intervento
dell’operatore avesse determinato il superamento dei 200° senza la fusione della guaina.
Si sostiene altresì che la Corte di merito non aveva tenuto delle dichiarazioni rese dal
consulente della difesa Pini, il quale aveva escluso la possibilità per l’operatore di poter
usare la fiamma sopra la lamiera coperta di primer per fare aderire il poljram, perché lo
stesso avrebbe perso la funzione di collante. I giudici di appello non avevano tenuto conto
neanche del fatto che tra la fine del lavoro ed il primo manifestarsi dell’incendio era
intercorso il tempo considerevole di 1 ora e 10 minuti. La Corte di merito sarebbe,
pertanto, partita da una circostanza indimostrata: il volontario orientamento del flusso di
calore verso materiali diversi dalla guaina, circostanza contraddetta dalle dichiarazioni
rese dal Gabrielli all’udienza preliminare del 23 maggio 2006.
Con il secondo motivo si lamenta l’erronea applicazione della legge con riferimento ai
criteri di individuazione dei profili di colpa a carico del Cananzi, sul rilievo dell’apoditticità
delle affermazioni riguardanti il piano di sicurezza e coordinamento, definito un
prestampato, e la mancata verificazione dell’impiego della somma di euro 50.000,00
preventivata per la sicurezza le mancate riunioni per la sicurezza e la mancata

Ai

usata dal Gabrielli ed il tetto ligneo e che il breve tempo della sfiammata non avrebbe

valutazione del rischio specifico derivante dalla lavorazione. Si sostiene l’omessa
valutazione di due elementi prodotti dalla difesa: il giudizio espresso dal Comitato
paritetico nazionale e le dichiarazione rese dal teste architetto Floris sulla correttezza e
completezza del piano di sicurezza e coordinamento.
Manifestamente illogica sarebbe la motivazione che non avrebbe tenuto conto delle
evidenze scientifiche, riportate nella consulenza della difesa Caruana, secondo le quali se
fosse stato usato incautamente il cannello, superando la temperatura di 143 °, il

incautamente in modo da lambire, oltre al polyram, anche la superficie costituita dalla
lamiera ricoperta di primer portando le temperature al punto di liquefazione, il legno
sottostante alla lamiera non avrebbe raggiunto le condizioni di autoaccensione e l’uso
improprio sul primer avrebbe fatto perdere le qualità adesive anche di detto materiale.
Quanto alla mancata valutazione del rischio specifico del tipo di lavorazione, si sostiene
che il giudice di appello aveva omesso di considerare il contenuto dell’integrazione del
piano operativo di sicurezza, dedicato a ” impermeabilizzazioni con guaine o bitume”.
Nessun riscontro probatorio era all’affermazione secondo la quale il Gabrielli avrebbe
dichiarato di non conoscere lo stato del sottotetto e sulla inadeguatezza della
individuazione della copertura a caldo rispetto alla struttura lignea del tetto.
Si contestano i profili di colpa individuati a suo carico nella qualità di progettista e
direttore dei lavori per conto del committente e come tale con compiti di sorveglianza
tecnica in relazione alla esecuzione del progetto, affinchè i lavori fossero eseguiti a regola
d’arte, senza possibilità di ingerirsi nell’organizzazione del cantiere e nella esecuzione dei
lavori.
Analoga censura viene svolta con riferimento al profilo di colpa individuato quale
coordinatore per la sicurezza per le mancate riunioni di coordinamento che
presuppongono una pluralità di imprese nel cantiere, nella specie insussistente.
De Rosa e Gabrielli con distinti ricorsi articolano gli stessi motivi.
Deducono l’erronea applicazione della legge penale con riferimento ai criteri di
individuazione delle condotte incriminate e del nesso di causalità tra le stesse e l’evento
dannoso nonché la manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del
provvedimento impugnato.
Si deduce che le conclusioni cui era pervenuto il giudice di appello avevano comportato
un ampliamento delle condotte colpose ascritte agli imputati attraverso il travisamento di
dichiarazioni testimoniali, di prove tecniche e di dichiarazioni degli imputati. Si censura, in
particolare, la sentenza laddove assume come causa dell’incendio il lavoro eseguito dal

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Polygram avrebbe raggiunto la liquefazione e anche se la fiamma fosse stata orientata

