Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9988 del 15/05/2015


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 9988 Anno 2015
Presidente: CURZIO PIETRO
Relatore: MANCINO ROSSANA

SENTENZA
sul ricorso 15292-2013 proposto da:
INTESA SANPAOLO SPA 00799960158, quale incorporante
SANPAOLO IMI SPA, in persona del legale rappresentante,
elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, 19, presso
lo studio dell’avvocato RAFFAELE DE LUCA TAMAJO, che la
rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLO TOSI giusta
procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrente contro
ANDREOTTI FORTUNATO, ANIELLO LUCA, BELLOTTI
VINCENZO, CASABURI ANNA, BOSSA MARIA, BOSCO

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Data pubblicazione: 15/05/2015

MARIA, quale erede di Bosco Ciro, CERVONE CARLO, GAETANI
GIACOMELLA, quale erede di Biasucci Vincenzo, elettivamente
domiciliati in ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo studio
dell’avvocato SERGIO VACIRCA, rappresentati e difesi dall’avvocato
GIUSEPPE FERRARO giusta procura speciale a margine del

– controricorrente —
nonché contro
BISUCCI RUGGIERO, BIASUCCI PAOLO, DE FELICE
ELEONORA quale esercente la potestà sul minore BIASUCCI
GENNARO, quali eredi di Biasucci Vincenzo
– intimatiavverso la sentenza n. 3594/2012 della CORTE D’APPELLO di
NAPOLI del 29/05/2012, depositata il 13/06/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
12/03/2015 dal Consigliere Relatore Dott. ROSSANA MANCINO;
udito l’Avvocato Luigi Fiorillo (delega avvocato Paolo Tosi) difensore
della ricorrente che si riporta ai motivi;
udito l’Avvocato Ferraro Giuseppe difensore dei controricorrenti che
si riporta ai motivi.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 3594/2012 del 13 giugno 2012, la Corte di appello
di Napoli, accoglieva l’impugnazione proposta da Andreotti Fortunato
ed altri litisconsorti in epigrafe indicati, nei confronti della Intesa
Sanpaolo (quale incorporante della Sanpaolo IMI) S.p.A., avverso la

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controricorso;

sentenza del Tribunale di Napoli con la quale era stata rigettata la
domanda proposta dai predetti, tutti ex dipendenti del Banco di Napoli e
collocati in quiescenza con decorrenza anteriore al 31/12/1990, intesa
ad ottenere l’incremento del trattamento pensionistico per effetto del
perdurante meccanismo perequativo aziendale di cui alla delibera

sentenza di primo grado, condannava la Intesa San Paolo al pagamento
in favore degli originati ricorrenti delle differenze economiche sul
trattamento pensionistico per i periodi e gli importi indicati in ricorso.
La pretesa dei ricorrenti traeva titolo da una precedente sentenza del
Pretore del lavoro di Napoli, che aveva loro riconosciuto il diritto di
conservare il sistema di perequazione automatica delle pensioni, come
disciplinato anteriormente all’entrata in vigore del d.lgs. 30/12/1992, n.
503. La suddetta sentenza era stata confermata in grado di appello dal
Tribunale di Napoli; successivamente le Sezioni Unite della Cassazione,
con sentenza n. 9024/2001, avevano cassato con rinvio la sentenza di
appello, riconoscendo tuttavia il diritto dei pensionati al mantenimento
del regime perequativo aziendale, ove cessati dal servizio prima del 31
dicembre 1990 e limitatamente al periodo 1°.1.1994-26.7.1996. La Corte
di appello di Napoli, nel giudizio di rinvio, aveva riconosciuto il diritto
dei pensionati (tra cui gli odierni intimati o i loro danti causa) a
conservare il suddetto regime perequativo aziendale relativamente al
periodo 1 ° 11994-26.7.1996, condannando per l’effetto la Sanpaolo Imi
S.p.A. (incorporante del Banco di Napoli S.p.A.) alla corresponsione dei
relativi aumenti di pensione. La pronuncia era stata confermata da
questa Corte con sentenza n. 19937 del 19 maggio 2004 – 6 ottobre
2004 (che si era limitata ad una modifica della statuizione solo nella sola
parte concernente il regime degli accessori), con conseguente
formazione del giudicato. Riteneva la Corte territoriale, nella decisione
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dell’Istituto del 17/1/1983. La Corte di appello, in riforma della

ora impugnata, irrilevante ai fini della regolamentazione dei rapporti tra
le parti lo ius superveniens costituito dall’art. 1 comma 55 della legge n.
243/2004 in ragione dell’intervenuto giudicato ed escludeva, altresì, che
la base di computo delle prestazioni per il periodo successivo potesse
essere depurata degli incrementi erogati in virtù del regime perequativo

accertato con riguardo agli anni 1994/1996, il cui risultato era destinato
a stabilizzarsi anche per gli anni successivi.
Per la cassazione della suddetta sentenza ricorre Intesa Sanpaolo
s.p.a. (quale incorporante di Sanpaolo Imi s.p.a.), prospettando un unico
motivo di ricorso.
Resistono, con controricorso, Andreotti Fortunato ed altri
litisconsorti in epigrafe indicati.
Bisucci Ruggiero ed altri lifisconsorti in epigrafe indicati sono
rimasti intimati.
Le parti costituite hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378
cod. proc. civ..

