Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9986 del 15/05/2015


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 9986 Anno 2015
Presidente: CURZIO PIETRO
Relatore: MANCINO ROSSANA

SENTENZA
sul ricorso 13121-2013 proposto da:
INTESA SAN PAOLO SPA 00799960158, quale incorporante
SANPAOLO IMI SPA, in persona del legale rappresentante,
elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, 19, presso
lo studio dell’avvocato RAFFAELE DE LUCA TAMAJO, che la
rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLO TOSI giusta
procura speciale a margine del ricorso;
– _ricorrente contro
SECHI GIOVANNA ANNA MARIA, OGGIANO STEFANO,
OGGIANO MARINA, quali eredi di Oggiano Pietro, elettivamente

Data pubblicazione: 15/05/2015

domiciliati in ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo studio
dell’avvocato SERGIO VACIRCA, rappresentati e difesi dall’avvocato
GIUSEPPE FERRARO giusta procura speciale a margine del
controricorso;

nonchè contro
GAMELLI WANDA, MASI GIUSEPPE, quali eredi di Lamberto
Masi;
– intimati avverso la sentenza n. 2654/2012 della CORTE D’APPELLO di
NAPOLI del 3/05/2012, depositata il 17/05/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
12/03/2015 dal Consigliere Relatore Dott. ROSSANA MANCINO;
udito l’Avvocato Luigi Fiorillo (delega avvocato Paolo Tosi) difensore
della ricorrente che si riporta ai motivi;
udito l’Avvocato Giuseppe Ferraro difensore dei controricorrenti che
si riporta ai motivi.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza n. 2654/2012 del 17 maggio 2012, la Corte di appello
di Napoli, accoglieva l’impugnazione proposta da Sechi Giovanna Anna
Maria ed altri litisconsorti in epigrafe indicati, nei confronti della Intesa
Sanpaolo (quale incorporante della Sanpaolo IMI) S.p.A., avverso la
sentenza del Tribunale di Napoli con la quale era stata rigettata la
domanda proposta dai predetti, tutti ex dipendenti del Banco di Napoli e
collocati in quiescenza con decorrenza anteriore al 31/12/1990, intesa
ad ottenere l’incremento del trattamento pensionistico per effetto del

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– controricorrenti –

perdurante meccanismo perequativo aziendale di cui alla delibera
dell’Istituto del 17/1/1983. La Corte di appello, in riforma della
sentenza di primo grado, condannava la Intesa San Paolo al pagamento
in favore degli originari ricorrenti delle differenze economiche sul
trattamento pensionistico per i periodi e gli importi indicati in ricorso.

Pretore del lavoro di Napoli, che aveva loro riconosciuto il diritto di
conservare il sistema di perequazione automatica delle pensioni, come
disciplinato anteriormente all’entrata in vigore del d.lgs. 30/12/1992, n.
503. La suddetta sentenza era stata confermata in grado di appello dal
Tribunale di Napoli; successivamente le Sezioni Unite della Cassazione,
con sentenza n. 9024/2001, avevano cassato con rinvio la sentenza di
appello, riconoscendo tuttavia il diritto dei pensionati al mantenimento
del regime perequativo aziendale, ove cessati dal servizio prima del 31
dicembre 1990 e limitatamente al periodo 1°.1.1994-26.7.1996. La Corte
di appello di Napoli, nel giudizio di rinvio, aveva riconosciuto il diritto
dei pensionati (tra cui gli odierni intimati o i loro danti causa) a
conservare il suddetto regime perequativo aziendale relativamente al
periodo 1°11994-26.7.1996, condannando per l’effetto la Sanpaolo Imi
S.p.A. (incorporante del Banco di Napoli S.p.A.) alla corresponsione dei
relativi aumenti di pensione. La pronuncia era stata confermata da
questa Corte con sentenza n. 19937 del 19 maggio 2004 – 6 ottobre
2004 (che si era limitata ad una modifica della statuizione solo nella sola
parte concernente il regime degli accessori), con conseguente
formazione del giudicato. Riteneva la Corte territoriale, nella decisione
ora impugnata, irrilevante ai fini della regolamentazione dei rapporti tra
le parti lo ius superveniens costituito dall’art. 1 comma 55 della legge n.
243/2004 in ragione dell’intervenuto giudicato ed escludeva, altresì, che
la base di computo delle prestazioni per il periodo successivo potesse
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La pretesa dei ricorrenti traeva titolo da una precedente sentenza del

essere depurata degli incrementi erogati in virtù del regime perequativo
poi abrogato, ciò stilla base del criterio di calcolo definitivamente
accertato con riguardo agli anni 1994/1996, il cui risultato era destinato
a stabilizzarsi anche per gli anni successivi.
Per la cassazione della suddetta sentenza ricorre Intesa Sanpaolo

motivo di ricorso.
Resistono, con controricorso, Sechi Giovanna Anna Maria ed altri
litisconsorti in epigrafe indicati.
Gamelli Wanda ed altro lifisconsorte in epigrafe indicati sono rimasti
intimati.
Le parti costituite hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378
cod. proc. civ..