Gabrielli senza specificare l’attività svolta da quest’ultimo e nella parte in cui, accogliendo
le osservazioni contenute nell’atto di appello della parte civile, afferma che il giudice di
primo grado avrebbe immotivatamente squalificato la consulenza del PM. Il Tribunale
aveva, invece, evidenziato che la consulenza del PM aveva esaminato solo la
prospettazione accusatoria senza allargare l’analisi ad altre possibili cause di innesco
dell’incendio. La Corte di appello, inoltre, non aveva valorizzato il dato che la consulenza
tecnica della difesa ( dell’ing. Savio) aveva eseguito prove tecniche di simulazione
finalizzate a riprodurre le condizioni fattuali. Si censura ancora la sentenza laddove

proverebbe che il Gabrielli stava lavorando sulla verticale di quel punto senza tener
conto della mancanza di significato di tale dato nell’ambito delle conseguenze derivanti
dalle operazioni di spegnimento di un violento incendio con i potenti getti d’acqua dei
vigili del fuoco. La colata di materiale bituminoso dal tetto ai livelli sottostanti, che
secondo il giudice di appello avrebbe contraddetto la consulenza della difesa con
riferimento al punto ove lavorava il Gabrielli, dimostrerebbe, ad avviso della difesa,
solamente che l’incendio, avendo interessato il tetto del palazzo, aveva determinato lo
scioglimento e la combustione della componente bituminosa della guaina. Si sostiene, alla
luce della testimonianza resa dal vigile del fuoco Marinelli, che, contrariamente a quanto
sostenuto in sentenza, la consulenza della difesa non aveva mai sostenuto che l’incendio
potesse essere stato originato dai motori dell’ascensore, che era al piano terreno, ma solo
che tra le cause probabili poteva essere individuato un guasto all’impianto elettrico che
era presente nel sottotetto ove erano collocate le pulegge di rinvio dell’ascensore.
Illogicamente il giudicante aveva desunto dalla colata bituminosa sulle tute dei vigili del
fuoco all’apertura di detto vano che la guaina di poljram si fosse sciolta per l’eccessivo
calore proveniente dall’alto, identificando il tetto quale luogo di origine dell’incendio.
Analoga censura di illogicità viene svolta con riferimento alla valutazione compiuta dal
giudicante in relazione alla posizione ante e post incendio delle bombole, nella parte in cui
si sottolinea che la prolungata esposizione alla fiamma della guaina aveva provocato la
lacerazione della valvola delle bombole mentre se le bombole fossero cadute sulla fiamma
viva sarebbero esplose. Si contesta anche la critica rivolta dalla sentenza alle conclusioni
di uno dei consulenti della difesa ( ing. Caruana), il quale aveva affermato che il Gabrielli
non poteva aver commesso errori nell’operazione di saldatura delle guaine. Si sostiene il
travisamento delle dichiarazioni rese al dibattimento dal Gabrielli, il quale aveva
affermato di avere scaldato la guaina in circa 10 minuti. Il giudicante aveva posto in
relazione tale dichiarazione con la situazione climatica contingente ed aveva ritenuto tale
evento idoneo al raggiungimento della temperatura critica provocante la combustione del
legno. In realtà, il Gabrielli non aveva fatto alcun accenno alle condizioni climatiche ed
aveva lavorato, secondo quanto dichiarato, su superfici di mattoni e cemento, applicando
una guaina della larghezza di 15-20 cm per tutta la lunghezza del cornicione del cupolotto

c

afferma che il ritrovamento del soffione del cannello in una stanza di appartamento

utilizzando la fiamma per circa 10 minuti. Manifestamente illogica sarebbe la motivazione
che, accogliendo la tesi del consulente del PM, ha sostenuto la possibilità che l’incendio si
fosse propagato a causa dell’eccessivo indugiare del Gabrielli sulla superficie di lavoro,
senza tener conto che lo stesso lavorava sulla parte frontale del cupolotto ove non vi era
la lamiera con sottostante legno ma muratura in mattoni e cemento. Infine,
sull’affermazione del giudice che il Gabrielli avrebbe appoggiato il cannello sulla parte
piana del cupolotto e non quella del terrazzo soprastante, come desunto dalla posizione
della scala sul muro e dal rinvenimento del soffione all’interno dell’abitazione sottostante,

dibattimentale che l’imputato lavorava sulla parte perimetrale del cupolotto costituita di
muratura e senza parti in legno, per cui anche l’eventuale indugiare della fiamma sarebbe
stato ininfluente stante l’assenza di sottostanti materiali infiammabili.

