Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 10120 del 10/02/2016


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 10120 Anno 2016
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: DI NICOLA VITO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Cusani Armando, nato a Formia il 08-10-1963
avverso la ordinanza del 15-09-2015 della Corte di appello di Roma;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Vito Di Nicola;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Paolo Canevelli che ha
concluso per il rigetto del ricorso;
Udito per il ricorrente l’avv. Luigi Antonio Panella che ha concluso per
l’accoglimento del ricorso;

Data Udienza: 10/02/2016

RITENUTO IN FATTO
,

1. Armando Cusani ricorre per cassazione impugnando l’ordinanza indicata
in epigrafe con la quale la Corte di appello di Roma ha rigettato la dichiarazione
di ricusazione avanzata nei confronti della dottoressa Lucia Aielli, presidente del
collegio del tribunale del riesame di Latina investito della trattazione del ricorso
proposto dal ricorrente avverso il decreto di sequestro preventivo del 18 giugno
2015 nonché avverso il successivo decreto di sequestro preventivo integrativo

di Latina con riferimento ai reati di cui all’articolo 44, comma 1, lettera c), d.p.r.
6 giugno 2001, n. 380, in relazione all’articolo 30 stesso d.p.r.

2. Per la cassazione dell’impugnata ordinanza, il ricorrente, personalmente e
tramite i difensori, articola i quattro seguenti motivi di gravame, qui enunciati, ai
sensi dell’articolo 173 disposizione di attuazione al codice di procedura penale,
nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’articolo 37,
comma 1, lettera a), codice di procedura penale in relazione all’articolo 36,
comma 1, lettera d), stesso codice (articolo 606, comma 1, lettera b), codice di
procedura penale).
Assume che erroneamente la Corte di appello ha ritenuto che un giudice, il
quale, come nel caso di specie, quereli un cittadino (per un reato non procedibile
d’ufficio), possa ritenersi terzo ed imparziale nel giudicare in sede penale quello
stesso cittadino in relazione a fatti diversi da quelli che hanno determinato la
proposizione della querela.
Sostiene che la giurisprudenza della Corte di cassazione, con riferimento
all’inimicizia grave, è nel senso che tale motivo di astensione debba trovare
riscontro in “rapporti personali estranei al processo ed ancorati a circostanze
oggettive”, proprio come si è verificato nella specie, in cui vi è stata una querela
da parte del magistrato, in relazione a un reato non procedibile d’ufficio. La
stessa Corte ha affermato che un difetto di imparzialità del giudice può derivare
anche da fatti o affermazioni che dimostrino “un’ostilità del giudice nei confronti
dell’indagato”, essendo necessario evitare e rimuovere anche ogni “apparenza di
imparzialità”.

Del resto, la stessa Corte costituzionale ha dichiarato

costituzionalmente illegittimo l’articolo 37 del codice di procedura penale nella
parte in cui non prevedeva che potesse essere ricusato dalle parti il giudice che,
chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato, abbia espresso in altro
procedimento, anche non penale, una valutazione di merito sullo stesso fatto nei
confronti del medesimo soggetto, chiarendo che il sistema deve “apprestare la

del 9 luglio 2015 emessi dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale

necessaria tutela del principio del giusto processo in tutti i casi in cui può
risultare compromessa l’imparzialità del giudice …”.
2.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione
risultante dal testo del provvedimento impugnato e dagli atti indicati e allegati al
ricorso nonché travisamento della prova, contraddittorietà e manifesta illogicità
della motivazione (articolo 606, comma 1, lettere c) ed e), codice di procedura
penale).
Sostiene che l’ordinanza è inoltre illegittima laddove, in modo

