Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 10810 del 17/01/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 10810 Anno 2014
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: DI NICOLA VITO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
ALTIERI Mario, nato a Montalbano Jonico il 19/04/1952
CASULLI Carmine Sabatino, nato a Montalbano Jonico il 15/03/1954
MARONE Leonardo, nato a Pomarico il 30/03/1940
PUPPIO Francesco, nato a Viggianello il 24/01/1968
LAPOLLA Giovanni, nato a Matera il 23/11/1969
DICHIO Rocco Luigi, nato a Montescaglioso il 09/07/1952
avverso la sentenza del 16/11/2012 della Corte di appello di Potenza
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Vito Di Nicola;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Mario
Fraticelli, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi di Mario Altieri, Leonardo
Marone, Francesco Puppio e Giovanni Lapolla;
udito per gli imputati l’avv. Vincenzo Comi che ha concluso chiedendo
l’accoglimento dei ricorsi;

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Data Udienza: 17/01/2014

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Potenza, con sentenza emessa in data 16 novembre
2012, confermava la pronuncia resa dal Tribunale di Matera con la quale Mario
Altieri, Carmine Sabatino Casulli, Leonardo Marone, Francesco Puppio, Rocco
Luigi Dichio e Giovanni Lapolla venivano dichiarati colpevoli del reato di cui
all’art. 323 cod. pen. e, concesse al Dichio ed al Lapolla le attenuanti generiche,
quanto al primo equivalenti alla contestata recidiva, venivano condannati Mario

anni uno, mesi uno e giorni quindici di reclusione; Leonardo Marone e Francesco
Puppio alla pena di mesi nove di reclusione ciascuno; Rocco Dichio alla pena di
mesi sei di reclusione e Giovanni Lapolla a quella di mesi quattro di reclusione,
con conseguente condanna al pagamento delle spese processuali.
Dichiarati interdetti dai pubblici uffici, per una durata pari alla pena inflitta,
quanto ad Altieri e Casulli, e per quella di anni uno, quanto agli altri, la pena
veniva infine condizionalmente sospesa per il Casulli, il Marone, il Puppio, il
Dichio ed il Lapolla.
Agli imputati si contestava (artt. 110, 117 e 323 cod. pen.) di aver – in
concorso e di concerto tra loro, Altieri nella qualità di sindaco del comune di
Scanzano Jonico, Casulli , Puppio e Marone nella qualità di componenti la giunta
municipale, Dichio nella qualità di capo settore tecnico e Lapolla nella qualità di
responsabile del settore gestione risorse finanziarie – adottato in violazione di
legge la deliberazione di Giunta Municipale n. 67 del 25 maggio 2006 (due giorni
prima delle consultazioni elettorali amministrative), con la quale
intenzionalmente arrecavano un ingiusto vantaggio patrimoniale ad Antonio
Cariello, Maria Colasurdo, Nicola Colucci, Antonio Mairo Brizio e Franca Santo,
che concorrevano nel reato nella qualità di beneficiari. In particolare, con la
deliberazione n. 67 del 25 maggio 2006, essi deliberavano di considerare i
terreni ricadenti nel foglio n. 59 , particelle 149, 171 (di proprietà di Antonio
Cariello), particella 152 (di proprietà di Maria Colasurdo e Nicola Colucci),
particella 154 (di proprietà di Antonio Mario Brizio) e particella 158 (di proprietà
di Franca Santo) non soggetti a tassazione I.C.I. come aree fabbricabili ma come
terreni agricoli, nelle more di autorizzazione della convenzione urbanistica, in
quanto, pur ricadendo in zone soggette a lottizzazione convenzionata di iniziativa
privata, approvata dal comune, non era stata ancora stipulata la convenzione per
rendere esecutivo il piano di lottizzazione, che vanificava di fatto le possibilità
edificatorie, disponendo nella delibera altresì l’annullamento o rettifica degli
avvisi di accertamento I.C.I. eventualmente emessi per tutte le annualità
accertate (dal 1981 e invitando l’ARIT s.r.l. alla restituzione delle somme
eventualmente già riscosse), sicché intenzionalmente procuravano un ingiusto
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Altieri alla pena di anni uno, mesi tre di reclusione; Carmine Casulli a quella di

vantaggio patrimoniale ai proprietari dei terreni che non pagavano l’I.C.I per
terreni edificatori bensì per terreni agricoli, mentre non estendevano tale
delibera ad altri terreni siti nello stesso comparto ma di proprietà dell’Alsia
(particelle n. 58 , 66, 156, 160, 416 e 117), ciò facevano violando l’art. 11

quaterdecies, comma 16, D.L. del 30/09/2005, n. 203, convertito in legge
02/12/2005, n. 248, che stabilisce che: “ai fini dell’applicazione del decreto
legislativo 30/12/1992, n. 504 la disposizione prevista dall’articolo 2, comma 1,
lettera b) dello stesso decreto si interpreta nel senso che un’area è da

allo strumento urbanistico generale, indipendentemente dall’adozione di
strumenti attuativi del medesimo”, tant’è che la deliberazione n. 67 del
25/05/2006 veniva annullata con delibera n. 20 del 14/03/2008 adottata da altra
Giunta municipale ed i fatti commettendo in Scanzano Jonico il 25 maggio 2006.
La Corte territoriale perveniva alla conferma dell’impugnata decisione di
primo grado osservando come la pronuncia del Tribunale avesse, con ampia e
corretta motivazione, preso in considerazione, confutandoli, tutti gli argomenti
difensivi, giungendo così all’affermazione della responsabilità penale degli
imputati, e da questi contrasta in sede di appello, sulla base delle medesime
osservazioni che la Corte di merito stimava infondate evidenziando la palese
illegittimità della condotta, tradottasi nella chiara violazione di legge,
l’insussistenza di dubbi interpretativi circa il governo della specifica questione,
l’evidente fine di avvantaggiare indebitamente i privati, ampliando la loro sfera
patrimoniale, la chiara presenza del dolo intenzionale desunta dagli indici che la
giurisprudenza di legittimità aveva elencato per desumerne la sussistenza.