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. In via preliminare, deve darsi atto che la notificazione del ricorso
per cassazione non si è perfezionata nei confronti di uno degli eredi di
Biasucci Vincenzo, ed in particolare di Biasucci Paolo, come peraltro la
stessa ricorrente ha rilevato nella memoria ex art. 378 cod. proc. civ.,
con cui ha chiesto il rinvio della causa a nuovo ruolo per provvedere alla
rinnovazione di tale notificazione.
Ritiene, tuttavia, il Collegio di dover disattendere la richiesta,
condividendo i principi già espressi da questa Corte, che qui si
richiamano.
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poi abrogato, ciò sulla base del criterio di calcolo definitivamente

Si è invero affermato che il rispetto del diritto fondamentale ad una
ragionevole durata del processo impone al giudice (ai sensi degli artt.
175 e 127 cod. proc. civ.) di evitare e impedire comportamenti che siano
di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano
certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività

dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del
principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto
alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella
cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti.
Si è quindi ritenuto che, in caso di ricorso per cassazione
inammissibile o infondato (come è quello in esame, alla luce delle
considerazioni che seguono), appare superflua la fissazione del termine
per la rinnovazione della notifica ai fini dell’integrazione del
contraddittorio, pur potendone sussistere i presupposti, atteso che la
concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in
un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione
e senza un concreto beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti
processuali delle parti (Cass., ord., sez. un., 22 marzo 2010, n. 6826;
Cass. 8 febbraio 2010, n. 2723; Cass., 17 giugno 2013, n. 15106).
2. Con l’unico articolato motivo la ricorrente denuncia: “Violazione
e falsa applicazione dell’art. 324 cod. proc. civ. e dell’art. 2909 cod. civ.,
in relazione agli artt. 9 e 11 del d.lgs. n. 503/1992, come interpretati
autenticamente dall’art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 (art.
360, n. 3, cod. proc. civ.)”. Si duole del fatto che la Corte partenopea
abbia attribuito una erronea portata alla norma di interpretazione
autentica del comma 55 dell’art. 1 della citata legge n. 243 del 2004 ed ai
suoi rapporti con il giudicato, rendendo il trattamento perequativo
dell’originario ricorrente, andato in pensione prima del 31 dicembre
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processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura

1990, sostanzialmente indifferente alla esistenza o meno della suddetta
norma di interpretazione autentica in forza della quale, come chiarito da
consolidata giurisprudenza di legittimità, il sistema di perequazione
automatica aziendale è abrogato, per tutti i pensionati (ante e post 31
dicembre 1990), a far data dal gennaio 1994. Conseguentemente, in

gli aumenti perequativi ottenuti in virtù del sistema previgente, non
venendo in rilievo il principio di intangibilità del giudicato, né il divieto
del ne bis in idem, la pretesa azionata avrebbe dovuto essere decisa alla
luce della ridetta norma di interpretazione autentica, e non già in base
alla regula juris affermata dalla sentenza passata in giudicato, siccome
sostituita ab origine dalla normativa di interpretazione autentica. Ciò in
quanto il diritto alla conservazione dell’assegno perequativo non è parte
integrante del giudicato, bensì un diritto conseguente che permane, rebus

sic stantibus, al permanere della relativa fonte costitutiva.
3. Il motivo non è fondato.
4. Deve essere data continuità – in particolare – all’indirizzo già
espresso da questa S.C. con le sentenze n. 19825/11 e n. 20975/09.
A tal fine si premetta che sul problema della perequazione
automatica delle pensioni integrative del personale del Banco di Napoli
si è formata una giurisprudenza costante, sulla base della quale i
lavoratori collocati a riposo prima del 31/12/90 conservano il diritto
all’integrazione, diritto che sopravvive alla legge n. 421/1992 ed al d.lgs.
n. 503/1992. Tale regime perequativo termina il 26/7/1996: in tal senso
cfr., ex akis, Cass. nn. 9023 e 9024 del 2001, cui la giurisprudenza
successiva si è uniformata, con giudicato formatosi anche in relazione
agli odierni intimati (il che è pacifico inter partes).
Successivamente al consolidarsi della giurisprudenza di questa S.C. è
intervenuto l’art. 1 co. 55 legge n. 243/2004, che ha stabilito che la
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relazione al diritto di conservare, successivamente al mese di luglio 1996,