inimicizia nei confronti del cittadino da parte del magistrato, grave inimicizia
desumibile proprio dalle modalità caratterizzanti la vicenda posto che la
dottoressa Lucia Aielli, componente del Collegio giudicante del tribunale di
Latina, e gli altri magistrati del medesimo collegio avevano presentato un
esposto – querela in relazione ad alcuni commenti ritenuti diffamatori ed
attribuiti al ricorrente Armando Cusani, all’epoca presidente della Provincia di
Latina e riferiti alla sentenza di condanna pronunciata nei confronti del medesimo
da parte del collegio penale del tribunale di Latina; ciò accadeva nonostante la
tempestiva smentita a mezzo stampa effettuata dallo stesso Cusani già nel mese
di luglio; in particolare nella querela si leggeva che il Cusani avrebbe affermato
che quella decisione era esorbitante ed ingiusta ma “inevitabile (…) con quel
collegio giudicante” nel quale “si annida” un giudice “trasferito qui per una sorta
di punizione a seguito della conduzione insieme a De Magistris del processo Why
not” e che così avrebbe accusato il Collegio ed i suoi componenti di aver reso
una “sentenza politica” tradendo i doveri di correttezza e di imparzialità e
strumentalizzando la funzione per colpire una persona per motivi di avversione
politico-ideologica. Si chiedeva quindi “la punizione del colpevole per tutti i reati
ravvisabili”; in esito a tale esposto la procura della Repubblica di Latina aveva
trasmesso gli atti per competenza a quella di Perugia e Armando Cusani veniva
iscritto nel registro degli indagati per il reato di diffamazione aggravata in ordine
al quale il pubblico ministero presso il tribunale di Perugia presentava richiesta di
archiviazione e con decreto del 16 ottobre 2014 il Gip presso il medesimo
tribunale accoglieva la richiesta di archiviazione del procedimento penale nei
confronti del Cusani.
Sostiene quindi il ricorrente che la dottoressa Lucia Aielli e gli altri
componenti il collegio del tribunale di Latina avevano presentato una infondata
querela nei suoi confronti chiedendo che lo stesso fosse punito, in relazione a
fatti diversi da quelli per i quali era pendente il procedimento penale nel quale la
dottoressa Aielli aveva successivamente svolto le funzioni di presidente del
collegio del riesame. Ciò ha comportato l’adozione di una decisione che, quanto
meno a livello di fumus, riconosce una presunta responsabilità penale del

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contraddittorio ed illogico, arriva a escludere la sussistenza di una grave

ricorrente cosicché la presentazione della denuncia – querela e le peculiarità, che
hanno caratterizzato la vicenda in questione, avrebbero dovuto indurre la
dottoressa Aielli ad astenersi dallo svolgimento delle funzioni di presidente del
collegio del tribunale del riesame nonché di relatore della successiva ordinanza di
rigetto dell’istanza di riesame, al contrario di quanto è accaduto nel caso di
specie.
Gli stessi elementi enfatizzati dalla Corte territoriale per escludere
l’animosità del magistrato nel caso in questione scaturiscono da una erronea

l’impianto motivazionale dell’ordinanza. In particolare, il rilievo attribuito a
pagina 8 dell’ordinanza alla mancata presentazione dell’opposizione alla richiesta
di archiviazione da parte dei magistrati denuncianti non sembra cogliere nel
segno e appare del tutto illogico alla luce di quanto documentato nella richiesta
di archiviazione in ordine al fatto che il Cusani non aveva pronunciato le frasi in
contestazione, con la conseguenza che la scelta di non proporre opposizione alla
richiesta di archiviazione è stata verosimilmente orientata dalla circostanza che
tali opposizione sarebbe stata respinta alla luce delle capillari indagini effettuate.
Peraltro il ricorrente contesta quanto affermato nell’ordinanza impugnata e
cioè che “la pubblicazione da parte dei mezzi di informazione locali delle suddette
dichiarazioni diffamatorie nei confronti suoi e dell’intero collegio giudicante come
dichiarazioni fatte da Cusani Armando nel corso di una seduta del consiglio
provinciale” non sarebbe mai stato oggetto di chiara smentita. Infatti come
risulta dalla documentazione allegata alle note di udienza depositate, le
dichiarazioni offensive attribuite al ricorrente erano state immediatamente
smentite dallo stesso. Ne consegue che l’ordinanza della Corte di appello di
Roma è dunque illegittima anche per tale verso in quanto sorretta da una
motivazione in parte mancante, illogica e contraddittoria oltreché basata sul
travisamento della prova costituita dalla documentazione già allegata.
2.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’articolo 37,
comma 2, codice di procedura penale nonché vizio di motivazione risultante dal
testo del provvedimento e travisamento della prova, mancanza contraddittorietà,
la manifesta illogicità della motivazione (articolo 606, comma 1, lettere b), c) ed
e), codice di procedura penale).
Assume il ricorrente che l’ordinanza impugnata sarebbe altresì illegittima
laddove afferma che la violazione dell’articolo 37, comma 2, codice di procedura
penale – che impone al giudice ricusato di non pronunciare né concorrere a
pronunciare sentenza sino a che non sia intervenuta l’ordinanza che dichiara
inammissibile o rigetta la ricusazione e la violazione del correlato dovere
deontologico gravante sul magistrato ricusato – rileverebbe e sarebbe, dunque,
censurabile, ma in una sede diversa sul rilievo che
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“non è il giudizio di