2. Per l’annullamento della sentenza impugnata, ricorrono per cassazione, a
mezzo dei loro difensori di fiducia, l’Altieri, il Casulli, il Marone, il Puppio e il
Dichio nonché, personalmente, il Lapolla.
All’odierna udienza di discussione sono state stralciate le posizioni di
Sabatino Casulli (per irregolare notifica dell’avviso al difensore) e di Rocco Luigi
Dichio (per mancanza di prova della notifica dell’avviso al difensore) con rinvio
ad udienza fissa per la trattazione dei relativi ricorsi, mentre per gli altri
ricorrenti si è proceduto alla discussione ed alla decisione dei rispettivi ricorsi.
2.1. Mario Altieri e Leonardo Marone affidano le doglianze a tre complessi
motivi che, diffusamente articolati al pari degli altri, saranno enunciati, in
ossequio al disposto di cui all’art. 173 disp. att. cod. proc. pen., nei limiti
strettamente necessari per lo svolgimento della motivazione.
2.1.1. Con il primo motivo deducono la violazione dell’art. 606, comma 1,
lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 42, 43 e 323 cod. pen.

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considerare comunque fabbricabile se è utilizzabile a scopo edificatorio in base

Si sostiene la mancanza del dolo intenzionale da parte dei ricorrenti e
dunque l’insussistenza dell’elemento psicologico sul rilievo che proprio la corretta
interpretazione degli indici sintomatici enunciati dalla Corte territoriale, come
criteri per l’accertamento del dolo, avrebbero dovuto indurre il giudice d’appello
ad un diverso approdo e non a ritenere, invece, con motivazione illogica e
contraddittoria, sfociata nell’erronea interpretazione della legge penale, la
configurabilità dell’elemento soggettivo in palese mancanza di qualsiasi prova
circa il fatto che la condotta dei ricorrenti fosse finalizzata al conseguimento degli

all’ingiusto profitto patrimoniale, giammai conseguito, per i cinque titolari delle
aree.
La legislazione successiva all’adozione della delibera incriminata, le
controversie giurisprudenziali, sfociate anche innanzi alla Corte costituzionale
circa la nozione di “area fabbricabile”, l’assoluta assenza di prova circa il
collegamento degli imputati con i presunti beneficiari della delibera costituiscono,
ad avviso dei ricorrenti, elementi non valutati dalla Corte del merito ai fini
dell’esclusione del dolo intenzionale.
2.1.2. Con il secondo motivo deducono la violazione dell’art. 606, comma 1,
lett. b) e c), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 47 e 323 cod. pen., ed in
relazione agli arrt. 5, 47 e 323 cod. pen.
Si assume, anche nuovamente valorizzando, sotto altro profilo, i precedenti
rilievi, che la Corte territoriale avrebbe dovuto, in ogni caso, riconoscere che – in
base alle incertezze interpretative, le quali avevano richiesto anche un intervento
nomofilattico delle Sezioni Unite civili – gli imputati, nell’adottare la delibera,
lungi dal voler avvantaggiare i privati beneficiari, fossero caduti in errore su
legge diversa da quella penale (d.lgs. n. 504 del 1992) ovvero come un tale
errore, avuto riguardo a dette incertezze, fosse da ritenere inevitabile e dunque
scusabile.
2.1.3. Con il terzo motivo deducono la violazione dell’art. 606, comma 1,
lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione all’art. 323 cod. pen.,
Si rileva come la Corte del merito abbia del tutto contraddittoriamente
ritenuto integrato il requisito del vantaggio ingiusto, dapprima, dando corso, ai
sensi dell’art. 603 cod. proc. pen., ad un accertamento della Guardia di Finanza
al fine di verificare se i privati beneficiari avessero o meno pagato l’IC, per poi
ritenere che l’oggetto dell’accertamento fosse un mero dato intrinseco e
stimando perciò sufficiente, per l’integrazione del requisito dell’ingiusto
vantaggio, l’ampliamento delle sfere delle situazioni giuridiche soggettive dei
destinatari dell’atto.
Così argomentando, la Corte lucana avrebbe omesso, secondo i ricorrenti, di
procedere ad una autonoma e necessaria verifica della sussistenza dell’evento
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eventi richiesti per l’integrazione della fattispecie, con specifico riferimento

del reato e ciò proprio in considerazione delle premesse giuridiche da cui essa
stessa era partita, ossia che per l’integrazione della fattispecie di reato fosse
necessaria la doppia ingiustizia.
Con la conseguenza di aver omesso di considerare che la giunta municipale,
se anche agì con palese eccesso di potere (non rilevante dopo la novelle del
1997 ai fini della condotta dell’abuso), diede vita ad una deliberazione che, per la
sua genetica impossibilità ad essere eseguita, non poteva procurare né danni e
né vantaggi.