Considerato in diritto

I ricorsi proposti nell’interesse di De Rosa Arsenio e Gabriele Giuseppe sono infondati.

I giudici di appello, hanno affermato il giudizio di responsabilità degli imputati, ai soli
effetti civili, facendo riferimento innanzitutto all’ inadempimento da parte del Gabrielli
all’obbligo di adozione delle cautele doverose nell’utilizzo del cannello a fiamma per la
saldatura della guaina previste proprio al fine di prevenire gli incendi, la cui omissione è
stata posta in nesso di relazione causale con l’evento prodottosi ed è stata ricondotta
anche alla posizione di garanzia rivestita dal De Rosa, nella qualità di datore di lavoro.

Sono state, pertanto, recepite le argomentazioni contenute nella consulenza tecnica del
PM che ha individuato nell’uso incauto del cannello a fiamma la causa ragionevole
dell’innesco dell’incendio mentre sono state disattese le conclusioni dei consulenti tecnici
delle difese, che si sono soffermate in particolare sulle fonti di innesco alternative a quelle
ipotizzate dall’accusa, sul rilievo che non sono state tenute in adeguato conto tutte le
emergenze processuali.

Rispetto alla ricostruzione delle cause tecniche dell’evento incendio, le doglianze dei
ricorrenti De Rosa e Gabrielli, per quanto si esporrà, si risolvono in censure di merito,
inaccoglibili in questa sede e risultano implicitamente superate dalle ragioni di segno
contrario che legittimano la decisione.

Le censure prospettano, sotto diversi profili, la manifesta illogicità della motivazione con
riferimento alle cause di innesco dell’incendio.

I.-

si rileva la contraddizione della motivazione, essendo emerso dall’istruttoria

Ritiene il Collegio che le doglianze prospettate sulla tenuta logica della motivazione della
sentenza di secondo grado sono inaccoglibili laddove questa ha ricostruito positivamente
il nesso eziologico tra la condotta addebitata al Gabrielli e l’incendio ed ha riconosciuto
sussistenti i profili della colpa a carico di ciascuno degli imputati.

Al riguardo, nell’esaminare le censure formulate dai ricorrenti, non è inutile ricordare, in

Innanzitutto va ricordato che nell’ipotesi, come quella in esame, in cui il giudice di
appello, per diversità di apprezzamenti, per l’apporto critico delle parti e o per le nuove
eventuali acquisizioni probatorie, ritenga di pervenire a conclusioni diverse da quelle
accolte dal giudice di primo grado, questa Corte ha in più occasioni affermato che il
problema della motivazione della decisione non può essere risolto inserendo nella
struttura argomentativa di quella di primo grado – genericamente richiamata – delle
notazioni critiche di dissenso, in una sorta di ideale montaggio di valutazioni ed
argomentazioni fra loro dissonanti, essendo invece necessario che il giudice di secondo
grado riesamini, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal giudice di primo
grado, considerando quello eventualmente sfuggito alla sua delibazione e quello
ulteriormente acquisito, per dare, riguardo alle parti della prima sentenza non condivise,
una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni
(v. Sezioni unite, 4 febbraio 1992, Musumeci ed altri, rv. 121229 e da ultimo,Sezione IV,
11 luglio 2012, p.c. in proc. Ingrassia, rv. 254617).

In relazione alle censure formulate, va, altresì, sottolineato che ai sensi di quanto
disposto dall’art. 606, comma 1, lettera e),

c.p.p., il controllo di legittimità sulla

motivazione non concerne né la ricostruzione dei fatti né l’apprezzamento del giudice di
merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due
requisiti che lo rendono insindacabile: 1) l’esposizione delle ragioni giuridicamente
significative che lo hanno determinato; 2) l’assenza di illogicità evidenti, ossia la
congruenza delle argomentazioni rispetto al all’obbligo di adozione delle cautele e dei
presidi necessari e dovuti al fine di prevenire gli incendi, la cui omissione è stata posta in
nesso di relazione causale con l’evento prodottosi.fine giustificativo del provvedimento.
Con l’ulteriore precisazione che l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile,
deve essere evidente (“manifesta illogicità”), cioè di spessore tale da risultare percepibile
ictu ocu/i, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di
macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi
disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano

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via preliminare, i rigorosi limiti del controllo di legittimità sulla sentenza di merito.

logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico
ed adeguato le ragioni del convincimento.