lettura degli atti acquisiti e manifestano quindi tutta la debolezza su cui si regge

ricusazione la sede per procedere a tale accertamento”. Tuttavia l’ordinanza
impugnata, pur premettendo che non è il giudizio di ricusazione la sede per
esaminare la correttezza dell’operato del giudice ricusato che abbia comunque
adottato il provvedimento che definisce la res iudicanda sottoposta alla sua
attenzione, conclude in modo contraddittorio ritenendo comunque corretto
l’operato del magistrato stesso. Al riguardo, l’ordinanza impugnata non avrebbe
tenuto conto di quanto esposto e documentato nella dichiarazione di ricusazione
e nella memoria del 1 settembre 2015 depositata presso la Corte d’appello e più

riesame del decreto di sequestro; in data 24 luglio 2015 presentava la
dichiarazione di ricusazione del presidente del Tribunale del riesame, dottoressa
Aielli, poi depositata in data 27 luglio 2015 nella cancelleria del tribunale del
riesame; che, a causa della sospensione dei termini durante il periodo feriale, la
decisione del riesame sarebbe dovuta intervenire entro dieci giorni dalla
trasmissione degli atti da parte del pubblico ministero alla cancelleria del
riesame, ovvero dalla comunicazione alla cancelleria stessa che gli atti erano
stati già trasmessi; che il termine di dieci giorni per la pronuncia del tribunale del
riesame sarebbe quindi pacificamente scaduto nel settembre 2015; che l’udienza
relativa alla richiesta di riesame era tuttavia stata fissata al 30 luglio 2015; che
in tale occasione la difesa del Cusani invitava la dottoressa Aielli ad astenersi,
alla luce della interpretazione dell’articolo 37, comma 2, codice di procedura
penale fornita dalle Sezioni Unite secondo cui il divieto per il giudice ricusato di
pronunciare sentenza si estende ad ogni tipo di provvedimento idoneo a definire
la res iudicanda cui si riferisce la dichiarazione di ricusazione. Ciò in quanto la
ratio sta nella garanzia che a decidere sia un giudice imparziale e non può
dubitarsi che tale garanzia è dovuta per ogni tipo di provvedimento
giurisdizionale; che a fronte di ciò, la dottoressa Aielli, in una dichiarazione letta
in udienza affermava che “questo giudice, pur prendendo atto della proposta di
ricusazione, non può astenersi dal procedere alla definizione del procedimento di
riesame, attesa la perentorietà dei termini entro i quali procedere alla decisione,
pena l’inefficacia della misura cautelare”, invocando proprio la citata sentenza
delle Sezioni unite; che la dottoressa Aielli nomi /nava quindi se stessa come
relatrice e, quale presidente del collegio e relatore dell’ordinanza, rigettava la
richiesta di riesame proposta dal Cusani; che in realtà non ricorreva il
presupposto in base al quale il presidente del collegio e relatore della causa
aveva ritenuto di poter superare il divieto di cui all’articolo 37, comma 2, codice
di procedura penale disattendendo l’invito all’astensione formulato la difesa; che
sarebbero stati quindi palesemente violati pertanto i precisi doveri deontologici
incombenti a carico del magistrato ricusato.

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in particolare che in data 23 luglio 2015 il ricorrente proponeva la richiesta di

2.4. Con il quarto motivo il ricorrente eccepisce l’illegittimità costituzionale
degli articoli 36, comma 1, lettera d) e 37 cod. proc. pen. per violazione degli
articoli 111 e 54, comma 2 costituzione e all’articolo 6 Cedu in relazione
all’articolo 117 Costituzione trattandosi di questione rilevante e non
manifestamente infondata nella parte in cui le norme censurate non prevedono
l’obbligo di astensione e la facoltà di ricusazione del giudice che abbia presentato
una querela nei confronti di un indagato per fatti diversi da quelli oggetto del
procedimento. Tanto sul rilievo che la Corte costituzionale con la sentenza n. 283

parte in cui non prevedeva che potesse essere ricusato dalle parti il giudice che,
chiamato a decidere sulla responsabilità dell’imputato, avesse espresso in altro
procedimento, anche non penale, una valutazione di merito sullo stesso fatto nei
confronti del medesimo soggetto, precisando che il sistema deve “apprestare la
necessaria tutela del principio del giusto processo in tutti i casi in cui può
risultare compromessa l’imparzialità del giudice …”.