ai precedenti ed ai profili della doglianza da essi attraversati.
2.2.1. Con il primo motivo denuncia violazione dell’art. 606, comma 1, lett.
d) ed e), cod. proc. pen. per manifesta illogicità della sentenza impugnata sulla
mancata assunzione di una prova decisiva.
Si deduce che – avendo la Corte territoriale delegato l’accertamento circa il
pagamento o meno dell’ICI da parte dei beneficiari, in quanto assolutamente
necessario ai fini della decisione, e non essendo stato sciolto il dubbio anche
all’esito del disposto accertamento – la persistente incertezza non poteva, se non
contraddittoriamente, giustificare una sentenza di condanna.
2.2.2. Con il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 606, comma 1,
lett. b) e d), cod. proc. pen. in relazione all’art. 323 cod. pen. nonché illogicità e
contraddittorietà della motivazione.
Coltivando le stesse doglianze sviluppate nel primo motivo di gravame
svolto dai precedenti ricorrenti, si deduce la insussistenza del dolo intenzionale in
considerazione delle oggettive difficoltà interpretative della materia oggetto di
intervento della delibera giuntale.
2.2.3. Con il terzo motivo si denuncia l’omessa motivazione su un punto
decisivo della sentenza impugnata e concernente la responsabilità penale ossia
sul ruolo svolto dal Puppio nella fattispecie concorsuale contestata.
Si sostiene che, in assenza di ogni motivazione in tal senso, la responsabilità
penale è stata affermata sul solo rilievo della partecipazione dell’imputato alla
delibera giuntale, senza che fosse specificato quale contributo causale alla
realizzazione del reato fosse stato apportato dall’imputato, non essendo
sufficiente per affermarlo il solo fatto di aver deliberato.
2.2.4. Con il quarto motivo denuncia violazione dell’art. 606, comma 1, lett.
e), cod. proc. pen. in relazione all’art. 323 cod. pen. nonché manifesta illogicità e
contraddittorietà della motivazione sui presupposti costituitivi del reato di abuso
d’ufficio.
Si prospetta che, essendo l’abuso d’ufficio un reato di evento, la sentenza
impugnata, al pari di quella di primo grado, ravvisa il momento perfezionativo
del reato di abuso d’ufficio (e, dunque, il momento di compimento dell’ingiusto
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2.2. Francesco Puppio affida le doglianze a quattro motivi del tutto analoghi

vantaggio) nell’adozione della delibera giuntale, produttiva, al più, di un danno
per l’ente pubblico ma non di un vantaggio patrimoniale privato.
2.3. Giovanni Lapolla affida le doglianze ad un unico complesso ed articolato
motivo, sviluppato sotto plurimi profili, con il quale denunzia la violazione
dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. per la non comprovata, né
motivata sussistenza del danno ingiusto in relazione alla condotta del ricorrente
nonché l’assenza della violazione di legge e la carenza del dolo intenzionale
(profili, quindi, omologhi ai motivi di ricorso svolti dagli altri ricorrenti).

del Lapolla, eccentrico rispetto a quello degli altri imputati.
Il ricorrente – in relazione agli obblighi che gli derivavano dal vincolo
contrattuale lavorativo in forza del quale egli era tenuto a rilasciare il richiesto
parere – era funzionario del settore gestione risorse finanziarie del comune,
sicché il suo operato era limitato alla verifica della capacità finanziaria dell’ente
in ragione della canalizzazione delle risorse economiche e finanziarie in entrata
ed in uscita previste dal bilancio preventivo e dai residui di cassa; né egli era
tenuto a conoscere quale fosse la finalità della delibera che la giunta municipale
avrebbe adottato, che poteva peraltro anche discostarsi dal parere reso dal
funzionario.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono infondati nei limiti e sulla base delle considerazioni che
seguono.

2. Quanto alla prima doglianza (primo motivo dei ricorsi Altieri e Marone;
secondo motivo Puppio ed aspetto sollevato con l’unico motivo del ricorso
Lapolla) circa l’esclusione, nel caso di specie, del dolo intenzionale, osserva la
Corte come, nel reato di abuso d’ufficio, debba ritenersi configurato il dolo
(intenzionale) qualora si accerti che il pubblico ufficiale o l’incaricato di un
pubblico servizio abbia agito con lo scopo immediato e finale di non perseguire,
attraverso la condotta posta in essere, una finalità pubblica, il cui conseguimento
deve essere escluso non soltanto nei casi nei quali essa manchi del tutto ma
anche nei casi in cui rappresenti una mera occasione della condotta illecita, posta
in essere invece al preciso scopo di realizzare, in via immediata ed attraverso la
violazione di legge o di regolamento o l’omissione del dovere di astensione nei
casi prescritti, un danno ingiusto ad altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto
per sé o per altri.
Per dare conto di una siffatta affermazione, propedeutica alle successive
argomentazioni, è necessario un breve inquadramento della nozione del dolo
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Inoltre rileva come non sia stato adeguatamente valutato il comportamento

intenzionale ed è sufficiente prendere le mosse dal principio espresso dalle
Sezioni Unite di questa Corte che, in ordine alle specie del dolo ed al concreto
atteggiarsi dell’intensità della volontà dolosa, hanno chiarito che, in tema di
elemento soggettivo del reato, possono individuarsi vari livelli crescenti di
intensità della volontà dolosa. Nel caso di azione posta in essere con
accettazione del rischio dell’evento, si richiede all’autore una adesione di volontà,
maggiore o minore, a seconda che egli consideri maggiore o minore la
probabilità di verificazione dell’evento. Nel caso di evento ritenuto altamente