Alla luce di tali principi, ritiene il Collegio che il percorso motivazionale seguito nella
sentenza in esame con riferimento alle posizioni del Gabrielli e del De Rosa resiste al
vaglio di legittimità.

Il giudice di appello non si è limitato, infatti, a recepire le conclusioni del consulente del

affrontato il tema ampiamente svolto dal giudice di primo grado sulla ricerca di cause
alternative all’innesco dell’incendio, prospettate valorizzando le ipotesi formulate dai
consulenti della difesa.

La Corte di merito, invece, ha sostituito all’analisi compiuta dal primo giudice una sua
analisi ed ha svolto, per motivare il dissenso rispetto alla sentenza di primo grado,
argomentazioni logiche e coerenti agli elementi probatori in atti.

Passando all’esame della censura comune agli imputati, afferente il nesso di causalità,
osserva il Collegio che la doglianza è infondata avendo la Corte di appello logicamente
evidenziato le seguenti circostanze di fatto: il fuoco si è sviluppato nell’angolo nord est
del fabbricato, ove lavorava il Gabrielli con il cannello a fiamma; alle ore 16,30 è stata
compiuta l’ultima operazione di saldatura, in un clima caratterizzato da un vento freddo
siberiano che aveva abbassato di molto la temperatura; alle ore 17,44 la Centrale
operativa dei Vigili del Fuoco riceveva la chiamata per un incendio che si stava
sviluppando sul lato nord est del tetto dell’edificio, che si estendeva poi al piano
sottostante.

Tali circostanze depongono già tutte convergentemente per un ragionevole collegamento
tra l’attività espletata dal Gabrielli e l’incendio, ma ciò che più rileva è che il rischio
incendi, come emerge con chiarezza dalla consulenza tecnica del PM, era proprio
collegato all’utilizzo del cannello a fiamma per la saldatura della guaina bituminosa per la
impermeabilizzazione del manto di copertura del tetto, in assenza delle cautele, imposte
nel manuale d’uso della ditta fornitrice del mezzo.

Sul punto il giudice di appello ha riportato uno stralcio della consulenza del PM, secondo il
quale è sufficiente indugiare con la fiamma accesa sulla superficie di lavoro, perché il
calore del dardo di fiamma possa conferire al legno, sottostante la sottile lamiera,
sufficiente calore tale da far sì questo superi la temperatura di autoaccensione; e perché,
una volta raggiunta tale temperatura ( 200-300°C), il legno in presenza d’aria ( la

PM, attestate sull’ uso incauto del cannello a fiamma da parte del Gabrielli, ma ha

giornata era ventosa) inizi spontaneamente a bruciare senza che l’operatore se ne possa
accorgere essendo il legno ricoperto dalla lamiera. E’ stato, altresì, sottolineato nella
stessa consulenza, che l’ incubazione può essere anche lenta in quanto il legno comincia a
bruciare lentamente ed, in questo caso, il fuoco, grazie al materiale facilmente
combustibile del tetto e del controsoffitto- sul quale probabilmente aveva incominciato a
colare il bitume fuso dal calore- si era esteso, spinto anche dal vento, verso il locale delle
pulegge di rinvio dell’ascensore, che così ne rimaneva coinvolto.

testimonianza del caposquadra dei Vigili del Fuoco, il quale ha riferito della colata del
materiale sugli indumenti protettivi della squadra di materiale bituminoso, misto a
stagno- la guaina di polycram-, proveniente dal sottotetto.

A tale dato il giudice di appello riconosce logicamente una particolare rilevanza,
contraddicendo quanto riferito in una delle consulenze della difesa secondo la quale sotto
la superficie sfiammata non vi era materiale combustibile.

Né può validamente contrastarsi tale ricostruzione alla luce dei dati valorizzati dalle
consulenze tecniche della difesa.

Sul punto, correttamente i giudici di appello hanno evidenziato che le ricostruzioni ivi
operate sono meramente assertive e si fondano su una ricostruzione della vicenda alla
luce di opinabili fonti di innesco dell’incendio alternative a quelle ipotizzate dall’accusa.
Si tratta, in vero, di ricostruzioni che poggiano sulla descrizione di una serie di possibili
cause dell’evento (impianti elettrici condominiali e privati e relativi interruttori
magnetotermici mal funzionanti, piattine abbandonate, fiammata partita dal locale delle
pulegge di rinvio dell’ascensore, le canne fumarie), indipendenti dall’esecuzione dei lavori
da parte del Gabrielli, rimaste indimostrate e puntualmente smentite nella sentenza
impugnata.