Anche secondo la pacifica

giurisprudenza della Cedu il difetto di imparzialità può derivare da fatti o M rd‘^
affermazioni che dimostrino “un’ostilità del giudice nei confronti dell’indagato”,
essendo necessario evitare anche ogni “apparenza di imparzialità” (ex multis,
Kiprianou contro Cipro il 15 dicembre 2005; Mezzanariac contro Croazia del 15
luglio 2005). Al riguardo non può dubitarsi che il divieto per il giudice ricusato di
pronunciarsi in via definitiva sulla res íudicanda prima della decisione sulla
ricusazione costituisca un’articolazione della tutela del principio del giusto
processo e in particolare la terzietà e l’imparzialità del giudice, garantiti dagli
articoli 111 della Costituzione e 6 Cedu. Secondo il ricorrente sarebbe violato il
principio di eguaglianza in quanto la res iudicanda nei confronti di un cittadino è
stata definita da un giudice ricusato in pendenza del giudizio di ricusazione; da
un giudice quindi che in quel momento la legge stessa presumeva non imparziale
proprio alla luce del divieto di cui all’articolo 37, comma 2, con conseguente
disparità di trattamento rispetto a tutti gli altri cittadini. Risulta altresì vulnerato
il principio di cui all’articolo 54 della costituzione secondo il quale “tutti i cittadini
hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la costituzione e
le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di
adempierle con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla
legge”. Alla luce di tale principio costituzionale, non è possibile ritenere idonea a
produrre effetti giuridici nel nostro ordinamento una condotta in contrasto con la
legge (articolo 37, comma 2, codice di procedura penale) e con il principio che le
Sezioni Unite della Suprema Corte hanno definito un
deontologico”

“preciso dovere

del giudice. Ritenere quindi infondata la dichiarazione di

ricusazione del presidente del collegio del riesame di Latina espone l’articolo 37
del codice della penale ad una censura di illegittimità costituzionale per

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del 2000 ha dichiarato illegittimo l’articolo 37 codice di procedura penale nella

violazione degli articoli 3, 54, 111, 117 della costituzione alla luce dell’articolo 6
CEDU.

CONSIDERATO IN DIRITTO

i.. Il ricorso è infondato nei limiti e sulla base delle considerazioni che
seguono.

essere congiuntamente esaminati.
Essi non hanno giuridico fondamento avendo la Corte territoriale, con logica
ed adeguata motivazione, escluso la sussistenza della causa di ricusazione
ipotizzata.
Nel pervenire a tale conclusione la Corte del merito si è attenuta al principio
di diritto secondo il quale la qualità di parte offesa assunta dal magistrato, in
diverso procedimento penale rispetto a quello nel quale è stata presentata la
dichiarazione di ricusazione, non denota necessariamente inimicizia grave, né
configura, di per sé, motivo di ricusazione, anche quando ciò sia conseguenza di
una querela presentata dal medesimo magistrato nei confronti della parte poi
sottoposta al suo giudizio (Sez. 6, n. 249 del 01/02/1990, Borrello, Rv. 183846).
E’ tuttavia il caso di precisare – diversamente dall’articolata opinione
espressa dal ricorrente che inammissibilmente pretende di assegnare alla
fattispecie un ambito di operatività generalizzato – come la medesima situazione
possa, in determinati casi, costituire motivo di ricusazione: il che in particolare si
verifica quando la presentazione di una denuncia o querela – da parte del
magistrato nei confronti di una determinata parte privata che sia interessata ad
una vicenda giudiziaria nella quale il giudice è chiamato sulla base di regole
tabellari precostituite a svolgere le proprie funzioni – sia avvenuta nell’ambito di
esperienze di vita che esulano dal rapporto e dalla sfera strettamente
professionale o, se anche da ciò non esulano, abbia contenuti tali da attestare il
rapporto interpersonale di inimicizia, estraneo a vicende giudiziarie (Sez. 6, n.
39792 del 03/11/2010, Campanella, non mass.).
Nel caso di specie, la Corte d’appello – a seguito di un approfondito esame
del contenuto della querela e del contesto nel quale la stessa è stata presentata
dai membri del collegio giudicante del tribunale di Latina, tra cui la dottoressa
Aielli, che avevano pronunciato una sentenza di condanna di primo grado nei
confronti del Cusani – ha dato atto come dovesse escludersi la sussistenza di
circostanze sintomatiche di un rapporto di grave inimicizia reciproca tra
quest’ultima ed il Cusani o di una contaminazione della sua imparzialità e
terzietà nell’esercizio della funzione giurisdizionale.
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2. I primi due motivi, essendo tra loro strettamente connessi, possono