accetta l’evento stesso, cioè lo vuole e con una intensità maggiore di quelle
precedenti. Se l’evento, oltre che accettato, è perseguito, la volontà si colloca in
un ulteriore livello di gravità, e può distinguersi fra un evento voluto come mezzo
necessario per raggiungere uno scopo finale, ed un evento perseguito come
scopo finale. Il dolo va, poi, qualificato come “eventuale” solo nel caso di
accettazione del rischio mentre negli altri casi suindicati va qualificato come
“diretto” e, nell’ipotesi in cui l’evento è perseguito come scopo finale, come
“intenzionale” (Sez. U, n. 748 del 12/10/1993, (dep. 25/01/1994), Cassata, Rv.
195804).
La qualificazione del dolo intenzionale come scopo finale dell’evento
perseguito implica, quindi, che la realizzazione del fatto di reato costituisca la
finalità immediata dell’agente ed esige che, quanto al reato di abuso d’ufficio in
cui l’interesse pubblico riveste un ruolo assolutamente centrale nell’economia
della fattispecie, la rappresentazione e la volizione dell’evento di danno (altrui) o
di vantaggio patrimoniale (proprio o altrui) sia una conseguenza diretta ed
immediata della condotta dell’agente e costituisca l’obbiettivo primario da questi
perseguito.
La giurisprudenza di questa Corte ha espresso in modo chiaro siffatti
concetti quando ha precisato che, ai fini della sussistenza dell’elemento
soggettivo nel delitto di abuso di ufficio di cui all’art. 323 cod. pen., non è
sufficiente né il dolo eventuale – e cioè l’accettazione del rischio del verificarsi
dell’evento – né quello diretto – e cioè la rappresentazione dell’evento come
realizzabile con elevato grado di probabilità o addirittura con certezza, senza
essere un obiettivo perseguito – ma è richiesto il dolo intenzionale, e cioè la
rappresentazione e la volizione dell’evento di danno altrui o di vantaggio
patrimoniale, proprio o altrui, come conseguenza diretta e immediata della
condotta dell’agente e obiettivo primario da costui perseguito (Sez. 6, Sentenza
n. 21091 del 24/02/2004, Percoco, Rv. 228811), sicché l’uso dell’avverbio
“intenzionalmente” per qualificare il dolo implica che sussiste il reato solo quando
l’agente si rappresenta e vuole l’evento di danno altrui o di vantaggio
patrimoniale proprio o altrui come conseguenza diretta ed immediata della sua
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probabile o certo, l’autore, invece, non si limita ad accettarne il rischio, ma

condotta e come obiettivo primario perseguito, e non invece quando egli intende
perseguire l’interesse pubblico come obiettivo primario ( Sez. 6, n. 708 del
08/10/2003, (dep. 15/01/2004), Mannello Rv. 227280).
Da ciò deriva che quando l’evento tipico sia una semplice conseguenza
accessoria dell’operato dell’agente, il quale persegue in via primaria l’obiettivo
dell’interesse pubblico di preminente rilievo, riconosciuto dall’ordinamento e
idoneo ad oscurare il concomitante favoritismo o danno per il privato, si può
ritenere che l’evento sia voluto ma non sia intenzionale (Sez. 6 n. n. 21091 del

defilata, e rappresenta soltanto un effetto secondario della condotta posta in
essere, avendo il legislatore inteso attribuire rilievo penale esclusivamente alle
condotte ispirate in via immediata non dalla volontà accettante (caratteristica
del dolo eventuale) ma dalla prava voluntas del favoritismo privatistico.
Quando tuttavia manchi l’interesse pubblico e l’evento (illecito) sia
conseguenza immediatamente perseguita dal soggetto attivo, l’accertamento del
dolo (intenzionale) si esaurisce nella oggettiva verifica del favoritismo posto in
essere con l’abuso dell’atto d’ufficio, senza che rilevi la motivazione che abbia
indotto l’agente a perseguire, come fine della condotta, la realizzazione del
reato; né è necessaria la prova della collusione del pubblico ufficiale con i
beneficiari dell’abuso.
Nei casi invece di concorrente verificazione di un evento lecito e di uno
illecito, occorrerà accertare quale di questi abbia costituito l’obiettivo principale
della condotta del soggetto; occorrerà cioè indagare quale sia l’evento preso di
mira, ossia l’evento desiderato come primario dall’agente, essendo caratteristica
del dolo intenzionale quella di agire allo scopo di produrre l’effetto previsto,
essendo la direzione della volontà rivolta verso un evento assunto quale scopo
finale della condotta.
La giurisprudenza di questa Corte ha, in diverse occasioni, percorso tali
approdi, avendo recentemente ribadito come, in materia di abuso d’ufficio, il dolo
intenzionale non sia escluso dalla finalità pubblica perseguita dall’agente,
potendosene apprezzare l’insussistenza solo quando il soddisfacimento degli
interessi pubblici prevalga sugli interessi privati, mentre è integrato qualora il
fine pubblico rappresenti una mera occasione o un pretesto per occultare la
commissione della condotta illecita. (Sez. 3, n. 13735 del 26/02/2013, Pc in
proc. Fabrizio, Rv. 254856).
E’ stato cioè ribadito che, con la riforma introdotta dalla L. 16 luglio 1997, n.
234, «il legislatore ha abbandonato la formulazione del testo dell’art. 323 cod.
pen., che delineava un reato a dolo specifico e, inserendo l’avverbio
“intenzionalmente” per qualificare il dolo, ha trasformato il fine dell’agente in
evento. Ne consegue che il dolo costitutivo del reato è generico, ma rispetto agli
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2004 cit.) occupando, come è stato sottolineato in dottrina, una posizione

eventi che completano il fatto, assume la forma del dolo intenzionale. Tale forma
limita il sindacato del giudice penale a quelle condotte del pubblico ufficiale
dirette, come conseguenza immediatamente perseguita, a procurare un ingiusto
vantaggio patrimoniale o ad arrecare un ingiusto danno. Da ciò consegue che la
configurabilità del reato è esclusa, sotto il profilo soggettivo, non solo in
presenza del dolo eventuale (caratterizzata dall’accettazione del verificarsi
dell’evento), ma anche in presenza del dolo diretto (che ricorre nell’ipotesi in cui
l’agente si rappresenti l’evento come verificabile con elevato grado di probabilità

l’evento sia voluto dall’agente come obiettivo primario della sua condotta. Il dolo
intenzionale, quale atteggiamento psicologico dell’agente, deve desumersi dai
comportamenti tenuti prima, durante e dopo la condotta ed in particolare modo
dall’evidenza delle violazioni, dalla competenza dell’agente, dalla reiterazione e
gravità delle violazioni, dai rapporti tra agente e soggetto favorito o danneggiato
e, in caso di compresenza di più fini, dalla comparazione dei rispettivi vantaggi o
svantaggi (vedi Cass., n. 41365/2006). Intenzionalità non significa però

o con certezza), occorrendo invece il dolo intenzionale, che è ravvisabile quando