normativa sopra richiamata deve intendersi nel senso che la
perequazione automatica delle pensioni, come prevista dall’art. 11 d.lgs.
n. 503/1992, si applica al complessivo trattamento percepito dai
pensionati di cui all’art. 3 d.lgs. n. 357/1990.
La suddetta norma di interpretazione autentica ha superato il vaglio

profili sollecitato da questa stessa Corte Suprema, sicché è da escludersi
una pur limitata sopravvivenza del sistema di perequazione automatica.
Tuttavia tale norma di interpretazione autentica non è idonea a
rimuovere gli effetti del giudicato (né essa dispone espressamente la
caducazione dei giudicati già formatisi e dei loro effetti futuri: nulla di
tutto ciò si legge nel cit. art. 1 co. 55 legge n. 243/04).
Si tenga presente che il giudicato, proprio perché destinato a fissare
la regola del caso concreto, partecipa della stessa natura dei comandi
giuridici, la cui interpretazione non si esaurisce in un giudizio di mero
fatto.
Come insegna costante giurisprudenza di questa S.C., qualora due
giudizi tra le stesse parti facciano riferimento al medesimo rapporto
giuridico ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in
giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione
giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad
un punto fondamentale comune ad entrambe la cause, formando la
premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel
dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto
accertato e risolto, pur ove il successivo giudizio abbia finalità diverse da
quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo e ciò riguarda
anche i rapporti di durata (Cass. S.U. 16 giugno 2006, n. 13916; conf.
Cass. 4 dicembre 2006, n. 25681; Cass. 22 aprile 2009, n. 9512), come
quelli dedotti nell’odierna controversia.
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di legittimità costituzionale (v. Corte cost. n. 362/2008) sotto diversi

Sempre in virtù di antica e costante giurisprudenza, in ordine ai
rapporti giuridici di durata e alle obbligazioni periodiche che ne
costituiscono il contenuto (come nel caso di specie), sui quali il giudice
pronuncia con accertamento su una fattispecie attuale, ma con
conseguenze destinate ad esplicarsi anche in futuro, l’autorità del

una nuova decisione di quelle già risolte con provvedimento definitivo.
Pertanto, quest’ultimo produce effetti anche nel tempo successivo
alla propria emanazione, con l’unico limite di fatti nuovi che
modifichino il contenuto materiale del rapporto o il relativo
regolamento pattizio (cfr. Cass. 16 agosto 2004, n. 15931; Cass. n.
19426/2003; Cass. n. 16959/2003; Cass. n. 3230/2001; Cass. n.
15178/2000; Cass. n. 9548/1997).
Nel caso di specie non solo non vi è alcun fatto nuovo che abbia
modificato il contenuto materiale del rapporto o il relativo regolamento
pattizio (tale non essendo il summenzionato art. 1 co. 55 legge n.
243/04, che – proprio perché di mera interpretazione – non ha alcuna
attitudine innovativa), ma la retroattività di una norma di interpretazione
autentica incontra il limite del giudicato, limite connaturato
all’ordinamento in quanto posto a custodia di quel principio di
separazione dei poteri che costituisce cardine indefettibile di ogni
democrazia costituzionale.
Una diversa opzione ricostruttiva sarebbe costituzionalmente
impraticabile per lesione del principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.
(letto in chiave a quello di certezza del diritto), del principio di
separazione dei poteri (artt. 101 cpv. e 104 co. 1° Cost.) e dell’art. 117
Cost. attraverso la norma interposta dell’art. 1 prot. Protocollo
aggiuntivo n. 1 alla CEDU come interpretato dalla giurisprudenza della
Corte di Strasburgo, secondo la quale i diritti pensionistici costituiscono
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giudicato impedisce il riesame e la deduzione di questioni tendenti ad

un bene ai sensi, appunto, dell’art. 1 del Protocollo n. 1 aggiuntivo alla
Convenzione (si vedano, ad esempio, le sentenze della Corte EDU
Lakiéevie e altri c. Montenegro e Serbia; Grudie c. Serbia; Pej’eié c.
Serbia; Stefanetti e altri c. Italia).
Sempre avuto riguardo alla sopravvenienza di una normativa