Secondo la Corte territoriale, la querela in questione – lungi dal
rappresentare un indizio di ostilità e di rancore del giudice nei confronti della
parte privata per ragioni personali, sorte al di fuori di procedimenti nei quali il
magistrato esercita la propria funzione, tanto da attestare l’esistenza di un
rapporto interpersonale di grave inimicizia estraneo alla sfera professionale – è
apparsa invece uno strumento al quale ì magistrati del Collegio giudicante hanno
fatto ricorso al solo fine di tutelare la propria reputazione e la credibilità della
funzione esercitata da accuse che, secondo quanto riportato dai mezzi di
informazione locali e trascritto nella querela, sarebbero state rivolte loro proprio

conseguente delegittimazione della stessa magistratura presso l’opinione
pubblica) ma anche e soprattutto al fine di scongiurare eventuali azioni penali
e/o disciplinari per gli asseriti comportamenti illeciti attribuiti loro dalla stampa
(ossia per aver pronunciato una sentenza di natura e finalità “politiche”).
Tale approdo il giudice a quo ha conseguito sulla base del tenore letterale
della stessa querela dove si legge che “è per questi motivi (…) che le sottoscritte
(…) Lucia Aielli, Gabriella Nuzzi, Mara Mattioli (…) denunciano i fatti sopra esposti
(…)”, essendo stata la querela sporta in conseguenza, secondo quanto riferito dai
giornali, delle accuse mosse dal Cusani nei loro confronti di violazione del dovere
di imparzialità ed onestà e di strumentalizzazione della funzione giurisdizionale
“al fine di colpire una persona per motivi di avversione politico-ideologici” e, in
definitiva, in ragione delle infondate accuse di illeciti penali e disciplinari.
In buona sostanza la Corte d’appello ha escluso che ricorresse una
situazione di grave inimicizia sulla base di una corretta interpretazione delle
risultanze processuali adottando una congrua motivazione immune da vizi di
manifesta illogicità e, come tale, sottratta al sindacato di legittimità, avendo
correttamente attribuito, anche alla mancata opposizione alla richiesta di
archiviazione da parte delle persone offese, il significato della completa
indifferenza delle querelanti rispetto agli esiti delle indagini, rilevando per le
persone offese che fosse fatta chiarezza sulla vicenda, chiarezza che soltanto le
indagini giudiziarie (e, quindi, la presentazione di una denuncia – querela)
avrebbero potuto assicurare, con la conseguenza che la smentita del Cusani, se
anche fosse intervenuta prima della proposizione della querela, poteva essere
non conosciuta, nei termini di cui alle allegazioni difensive, dalle querelanti o, se
conosciuta, essere ritenuta ininfluente non potendo la persona attinta dalle
offese stabilire se fosse stata la stampa ad averle propalate arbitrariamente o
meno.
Perciò non è decisiva, per destrutturare la ratio decidendi dell’ordinanza
impugnata, la circostanza che la Corte d’appello abbia escluso che il ricorrente

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dal Cusani (peraltro in un contesto pubblico quale il consiglio provinciale, con

avesse smentito le affermazioni, lesive della reputazione dei singoli magistrati,
che la stampa a lui attribuiva.
La motivazione è pertanto esente, nel suo complesso, da vizi logico giuridici, dovendosi poi anche considerare che l’inimicizia, per poter assumere
rilevanza ex art 36 lett. d) cod. proc. pen., deve essere un’inimicizia qualificata,
occorrendo che essa si connoti come “grave” e dovendosi quindi sostanziare in
risentimenti personali formatisi e manifestatisi, in maniera assai rilevante, per
ragioni private, indipendenti dall’esercizio delle funzioni nel procedimento nel