esclusività del fine che deve animare l’agente. La legge del 1997 non richiede \\C)‘
che le condotte abusive, quale ne sia la forma, vengano realizzate “al solo scopo”
di conseguire questo o quell’evento tipico, perché una tale formula non è stata
inserita nella fattispecie incriminatrice (…). Da ciò deriva che, allorché accanto
all’esternazione del fine pubblico si affianca anche uno scopo privato, occorre
accertare quale sia stata la finalità prevalente ed essenziale che ha mosso
l’agente ed in quale misura un fine abbia avuto la prevalenza sull’altro, si da
escludere il reato allorché il fine pubblico ha avuto la prevalenza sull’altro
ravvisandolo invece qualora resti accertato che la finalità pubblica rappresenti
una mera occasione o pretesto per coprire la condotta illecita (sul punto vedi
pure le argomentazioni svolte nell’ordinanza n. 251/2006 della Corte
Costituzionale). La finalità pubblica, inoltre, non può essere esclusa per la
semplice violazione di una norma posta a presidio di un interesse pubblico,
giacché questo può realizzarsi anche mediante una violazione di legge o di
regolamento specialmente quando si tratta di violazioni formali» ( così, Sez. 3,
n. 13735 del 2013 cit. ).
Come si è visto, dunque, la tesi secondo cui la mera compresenza di una
finalità pubblicistica perseguita sia sufficiente ad escludere il dolo (intenzionale)
previsto dalla norma costituisce opzione ermeneutica esclusa dalla stessa Corte
costituzionale (ord. 251 del 2006), con la conseguenza perciò che l’intenzionalità
del dolo non è esclusa dalla compresenza di una finalità pubblicistica nella
condotta del pubblico ufficiale, dovendosi ritenere necessario, per escludere la
configurabilità dell’elemento soggettivo, che il perseguimento del pubblico
interesse costituisca l’obiettivo principale dell’agente, con conseguente
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degradazione del dolo di danno o di vantaggio da dolo di tipo intenzionale a mero
dolo diretto od eventuale (Sez. 6, n. 7384 del 19/12/2011, (dep. 24/02/2012),
Rv. 252498).
2.1. Nel caso di specie, non si coglie, persino dai ricorsi stessi, quale potesse
essere l’interesse pubblico di preminente rilievo, che sarebbe stato perseguito
dagli imputati con l’esonerare taluni proprietari dei terreni dalla tassazione I.C.I.
per le aree fabbricabili, assoggettando gli stessi alla minore imposta come terreni
agricoli.

renda evidente come lo scopo finale perseguito dagli imputati fosse quello di
avvantaggiare ingiustamente i proprietari dei predetti terreni, la violazione di
legge – come hanno spiegato i Giudici del merito – è consistita nella
inosservanza di una norma di legge (art. 11 – quaterdecies, comma 16, D.L. del
30/09/2005, n. 203, convertito in legge 02/12/2005, n. 248) di “interpretazione
autentica” e, come tale di solare chiarezza, secondo la quale «ai fini
dell’applicazione del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, la disposizione
prevista dall’art. 2, comma 1, lettera b) dello stesso decreto si interpreta nel
senso che un’area è da considerare comunque fabbricabile se è utilizzabile a
scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale,
indipendentemente dall’adozione di strumenti attuativi del medesimo».
Non risulta infatti che, nella delibera incriminata (il cui testo è riportato a
pag. 6, 7 ed 8 della sentenza di primo grado) emessa a distanza di circa sei mesi
dalla legge di conversione della norma assunta come violata, venga dato atto,
anche al solo fine di contestarne l’applicabilità al caso di specie, di un tale
assoluto e decisivo vincolo normativo alla lecita attività dell’organo pubblico.
Nondimeno la Corte territoriale si è uniformata al principio di diritto più volte
espresso da questa Corte secondo il quale, in tema di abuso d’ufficio, la prova
dell’intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della certezza che la volontà
dell’imputato sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il
danno ingiusto e tale certezza non può essere ricavata esclusivamente dal rilievo
di un comportamento “non iure”

osservato dall’agente, ma deve trovare

conferma anche in altri elementi sintomatici, che evidenzino la effettiva “ratio”
ispiratrice del comportamento, quali, ad esempio, la specifica competenza
professionale dell’agente, l’apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento
ed il tenore dei rapporti personali tra l’agente e il soggetto o i soggetti che dal
provvedimento stesso ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno (Sez.
6, Sentenza n. 21192 del 25/01/2013, Barla ed altri, Rv. 255368).
Sotto tale profilo, la Corte lucana ha ritenuto di trarre la prova della
esistenza del dolo intenzionale desumendola – avuto riguardo ai comportamenti
antecedenti, concomitanti e successivi al reato – proprio dagli indici sintomatici
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Sebbene l’eclatante violazione di legge sottesa alla deliberazione incriminata

dell’intenzionalità della condotta, come esplicitati dalla giurisprudenza di questa
Corte, ossia: dall’evidenza della violazione di legge, come tale immediatamente
riconoscibile dall’agente; dalla specifica competenza professionale dell’agente,
tale da rendergli facilmente riconoscibile la violazione; dalla motivazione del
provvedimento nel caso in cui essa sia qualificabile come meramente apparente
o come manifestamente pretestuosa; dai rapporti personali, eventualmente
accertati tra l’autore del reato ed il soggetto che dal provvedimento illegittimo
abbia tratto ingiusto vantaggio patrimoniale, giungendo così alla corretta