considerarsi che il fondamento del giudicato sostanziale – che si realizza
quando la decisione, oltre ad essere passata formalmente in giudicato
(art. 324 cod. proc. civ.), incide sul diritto fatto valere (art. 2909 cod.
civ.) e che risponde al generale principio della certezza del diritto – è
quello di rendere insensibili le situazioni di fatto dallo stesso considerate
(per le quali è stata individuata ed applicata la corrispondente regula juris)
ai successivi mutamenti della normativa di riferimento, anche con
riguardo allo jus superveniens che contenga norme retroattive.
Ne consegue, con riferimento ai limiti cronologici del giudicato
sostanziale, che la sopravvenienza di una legge interpretativa che
contraddica l’interpretazione recepita nella sentenza irrevocabile la rende
“erronea”, ma non ne compromette il valore, che è indipendente
dall’esattezza della statuizione con essa resa.
Infatti un giudicato – e ciò è dirimente – per quanto in ipotesi
“erroneo”, resta pur sempre giudicato, con tutta la propria capacità
espansiva nei successivi rapporti fra le medesime parti, nei limiti
oggettivi sopra ricordati.
Pertanto, sebbene l’intangibilità del giudicato riguardi solo quanto
sia stato oggetto del giudicato stesso, con esclusione di quanto non fosse
deducibile nel giudizio in cui esso si è formato, tale non deducibilità non
può ricollegarsi alla mera sopravvenienza di una norma che, senza
introdurre una nuova azione, si sia limitata ad interpretare
autenticamente una disposizione precedente (cfr, ex aliis, Cass. n.
Ric. 2013 n. 15292 sez. ML – ud. 12-03-2015
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incidente sulla disciplina in base alla quale il giudicato si è formato, deve

1583/2010; Cass. n. 18339/2003; Cass. n. 4630/2000; Cass. n.
12701/1995; Cass. n. 8797/1995).
Del resto, l’intangibilità del giudicato sostanziale non solo prevale
sullo jus superveniens e sulle norme di interpretazione autentica, ma
impedisce la caducazione, ab origine, delle norme su cui il giudicato si

stesse, costituendo – appunto – il giudicato, al pari di altre situazioni
giuridiche consolidate in conseguenza di eventi che l’ordinamento
giuridico riconosca idonei a produrre tale effetto, uno dei limiti che
incontra l’efficacia retroattiva della decisione di illegittimità
costituzionale (cfr., fra le numerose in tal senso, Cass. n. 4766/1999;
Cass. n. 7057/1997; Cass. n. 891/1996; Cass. n. 1860/1983; Cass. S.U.
n. 1707/1963).
L’applicazione di tali principi al caso in oggetto fa sì che la norma di
interpretazione autentica di cui all’art. 1, comma 55, legge n. 243/04, che
non contiene previsione alcuna di caducazione dei giudicati sostanziali
già formatisi, non è suscettibile di incidere, nel caso concreto, in
relazione alle situazioni giuridiche già oggetto di sentenza definitiva
passata in giudicato.
Né può ritenersi che tale norma di interpretazione autentica venga
ad incidere sugli effetti futuri del giudicato sostanziale, posto che, giusta
l’interpretazione resane dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., e
pltaibus, Cass. n. 16206/2009; Cass. n. 22700/2006), la stessa non
introduce una nuova disciplina della normativa di riferimento, destinata
ad esplicare la propria efficacia sui rapporti giuridici di durata a cui si
applica; conformemente alla propria natura interpretativa, essa individua
soltanto la corretta portata precettiva della normativa già esistente, la
stessa, cioè, sulla base della quale si è formato il giudicato sostanziale.

Ric. 2013 n. 15292 sez. ML – ud. 12-03-2015
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fonda per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale delle

Ne consegue che quest’ultimo ha cristallizzato il maturato
pensionistico per il periodo considerato, che resta insensibile, anche nei
suoi effetti, alla successiva norma di interpretazione autentica contenuta
nel cit. art. 1 co. 55 legge n. 243/04 e che, pertanto, deve essere
riconosciuto nella sua entità (con le eventuali variazioni legate alla

aziendale) anche per i ratei successivi.
Essendosi la sentenza impugnata conformata ai suindicati principi, il
motivo di ricorso non può trovare accoglimento.
5. In definitiva il ricorso va rigettato.
6. Le spese a favore dei controricorrenti, liquidate come in
dispositivo, seguono la soccombenza, non dovendosi invece provvedere
per le parti rimaste intimate.
7. Il ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013)
di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (art. 1, comma 17
della legge 24 dicembre 2012, n. 228 del 2012), che ha integrato l’art. 13
del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, aggiungendovi il comma 1 quater del
seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta
integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che
l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione,
principale o incidentale, a norma art. 1

bis. Il giudice dà atto nel

provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo
precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito
dello stesso”.
Essendo il ricorso in questione integralmente da respingersi, deve
provvedersi in conformità.

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dinamica perequativa legale, non essendo più applicabile quella

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in
favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio di
legittimità che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per

misura del 15%; nulla spese per le parti rimaste intimate.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto
della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della
ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in

ma, nella Camera di consiglio, il 12 marzo 2015.

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