Rv. 183490), con la conseguenza quindi che il sentimento di grave inimicizia, per
risultare pregiudizievole, deve essere reciproco, deve nascere o essere
ricambiato dal giudice e deve trarre origine da rapporti di carattere privato (Sez.
6, n. 38176 del 22/09/2011, Braccini, Rv. 250780).
Peraltro, erroneamente si assume che il giudice ricusato si sarebbe
pronunciato, nonostante avesse querelato il Cusani, sulla probabile colpevolezza
del ricorrente avendo dovuto statuire sul fumus delicti.
Sul punto, è il caso di ricordare che la giurisprudenza di legittimità e quella
costituzionale (ex multis, Corte cost. n. 29 del 08/02/1999), in materia di
incompatibilità del giudice per atti compiuti nel procedimento, hanno tenuto
costantemente distinta la regiudicanda cautelare reale rispetto a quella personale
e al giudizio in senso stretto, affermando che le prime, al contrario delle misure
cautelari personali, non presuppongono una valutazione nel merito della
sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, ma solo la verifica della astratta
configurabilità del reato (fumus), trattandosi di provvedimenti, fondati su un
“summatim conoscere” cosicché, non essendo profilabili né un pregiudizio
rispetto ad ulteriori atti della fase, né una indebita manifestazione del
convincimento sui fatti oggetto dell’imputazione, sono insuscettibili di generare
situazioni di incompatibilità a partecipare al giudizio (Sez. 2, n. 3539 del
16/01/2007, Zucchetto, Rv. 235628; Sez. 6, n. 6859 del 03/12/2007, dep.
2008, Puliga, Rv. 239418).

3. Infondato è anche il terzo motivo di impugnazione.
3.1. Con esso si assume che erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto
neutro rispetto alle ragioni della ricusazione il comportamento della dottoressa
Aielli che avrebbe violato la disposizione la quale inibisce al giudice ricusato di
pronunciare la decisione fino a che non sia intervenuta l’ordinanza che dichiara
inammissibile o rigetta la ricusazione (ex art. 37, comma 2, cod. proc. pen.),
sostanzialmente riconoscendo che il magistrato avrebbe svolto le funzioni in una
situazione d’urgenza e comunque assegnando alla violazione un significato

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quale siano stati dedotti (Sez. 5, n. 4593 del 15/11/1989, dep. 1990, Agricola,

neutro rispetto alla ricusazione, potendo tale comportamento essere solo
suscettibile di radicare un eventuale rilievo disciplinare.
A sostegno di tale affermazione il ricorrente rileva come l’ordinanza con la
quale il magistrato ricusato abbia nominato se stesso relatore e assunto la causa
in decisione, rigettando l’stanza di riesame, sia giuridicamente scorretta nella
misura in cui ha ritenuto urgente la decisione in materia di impugnazioni
cautelari reali i cui termini di definizione ricadevano in periodo feriale, e tanto in
considerazione del fatto che detti termini sarebbero stati governati dalle

magistrato avrebbe potuto e dovuto differire la pronuncia sulla regiudicanda
cautelare almeno sino al termine del periodo feriale, posto che alcuna
caducazione del titolo era medio tempore possibile, contrariamente a quanto
sostenuto nell’ordinanza letta in udienza dal Presidente del tribunale del riesame.
3.2. La natura processuale del vizio denunciato con il quale è eccepito un
error in procedendo abilita la Corte di cassazione all’esame degli atti processuali
dai quali emerge, come pure dal ricorso, che il procedimento di riesame del
decreto di sequestro preventivo ricadeva in periodo escluso dalla sospensione
feriale dei termini processuali (udienza camerale celebrata il 30 luglio),
impattando, nel periodo di sospensione, solo una parte del termine assegnato
per la decisione sull’istanza a pena di inefficacia della misura, mentre il dies a
quo (coincidente con la trasmissione degli atti da parte dell’autorità giudiziaria
procedente alla cancelleria del tribunale del riesame) per il decorso dei termini di
emanazione del provvedimento, a pena di inefficacia della misura, era
pacificamente ricompreso in periodo non feriale.
In questi casi, il termine di dieci giorni per la decisione, a pena di inefficacia
della misura cautelare, sulla richiesta di riesame, decorre, senza che possano
avere rilievo eventi sospensivi, anche nel corso del periodo feriale quando, come
nella specie, il dies a quo non ricada in periodo di sospensione feriale giacché
detto termine, al pari di ogni altro provvedimento del giudice, non rientra nella
sospensione dei termini processuali, che invece incide solo ai fini di quelli
(sospesi in periodo feriale) previsti per l’eventuale impugnazione del
provvedimento giurisdizionale.
Il rilievo del ricorrente non è dunque esatto mentre appare ineccepibile, sul
punto, l’ordinanza pronunciata dal tribunale del riesame di Latina.
In ogni caso, pur in costanza della proposta ricusazione, la parte non ha
neppure eccepito, in sede di udienza camerale, questioni inerenti la sospensione
dei termini per il periodo feriale.
Va ricordato che le attività compiute in periodo di sospensione feriale dei
termini processuali sono affette da nullità di ordine generale a regime intermedio
sicché, quando non siano state sollevate eccezioni in ordine alla mancata

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disposizioni che ne prevedono il congelamento in periodo feriale, sicché il

sospensione dei termini per il periodo feriale, tale comportamento determina
acquiescenza alla trattazione della causa e la nullità rimane sanata se, come
nella specie, non dedotta nel corso dell’udienza alla quale il difensore abbia
partecipato (Sez. 2, n. 21809 del 07/02/2014, Rugeri Rv. 259571).