tanto più solida risulta la prova del dolo intenzionale.
Va chiarito che solo l’esistenza di un rapporto collusivo tra pubblici ufficiali
agenti e privati avvantaggiati non è risultato provato, essendosi peraltro
significativamente rilevato come la delibera fosse stata adottata nonostante il
problema fosse vetusto e non urgente, alla scadenza del mandato elettorale e tre
giorni prima delle consultazioni elettorali; che la delibera prevedesse il dettaglio
di “invitare l’ARIT s.r.l. alla restituzione delle somme eventualmente già riscosse
a seguito degli avvisi di accertamento ICI”; che l’Altieri avesse curato di far
pervenire ai cinque cittadini interessati, per ognuno, una lettera avente ad
oggetto la dicitura “Esenzione ICI” (che i Giudici del merito hanno definito
suggestiva e volutamente errata).
A fronte di tali scrupolosi accertamenti in punto di sussistenza del dolo
(intenzionale), le censure, per predicare l’insussistenza dell’elemento soggettivo,
introducono argomenti di mero fatto, ampiamente superati dalla “doppia
conforme” motivazione, immune da vizi logici e giuridici, adottata dai Giudici del
merito, censure pertanto insuscettibili, sotto tale specifico profilo, di radicare il
controllo devoluto alla Corte di legittimità, quali il rapporto tra l’ALSIA (l’ente di
sviluppo agricolo che fu costituito con l’assegnazione delle terre ai contadini) ed i
privati beneficiari; l’ingiustizia sostanziale nella quale versavano questi ultimi
rispetto alla norma assunta come violata; l’assenza della adeguata
professionalità degli imputati; l’inidoneità della missiva del sindaco nei confronti
dei beneficiari a porsi come sintomo del favoritismo; il richiamo alle imminenti
consultazioni elettorali, quale motivo di adozione della delibera.
Ne consegue l’infondatezza del motivo di gravame.

3. Parimenti infondato è il secondo motivo proposto a sostegno dei ricorsi
Altieri e Marone (questione lambita e solo accennata nei ricorsi Lapolla e Puppio)
circa l’errore su legge extrapenale (recte penale) da parte degli imputati ovvero
circa l’errore, in quanto inevitabile, su legge penale con conseguente scusabilità
della condotta da loro tenuta.

11

conclusione che, quanto maggiore è il numero dei suddetti indici sintomatici,

La questione sollevata con il motivo da scrutinare invero non attiene
all’errore su legge extrapenale ai fini della non punibilità della condotta ex art.
47, comma 3, cod. pen., posto che è irrilevante l’errore sulla norma violata,
trattandosi, in sostanza, di errore su legge penale, come tale non riconducibile
nell’ambito di operatività dell’art. 47 cod. pen.
La giurisprudenza di questa Corte, nonostante il diverso avviso della
dottrina, è senza oscillazioni al riguardo, avendo più volte ribadito che, ai sensi
dell’art. 47 cod. pen., legge diversa dalla penale è quella destinata in origine a

incorporata in una norma penale o da questa non richiamata anche
implicitamente, con la conseguenza che deve essere considerato errore sulla
legge penale, e quindi inescusabile, sia quello che cade sulla struttura del reato,
sia quello che incide su norme, nozioni e termini propri di altre branche del
diritto, introdotte nella norma penale a integrazione della fattispecie criminosa
(Sez. 6, n. 7817 del 18/11/1998, (dep. 16/06/1999), Benanti, Rv. 214730; Sez.
4, n. 37590 del 07/07/2010, P.G. in proc. Barba, Rv. 248404).
Tale approdo fonda sul decisivo rilievo secondo il quale le norme di legge o
di regolamento la cui violazione integra, a condizioni esatte, la fattispecie
incriminatrice ex art. 323 cod. pen. contribuiscono, per ciò stesso, a delineare i
confini del precetto, con la conseguenza che le disposizioni normative richiamate
non hanno natura di norme extrapenali, poiché l’art. 323 cod. pen. , obbligando
al rispetto delle leggi e dei regolamenti nell’esercizio del pubblico ufficio,
recepisce le regole alle quali deve uniformarsi l’attività dei singoli pubblici ufficiali
o incaricati di pubblico servizio (Sez. 6, n. 5117 del 19/12/2000 (dep.
06/02/2001), Aliberti, Rv. 217862).
Né è sostenibile, ai fini dell’invocata esclusione della colpevolezza, il
prospettato errore di diritto inevitabile, che si assume caduto sulla norma
extrapena le integratrice.
Osserva in proposito la Corte come le precedenti considerazioni (sub 2 del
considerato in diritto) circa la confermata presenza del dolo intenzionale
consentirebbero di ritenere assorbito, sotto tale profilo, il motivo dedotto, che
tuttavia è articolato sulla base della lamentata difficoltà interpretativa della
disciplina, ritenuta dai ricorrenti perdurante, come sarebbe testimoniato dal fatto
che le Sezioni Unite civili di questa Corte si sarebbero pronunciate a tal proposito
dopo l’adozione della delibera incriminata.
Sennonché proprio la chiarezza della norma interpretativa violata attesta
come non possa predicarsi la fondatezza della prospettata doglianza.
Ed infatti le Sezioni Unite civili (Sez. U, n. 25506 del 30/11/2006 Rv.
593375) non risolsero la questione, oggetto della delibera incriminata, in quanto
diedero semplicemente atto nella motivazione che, essendo intervenuto, nelle
12

regolare rapporti giuridici di carattere non penale e non esplicitamente

more del giudizio, il provvedimento legislativo di interpretazione autentica, non
sussistesse più alcun dubbio nel dover ritenere edificabili le aree utilizzabili a
scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico, pur in assenza degli
strumenti attuativi del medesimo.
Le Sezioni Unite si occuparono e risolsero l’altro caso (che pure era stato
oggetto di un successivo intervento di interpretazione autentica ex D.L. 4 luglio
2006, art. 36, comma 2, conv. con modif. in L. 4 agosto 2006, n. 248, secondo il
quale “ai fini dell’applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, del D.P.R. 26