In questa ottica ricostruttiva, evidentemente inaccoglibili sono le ulteriori censure che
articolano i ricorrenti, siccome volte a provocare un inammissibile sindacato sul merito
dell’apprezzamento delle prove e, prima di esso, sulla ricostruzione dei fatti.

Ciò deve dirsi sulla doglianza rivolta a censurare la sentenza impugnata, sostenendo che,
contrariamente a quanto ivi affermato, nessuna violazione di regole di condotta era
imputabile al Gabrielli, il quale, avrebbe operato in modo conforme al protocollo. Per
contrastare tale assunto i giudici di appello hanno anche evidenziato le dichiarazioni rese
dal Gabrielli in udienza preliminare sul maggior tempo ( dieci minuti) dedicato in quella

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Prova della colatura del bitume fuso è stata dal giudicante logicamente rinvenuta nella

occasione al riscaldamento della guaina e quelle dallo stesso rese in sede di assunzione
di informazioni in data 17.12.2002, sulla circostanza che non gli era stato detto di
verificare lo stato del sottotetto ed in particolare la consistenza dello stesso.
Ciò deve dirsi anche per la doglianza con la quale si lamenta l’illogicità della sentenza,
nella parte in cui ha escluso che la spanciatura verso l’esterno assunta dai serramenti
degli appartamenti attinti dall’incendio fosse significativa del fatto che il fuoco avesse
avuto origine negli appartamenti, essendo invece pacifico solo il dato che il fuoco si

Trattasi di argomenti che presuppongono una diversa ricostruzione dei fatti inaccoglibili in
questa sede a fronte di un apparato motivazionale complessivamente solido.

Del resto, tali argomenti, laddove poggiano sulla rappresentata sussistenza di ipotesi
alternative cui ricondurre l’innesto dell’incendio, presentano una evidente genericità che
osta al relativo apprezzamento in questa sede.

Sul punto i ricorrenti tralasciano di considerare che, secondo la giurisprudenza
consolidata di questa Corte ( v. efficacemente Sez. IV,19 giugno 2006, Talevi), in
occasione della ricostruzione del rapporto di causalità, a fronte di una spiegazione causale
del tutto logica, siccome scaturente e dedotta dalle risultanze di causa correttamente
evidenziate e spiegabilmente ritenute, la prospettazione di una spiegazione causale
alternativa e diversa, capace di inficiare o caducare quella conclusione, non può essere
affidata solo ad una indicazione “meramente possibilista” (cioè, come accadimento
possibile dell’universo fenomenico), ma deve connotarsi di elementi di concreta
probabilità, di specifica possibilità, essendo necessario cioè, che quell’accadimento
alternativo, ancorché pur sempre prospettabile come possibile, divenga anche, nel caso
concreto, hic et nunc, concretamente probabile, alla stregua, appunto, delle acquisizioni
processuali.

Va soggiunto che, a fronte di un’ipotesi alternativa nella ricostruzione della causalità, che
sia plausibile (cioè, seppur ritenuta improbabile, non consista in una ricostruzione
immotivata e di natura meramente congetturale), non riconducibile stavolta alla
condotta del soggetto [altrimenti varrebbe quanto supra puntualizzato], è comunque
consentito al giudice di escludere tale ipotesi non solo in base ad una dichiarata e
motivata affidabilità di una delle ipotesi formulate, ma tenendo anche conto delle
evidenze probatorie esistenti nel processo che consentano di negare, in termini di elevata
credibilità razionale, l’ipotesi alternativa: ciò che consente di uscire dalle secche della
valutazione probabilistica e di pervenire ad una conclusione che supera il limite costituito
dal ragionevole dubbio.

sviluppò all’interno degli appartamenti.

E’ principio qui utilmente richiamabile a fronte della spiegazione alternativa “possibilista”
articolata dai consulenti della difesa.

Il convincimento espresso dal giudice d’ appello, siccome adeguatamente argomentato
attraverso l’analisi dei diversi apporti del sapere tecnico-scientifico e le univoche prove
testimoniali, non può essere qui posto in discussione, non emergendo alcun travisamento

dichiarazioni rese dal Gabrielli, il quale ha dichiarato di aver dedicato il tempo di 10
minuti al riscaldamento della guaina .