4. La questione di legittimità costituzionale che si chiede di sollevare, con il
quarto motivo di impugnazione, è manifestamente infondata.
Il ricorrente, come è stato già precisato, pretende di assegnare una portata

che si trovi, in seguito, a rivestire la qualità di parte in un procedimento nel
quale la funzione giurisdizionale debba essere svolta dallo stesso magistrato che
si è querelato, chiedendo che sia sollevata la questione di legittimità
costituzionale degli articoli 36, comma 1, lettera d) e 37 cod. proc. pen. per
violazione degli articoli 111 e 54, comma 2 costituzione e all’articolo 6 Cedu in
relazione all’articolo 117 Costituzione nella parte in cui le norme censurate non
prevedono l’obbligo di astensione e la facoltà di ricusazione del giudice che abbia
presentato una querela nei confronti di un indagato per fatti diversi da quelli
oggetto del procedimento.
Il punto critico della tesi sostenuta sta nel ritenere sempre ricusabile il
giudice che abbia querelato o, a limite, denunciato, per fatti diversi da quelli
oggetto del procedimento, colui che abbia assunto nel processo la qualità di
parte senza alcuna distinzione e senza considerare che tale distinzione è imposta
dal dettato normativo, per nulla irragionevole sul punto, che richiede, al fine di
radicare l’obbligo di astensione del magistrato o al fine di facultare la parte
privata a ricusarlo, la sussistenza di un’inimicizia qualificata, cioè “grave”, tale
essendo non l’inimicizia prospettabile in via astratta o meramente teorica ma
soltanto quella verificabile in concreto, se ed in quanto idonea a pregiudicare
l’essenza stessa della funzione giurisdizionale, la cui esplicazione richiede la
terzietà e l’imparzialità del giudice ed il cui accertamento si risolve in un giudizio
di fatto rientrante nelle prerogative del giudice di merito e che, se
adeguatamente e logicamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità
affidato alla Corte di cassazione.
La giurisprudenza costituzionale ha evidenziato come l’imparzialità, intesa
sia in senso oggettivo che soggettivo ed intesa anche come apparenza di
imparzialità, costituisce un requisito essenziale dell’esercizio della funzione
giurisdizionale declinato nel sistema delle garanzie costituzionali, evidenziando
che esistono spazi per eventuali interventi volti ad estendere, mediante
l’incidente di costituzionalità, l’area di applicazione degli istituti dell’astensione e
della ricusazione a situazioni non espressamente previste dal codice di rito, ma

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generale all’ipotesi in cui il giudice abbia sporto querela nei confronti di taluno

tuttavia capaci di esprimere analoghi effetti pregiudicanti per l’imparzialità neutralità del giudice (Corte cost. n. 282 del 2000).
Tuttavia, tale impostazione non incrina il principio del quale non si è mai
dubitato circa il carattere tassativo delle cause di ricusazione, la cui eccezionalità
trova fondamento nella considerazione che esse sono limitative del potere
giurisdizionale, con la conseguenza che le norme che prevedono le cause di
ricusazione sono norme eccezionali e, come tali, di stretta interpretazione, sia
perché determinano limiti all’esercizio del potere giurisdizionale e alla capacità

dell’ordinamento giudiziario, che attiene al rapporto di diritto pubblico fra Stato e
giudice (Sez. 6, n. 14 del 18/09/2013, dep. 2014, Mancuso Rv. 258449).
Sul versante della giurisprudenza europea e sulla premessa che le garanzie
del giusto processo, tra le quali figura l’imparzialità, debbano essere assicurate
dagli Stati contraenti, in maniera che
l’indispensabile fiducia”,