dicembre 1992, n. 504, un’area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a
scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal
comune, indipendentemente dall’approvazione della regione e dall’adozione di
strumenti attuativi del medesimo”) ossia il problema del valore da attribuire al
PRG, adottato, ma non ancora approvato, laddove detta questione era estranea
al Comune di Scanzano Jonico risultando dagli atti (sentenza di primo e secondo
grado) come, nel caso di specie, l’ente locale fosse dotato del P.R.G. sin dal
1979, con approvazione dello stesso nel 1981.
Ne consegue che, secondo la conforme opinione dei Giudici del merito, lo
stesso legislatore, ricorrendo ad una norma di interpretazione autentica, aveva
fugato ogni dubbio ermeneutico, di guisa che alla data del 25 maggio 2006
doveva ritenersi incontrovertibile che i terreni “de quibus”

in quanto aree

fabbricabili in base ad un P.R.G. regolarmente emesso ed approvato
soggiacessero al pagamento dell’ICI relativa a detta precipua destinazione.
Da ciò la Corte territoriale ha correttamente dedotto come non potesse
essere invocato il reclamato errore inevitabile sulla legge penale, difettando un
autentico contrasto giurisprudenziale e potendo quindi i soggetti attivi del reato,
qualora avessero fatto uso dell’ordinaria diligenza ed assolto l’obbligo di
informazione e conoscenza dei precetti normativi, potuto e dovuto agevolmente
accertare l’inequivoco assetto giuridico della questione ed uniformare ad esso le
loro decisioni.

4. Quanto alla doglianza circa la mancata integrazione dell’evento del reato
(terzo motivo del ricorso Altieri e Marone; primo e quarto motivo del ricorso
Puppio, entrambi estensibili al coimputato Lapolla), rileva la Corte come sia del
tutto ultroneo il rilievo mosso nei confronti dell’impugnata sentenza con
riferimento alla rinnovazione ex officio dell’istruttoria dibattimentale disposta al
fine di accertare se i singoli beneficiari avessero o meno, pur in presenza della
delibera de qua,

assolto l’imposta, corrispondendola per le aree fabbricabili o

agricole, per dedurne poi che, in presenza di un’incertezza degli esiti istruttori, la
sentenza gravata sia incorsa del vizio di manifesta illogicità o di contraddittorietà
13

aprile 1986, n. 131, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 e del D.Lgs. 30

della motivazione, oltre che di violazione della legge penale, laddove ha ritenuto
integrato l’evento dell’ingiusto vantaggio patrimoniale dall’ampliamento della
sfera delle situazioni soggettive facenti capo ai destinatari dell’atto
amministrativo come conseguenza diretta della condotta abusiva (circostanza,
quest’ultima, che esclude la decisività dell’accertamento non espletato).
Infatti, posto che gli esiti della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale
sono risultati neutri in relazione agli elementi di prova utilizzati per
l’affermazione della penale responsabilità, il controllo di legittimità va operato

nella sentenza impugnata per ritenere la sussistenza dell’ingiusto vantaggio
patrimoniale procurato ai proprietari dei terreni attinti dalla delibera incriminata.
Va allora sottolineato come la Corte del merito si sia correttamente attenuta
al costante indirizzo espresso dalla giurisprudenza di legittimità che esclude la
configurazione del reato allorché, pur al cospetto di una condotta

non iure

dell’agente, non vi sia la prova che sia stato raggiunto un risultato contra ius.
Si tratta, nella specie, del requisito della cosiddetta “doppia ingiustizia” nel
senso che ingiusta deve essere la condotta posta in essere dal pubblico ufficiale,
perché connotata da violazione di norme di legge o di regolamento ovvero da
omessa astensione nei casi previsti, e ingiusto deve essere l’evento (ingiusto
vantaggio patrimoniale per sé o per altri ovvero danno ingiusto per altri) sicché il
danno o il vantaggio, per essere rilevanti, non solo devono essere prodotti non
iure ma devono di per sé essere contra ius, nel senso che il risultato dell’azione
deve essere tale da violare una norma giuridica e l’ingiustizia del danno arrecato
o del vantaggio procurato dovrà essere valutata in base al diritto oggettivo
regolante la materia e non in base alle considerazioni dell’agente (ex multis, Sez.
6, n. 35381 del 27/06/2006, Moro, Rv. 234832).
Ciò posto, il comportamento abusivo degli imputati ha certamente procurato
un vantaggio non conforme al diritto, dunque ingiusto, perché ai proprietari dei
terreni non spettava, come si è visto, di corrispondere l’ICI in misura ridotta
(quali proprietari di aree agricole anziché di aree, dove insistevano i terreni de
quibus, fabbricabili).
Correttamente la Corte territoriale ha poi ravvisato nel caso in esame gli
estremi della natura patrimoniale del vantaggio procurato, dovendosi ritenere
che, in tema di abuso d’ufficio, il requisito del vantaggio patrimoniale va riferito
al complesso dei rapporti giuridici a carattere patrimoniale e sussiste non solo
quando l’abuso procuri beni materiali o altro, ma anche quando arrechi un
accrescimento della situazione giuridica soggettiva a favore di colui nel cui
interesse l’atto è stato posto in essere
30/01/2013, Baccherini, Rv. 256004).

14

(ex multis, Sez. 6, n. 12370 del

con esclusivo riferimento alla ratio decidendi che la Corte territoriale ha tracciato

Ciò che rileva infatti è che dalla condotta abusiva scaturisca un ingiusto
ampliamento della sfera patrimoniale del soggetto avvantaggiato, che contra ius
vede accresciuta la propria situazione giuridica attiva.
Nel caso in esame l’ingiusto vantaggio procurato è consistito nell’essere stati
i terreni esentati dalla tassazione ICI come aree fabbricabili e sottoposti invece a
tassazione ridotta come terreni agricoli, con conseguente ed indebito risparmio di
spesa fiscale per i destinatari dell’atto che, per tale motivo, hanno beneficiato in
concreto degli effetti di un provvedimento amministrativo giuridicamente

misura piena o ridotta, poiché, in tali casi, l’ampliamento della situazione
giuridica, conseguente all’adozione della delibera. poteva radicare il diritto tanto
al rimborso quanto alla restituzione di ciò che fosse stato corrisposto in
precedenza.
Ne consegue l’infondatezza dell’interposto motivo.