Quanto all’apprezzamento valutativo compiuto dal giudice di appello delle tesi scientifiche
sottoposte alla sua attenzione ( la perizia del PM e le consulenze della difesa) ai fini della
soluzione del caso concreto, vanno innanzitutto precisati i limiti del controllo di legittimità
sulla decisione di merito.
Alla

Corte di cassazione,

chiamata a giudicare dell’apprezzamento sviluppato in

motivazione dal giudice di merito sulla prova scientifica e sulla teoria scientifica che ha
inteso privilegiare, non compete certamente stabilire se tale teoria sia esatta e
condivisibile: la Corte, infatti, non ha la competenza o la qualificazione per stabilire se la
legge scientifica utilizzata sia affidabile o no, mentre può e deve limitare il proprio vaglio
alla spiegazione razionale fornita in proposito dal giudice [in termini, Sezione IV, 17
settembre 2010, Cozzini].

Il giudice di merito ha la piena libertà di apprezzamento, temperata dall’obbligo di
motivazione, delle risultanze della perizia: qualora il giudice non ritenga attendibili le
conclusioni di un perito, è tenuto perciò a dare logica e adeguata ragione del suo
dissenso, fornendo un’analitica motivazione tecnico-scientifica del caso oggetto del suo
esame e dimostrando così di essersi soffermato sulla tesi che ha ritenuto di non dover
seguire. In una tale ottica, finanche ove dovesse disattendere la perizia d’ufficio, il
giudice non sarebbe però tenuto a nominare un altro perito, potendo motivare
correttamente le ragioni del dissenso in altro modo; in particolare, ben potendosi
avvalere degli esiti della consulenza di parte (cfr. Sezione I, 8 maggio 2003, Diamante).

In questa prospettiva, la motivazione del giudice di merito [in punto di apprezzamento
della prova scientifica] è sindacabile in sede di legittimità non tanto sotto il profilo
dell’esattezza o della preferibilità dell’una o dell’altra opzione scientifica, quanto piuttosto
con riferimento alla intrinseca attendibilità logica dei presupposti, dei principi, delle

delle risultanze processuali come invece sostenuto dai ricorrenti con riferimento alle

massime di esperienze, della congruenza tra le premesse fattuali e le conclusioni che ne
vengono tratte.

Si è parimenti affermato che il giudice che ritenga di aderire alle conclusioni del perito
d’ufficio, in difformità da quelle del consulente di parte, non può essere gravato
dall’obbligo di fornire, in motivazione, autonoma dimostrazione dell’esattezza scientifica
delle prime e dell’erroneità, per converso, delle altre, dovendosi al contrario considerare
sufficiente che egli dimostri di avere comunque valutato le conclusioni del perito d’ufficio

motivazione solo se queste ultime siano tali da dimostrare in modo assolutamente
lampante ed inconfutabile la fallacia delle conclusioni peritali. Più in generale, dovendosi
anzi affermare che il giudice di merito, in sede di valutazione delle risultanze offertegli da
elaborati tecnici, può fare propria l’una piuttosto che l’altra delle tesi propostegli, purchè
dia congrua ragione della scelta e dimostri di essersi soffermato sulla tesi che ha creduto
di non dover seguire (cfr. efficacemente, Sezione IV, 27 novembre 2002, Carrara).

Alla luce di tale ricostruzione dei fatti, che attesta l’uso incauto da parte del lavoratore
del cannello a fiamma, il giudizio di responsabilità formulato dal giudice di appello, sia
pure ai soli effetti civili, nei confronti Del Gabrielli e del De Rosa non è censurabile in
questa sede.

Con riferimento al De Rosa, va sottolineato che secondo i principi consolidati di questa
Corte ( v. tra le tante, Sezione IV, 17 febbraio 2009, Liberali ed altro), la responsabilità
del datore di lavoro non è esclusa dai comportamenti negligenti, trascurati, imperiti del
lavoratore, che abbiano contribuito alla verificazione dell’infortunio.
Ciò in quanto al datore di lavoro è imposto (anche) di esigere il rispetto delle regole di
cautela da parte del lavoratore: cosicchè il datore di lavoro è “garante” anche della
correttezza dell’agire del lavoratore ( v. ora articolo 18, comma 1, lettera f), del decreto
legislativo n. 81 del 2008, che impone al datore di lavoro di richiedere l’osservanza da
parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in tema
di sicurezza del lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di
protezione individuali messi a loro disposizione).