“i tribunali ispirino al pubblico

va anche ricordato che la Corte Edu, anch’essa

segnalando la necessità di uno scrutinio del caso specifico, ha più volte affermato
che l’imparzialità del giudice si coglie in una duplice prospettiva di natura
soggettiva ed oggettiva, peraltro non nettamente separate (Grande Camera,
sentenza 15 dicembre 2005, Kyuprianou c. Cipro, § 119), riguardando la prima il
“foro interiore” del magistrato (sentenza 1 ottobre 1982, Piersack c. Belgio, §
30), da ritenersi imparziale fino a prova contraria (sentenza 26 ottobre 1984, De
Cubber c. Belgio, § 25) e la seconda riguardando le condizioni esteriori, anche le
semplici apparenze, reputate tali da porre in dubbio l’assicurazione di una
giustizia imparziale (sentenza 24 maggio 1989, Hauschildt c. Danimarca, § 48),
essendo in gioco la stessa fiducia che gli organi giurisdizionali devono ispirare ai
cittadini e, soprattutto, nell’accusato, cosicché occorre valutare se le
preoccupazioni siano oggettivamente giustificate (sentenza 25 giugno 1992,
Thorgeir Thorgeirson c. Islanda, § 51).
Deve pertanto ritenersi non irragionevole ed in linea con i principi del giusto
processo la scelta del legislatore di limitare la ricusabilità del giudice ai soli casi,
per quanto qui interessa, di inimicizia grave e cioè ai casi in cui il comportamento
del giudice, tanto se si estrinsechi in una denuncia – querela o in qualsivoglia
altra condotta, sia indicativo di una reale e concreta compromissione
dell’imparzialità e terzietà del magistrato, in modo da evidenziare l’esistenza di
un rapporto personale di grave inimicizia reciproca tra giudice e parte privata,
con conseguente lesione dei valori costituzionali e convenzionali sui quali fonda il
principio del processo equo ed al quale devono ritenersi funzionali le norme
sull’astensione e la ricusazione del giudice.
Peraltro, la casistica giurisprudenziale, in materia di denuncia del magistrato
per ragioni del tutto avulse da rapporti personali di inimicizia, e la presente

12

del giudice sia perché consentono un’ingerenza delle parti nella materia

vicenda processuale, come in precedenza riportata, rendono evidente come sia
necessario lo scrutinio circa la possibilità o meno di ritenere incrinata
l’imparzialità e la terzietà del giudice, con la conseguenza che situazioni
indiscriminate poste a base della disciplina dell’astensione e della ricusazione
rischierebbero di minare concorrenti principi costituzionali (quale il principio del
giudice naturale) e incrinare il principio di bilanciamento tra valori di pari
significatività costituzionale.
Precisato quindi che configura inimicizia grave, suscettibile di richiedere al

presentazione di una denuncia o querela – da parte del magistrato nei confronti
di una determinata parte privata che sia interessata ad una vicenda giudiziaria
nella quale il giudice è chiamato sulla base di regole tabellari precostituite a
svolgere le proprie funzioni – che abbia tratto origine da esperienze di vita che
esulano dal rapporto e dalla sfera strettamente professionale o che, se anche da
ciò non esulano, abbia contenuti tali da attestare il rapporto interpersonale di
inimicizia, estraneo a vicende giudiziarie, ipotesi nella specie non ricorrenti (cfr.
§ 2 del considerato in diritto) e chiarito che, anche al di fuori di tale caso, resta
comunque impregiudicata la facoltà del giudice di astenersi “per gravi ragioni di
convenienza”, le quali comunque non abilitano la parte alla ricusazione, la
dedotta questione di legittimità costituzionale deve ritenersi manifestamente
infondata perché, tenuto conto delle precedenti considerazioni, la previsione di
escludere l’obbligo dell’astensione del giudice o la legittimazione della parte a
ricusarlo in casi di inimicizia grave è priva di vizi di irragionevolezza, tendendo a
salvaguardare il principio del giudice naturale precostituito per legge con il diritto
– comunque assicurato quando sia esclusa in concreto la presenza di una grave
inimicizia, nel senso in precedenza precisato, tra giudice e parte privata – del
cittadino ad essere giudicato da un giudice terzo ed imparziale, non determina
pertanto ricadute sul giuramento di fedeltà prestato dal magistrato alla
Repubblica ed alle sue Leggi, non viola i principi del giusto processo fissati dalle
norme costituzionali e convenzionali e di conseguenza non viola gli artt. 3, 54,
comma 2, 111, 117 Cost, in relazione all’art. 6 Cedu.

5. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle
spese processuali.

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giudice l’obbligo di astensione o di legittimare la parte a ricusarlo, la

a

P.Q.M.

Dichiara manifestamente infondata la dedotta questione di legittimità
costituzionale.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.

Così deciso il 10/02/2016

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