5. Anche il terzo motivo di gravame proposto dal Puppio è infondato.
Con esso il ricorrente si duole del fatto che la responsabilità penale nei suoi
confronti sarebbe stata affermata sulla base della mera partecipazione materiale
alla delibera senza che sia stato accertato il contributo causale alla ritenuta
compartecipazione criminosa e senza che la Corte d’appello abbia motivato in tal
senso.
L’assunto non può essere condiviso.
La Corte territoriale ha desunto, con logica ed adeguata motivazione, la
prova della responsabilità concorsuale dei pubblici ufficiali, che adottarono la
deliberazione giuntale, tra i quali il ricorrente, sulla base della macroscopica
violazione di legge e dunque sul rilievo che non fosse ragionevolmente possibile
ritenere che la condotta fosse ascrivibile ad una semplice miopia tecnico giuridica degli imputati, sul presupposto che proprio la contingenza politica in cui
essi operarono legittimava il convincimento che la condotta abusiva fosse
finalizzata a procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale ai soggetti privati con
corrispondente danno per la pubblica amministrazione.
Va chiarito che già il Tribunale aveva desunto la prova che la concorde
volontà degli imputati fosse diretta esclusivamente a procurare un ingiusto
vantaggio patrimoniale ai destinatari dell’atto sulla base, tra l’altro, della plateale
violazione di legge, dell’estemporaneità dell’intervento da parte di una giunta
ormai scaduta, in una problematica datata, di non urgente soluzione; dal
mancato rispetto delle competenze a provvedere in materia stabilite dal TUEL;
dall’ulteriore tempistica del provvedimento adottato nell’imminenza della tornata
elettorale.

15

esistente, essendo irrilevante se fosse stato pagato o meno il tributo, se in

Sicché – sulla base della saldatura motivazionale tra le conformi sentenze
del merito, in presenza degli indici segnalati dal Tribunale, in presenza di una
violazione di legge effettivamente macroscopica ed in assenza di una
manifestazione di volontà divergente da parte del ricorrente rispetto a quella
convergente e pienamente sovrapponibile dei correi – la motivazione della Corte
lucana appare immune dai vizi denunciati.
Posto infatti che il delitto di cui all’art. 323 cod. pen. si configura anche nel
caso in cui il fatto abusivo si concretizza in un atto collegiale, va precisato che, ai

recato, è legittimo il riferimento ad uno o più indici sintomatici (quali, a titolo
esemplificativo, la macroscopica violazione di legge, la comunanza di interessi
tra i compartecipi, la competenza di essi rispetto all’oggetto della deliberazione,
la motivazione dell’atto, la prestazione o meno di un dissenso, il rapporto con i
beneficiari del provvedimento) dai quali ricavare l’esistenza certa della volontà di
concorrere nel reato che, non presupponendo necessariamente un previo
accordo, può essere ritenuta anche quando la condotta concorsuale si esprima in
comportamenti diretti a fornire un apprezzabile contributo alla realizzazione del
proposito criminoso, alternativamente o congiuntamente, nella fase ideativa,
organizzativa ed esecutiva dell’impresa delittuosa.

6. Infondato è infine il motivo proposto dal Lapolla sul rilievo che, essendo
egli un funzionario del settore gestione risorse finanziarie del comune, il suo
operato era limitato alla verifica della capacità finanziaria dell’ente in ragione
della canalizzazione delle risorse economiche e finanziarie in entrata ed in uscita
previste dal bilancio preventivo e dai residui di cassa.
Tuttavia la ratio essendi delle conformi sentenze di primo e di secondo
grado fondano la responsabilità penale del ricorrente sul presupposto che egli,
essendo stato richiesto del parere (obbligatorio seppure non vincolante ai sensi
dell’art. 49 TUEL circa la regolarità contabile dell’adottanda delibera che avrebbe
comportato una diminuzione di entrata), lo abbia favorevolmente espresso,
peraltro non motivandolo; abbia ignorato, al pari degli altri, l’esistenza della
norma di interpretazione autentica (di cui all’art. 11 – quaterdecies, comma 16,
D.L. del 30/09/2005, n. 203, convertito in legge 02/12/2005, n. 248),
incorrendo nella macroscopica violazione di legge; abbia pregiudicato le entrate
dell’ente locale, comportando la deliberazione una diminuzione delle entrate per
il Comune; non abbia perciò ostacolato, come avrebbe dovuto, il proposito
criminoso, in tal modo agevolandolo attraverso il concreto apporto causale in
precedenza descritto.
Invero, tanto negli atti collegiali quanto in quelli a formazione progressiva e
nei quali l’attività dell’organo consultivo deve necessariamente precedere quella
16

fini della prova circa la compartecipazione criminosa e del contributo causale

dell’organo deliberativo, coloro che concretamente agevolano l’abuso commesso
da altri componenti, pur non partecipando formalmente alla delibera, devono
essere considerati concorrenti nel reato commesso da questi ultimi, sicché
l’affermazione della penale responsabilità pronunciata nei confronti del Lapolla
deve ritenersi corretta e sostenuta da logica ed adeguata motivazione scevra da
vizi logici e giuridici e pertanto insuscettibile di essere sindacata in sede di
legittimità.

dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Stralciata la posizione dei ricorrenti Casulli e Dichio per irregolare notifica
dell’avviso al difensore del Casulli e per mancanza di prova della notifica
dell’avviso al difensore del Dichio,
La Corte,
rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente (Altieri, Marone, Puppio e Lapolla) al
pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 17/01/2014

Al rigetto dei ricorsi segue, come da pedissequo dispositivo, la condanna

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