In particolare, a base dell’affermato giudizio di responsabilità i giudici d’appello hanno
posto l’apprezzata carenza organizzativa addebitale all’imputato che, nella sua qualità di
datore di lavoro ed appaltatore aveva trascurato di ottemperare agli obblighi previsti dal
d.lgs 494/1996, all’epoca vigente, non avendo adottato alcuna concreta iniziativa volta ad
eliminare il rischio connesso all’ utilizzo di uno strumento a fiamma su di una tetto
formato da una struttura composta da materiali facilmente infiammabili ed avendo

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senza ignorare le argomentazioni del consulente, e potendosi quindi ravvisare vizio di

omesso di formare ed informare il proprio dipendente sulle corrette modalità di utilizzo
del cannello a fiamma, come indicate nel manuale d’uso della ditta fornitrice del mezzo.

La posizione di garanzia ricoperta dal De Rosa (in ossequio agli obblighi comportamentali
impostigli dalla legge: art 9 d.lvo 14 agosto 1996, n. 494) gli imponeva di attivarsi
positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurandosi che si
provvedesse ad eliminare il rischio della possibilità di innesco dell’incendio derivante

La ricostruzione operata in sentenza, con l’individuazione degli addebiti colposi
riconducibile al De Rosa e della rilevanza causale di detti addebiti rispetto alla
verificazione dell’incendio non offre spazi per potere qui recepire gli assunti difensivi che
pongono in discussione la sussistenza del nesso di causalità tra le condotte ascritte agli
imputati e l’incendio dell’edificio.

Va, invece, accolto il ricorso proposto dal Cananzi.
Il percorso motivazionale seguito nella sentenza in esame è assolutamente carente
essendosi limitato il giudicante ad affermare in via apodittica che il Cananzi non aveva
individuato nel piano di sicurezza dallo stesso elaborato il rischio specifico del tipo di
lavorazione derivante dall’utilizzo del cannello a fiamma su di un tetto composto da
materiali infiammabili.
Qui in realtà l’evento che si è verificato è stato determinato da una attività del lavoratore
imprudente, non immediatamente correlata a quanto in ipotesi da prevedere nel piano di
lavoro, in quanto il Gabrielli, come sopra esposto, aveva indugiato eccessivamente
nell’uso della fiamma, tenendo conto soltanto della particolare situazione metereologica.

E’ pertanto, evidente in questo caso l’insussistenza rispetto all’evento dannoso del
parametro della prevedibilità.

Come è noto, la esistenza di tale parametro va accertata con criteri ex ante e si fonda
sul principio che non possa essere addebitato all’agente di non aver previsto un evento
che, in base alle conoscenze che aveva o che avrebbe dovuto avere, non poteva
prevedere.

Tale presupposto non può concettualmente ipotizzarsi rispetto ad una vicenda del tipo di
che trattasi, vedendosi in un’ipotesi di evento dannoso connesso allo svolgimento di una
attività del lavoratore, accertata come colposa, dove il tema pertinente, ai fini
dell’individuazione delle corresponsabilità, è quello della adeguata formazione e del

dall’uso incauto del cannello da parte del lavoratore.

successivo controllo [tema che vede protagonista il datore di lavoro e non il coordinatore
per la sicurezza].

Correlativamente, difetta anche l’ulteriore, concorrente presupposto dell’evitabilità
dell’evento, non essendo concepibile, rispetto ad un’attività posta in essere al di fuori
delle mansioni, una qualsivoglia condotta appropriata (il cosiddetto comportamento
alternativo lecito) che, se il Cananzi, nella qualità di direttore dei lavori, progettista,

Al rigetto dei ricorsi di De Rosa e Gabrielli consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna dei
ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese in
favore della costituita parte civile, come liquidate in dispositivo.

PQM
Rigetta i ricorsi di De Rosa Arsenio e di Gabrielli Giuseppe che condanna al pagamento
delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio
dalla parte civile, Serafini Maria Casseri, che liquida in complessivi euro 2.500,00, oltre
IVA e CPA;
annulla la sentenza impugnata nei confronti di Cananzi Francesco con rinvio al giudice
civile competente per valore in grado di appello.
Così deciso nella camera di consiglio del 20 febbraio 2014

Il Consigliere estensore

Il Presidente

coordinatore per la sicurezza avesse tenuto, avrebbe comunque evitato l’evento.

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