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con l’unico articolato motivo la ricorrente denuncia: “Violazione
e falsa applicazione dell’art. 324 cod. proc. civ. e dell’art. 2909 cod. civ.,
in relazione agli artt. 9 e 11 del d.lgs. n. 503/1992, come interpretati
autenticamente dall’art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 (art.
360, n. 3, cod. proc. civ.)”. Si duole del fatto che la Corte partenopea
abbia attribuito una erronea portata alla norma di interpretazione
autentica del comma 55 dell’art. 1 della citata legge n. 243 del 2004 ed ai
suoi rapporti con il giudicato, rendendo il trattamento perequativo
dell’originario ricorrente, andato in pensione prima del 31 dicembre
1990, sostanzialmente indifferente alla esistenza o meno della suddetta
norma di interpretazione autentica in forza della quale, come chiarito da
consolidata giurisprudenza di legittimità, il sistema di perequazione
automatica aziendale è abrogato, per tutti i pensionati (ante e post 31
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s.p.a. (quale incorporante di Sanpaolo Imi s.p.a.), prospettando un unico

dicembre 1990), a far data dal gennaio 1994. Conseguentemente, in
relazione al diritto di conservare, successivamente al mese di luglio 1996,
gli aumenti perequativi ottenuti in virtù del sistema previgente, non
venendo in rilievo il principio di intangibilità del giudicato, né il divieto
del ne bis in idem, la pretesa azionata avrebbe dovuto essere decisa alla

alla regula juris affermata dalla sentenza passata in giudicato, siccome
sostituita ab otigine dalla normativa di interpretazione autentica. Ciò in
quanto il diritto alla conservazione dell’assegno perequativo non è parte
integrante del giudicato, bensì un diritto conseguente che permane, rebus
sic stantibus, al permanere della relativa fonte costitutiva.
2. Il motivo non è fondato.
3. Deve essere data continuità – in particolare – all’indirizzo già
espresso da questa S.C. con le sentenze n. 19825/11 e n. 20975/09.
A tal fine si premetta che sul problema della perequazione
automatica delle pensioni integrative del personale del Banco di Napoli
si è formata una giurisprudenza costante, sulla base della quale i
lavoratori collocati a riposo prima del 31/12/90 conservano il diritto
all’integrazione, diritto che sopravvive alla legge n. 421/1992 ed al d.lgs.
n. 503/1992. Tale regime perequativo termina il 26/7/1996: in tal senso
cfr., ex ahis, Cass. nn. 9023 e 9024 del 2001, cui la giurisprudenza
successiva si è uniformata, con giudicato formatosi anche in relazione
agli odierni intimati (il che è pacifico inter partes).
Successivamente al consolidarsi della giurisprudenza di questa S.C. è
intervenuto l’art. 1 co. 55 legge n. 243/2004, che ha stabilito che la
normativa sopra richiamata deve intendersi nel senso che la
perequazione automatica delle pensioni, come prevista dall’art. 11 d.lgs.
n. 503/1992, si applica al complessivo trattamento percepito dai
pensionati di cui all’art. 3 d.lgs. n. 357/1990.
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luce della ridetta norma di interpretazione autentica, e non già in base

La suddetta norma di interpretazione autentica ha superato il vaglio
di legittimità costituzionale (v. Corte cost. n. 362/2008) sotto diversi
profili sollecitato da questa stessa Corte Suprema, sicché è da escludersi
una pur limitata sopravvivenza del sistema di perequazione automatica.
Tuttavia tale norma di interpretazione autentica non è idonea a

caducazione dei giudicati già formatisi e dei loro effetti futuri: nulla di
tutto ciò si legge nel cit. art. 1 co. 55 legge n. 243/04).
Si tenga presente che il giudicato, proprio perché destinato a fissare
la regola del caso concreto, partecipa della stessa natura dei comandi
giuridici, la cui interpretazione non si esaurisce in un giudizio di mero
fatto.
Come insegna costante giurisprudenza di questa S.C., qualora due
giudizi tra le stesse parti facciano riferimento al medesimo rapporto
giuridico ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in
giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione
giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad
un punto fondamentale comune ad entrambe la cause, formando la
premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel
dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto
accertato e risolto, pur ove il successivo giudizio abbia finalità diverse da
quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo e ciò riguarda
anche i rapporti di durata (Cass. S.U. 16 giugno 2006, n. 13916; conf.
Cass. 4 dicembre 2006, n. 25681; Cass. 22 aprile 2009, n. 9512), come
quelli dedotti nell’odierna controversia.
Sempre in virtù di antica e costante giurisprudenza, in ordine ai
rapporti giuridici di durata e alle obbligazioni periodiche che ne
costituiscono il contenuto (come nel caso di specie), sui quali il giudice
pronuncia con accertamento su una fattispecie attuale, ma con
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rimuovere gli effetti del giudicato (né essa dispone espressamente la

conseguenze destinate ad esplicarsi anche in futuro, l’autorità del
giudicato impedisce il riesame e la deduzione di questioni tendenti ad
una nuova decisione di quelle già risolte con provvedimento definitivo.
Pertanto, quest’ultimo produce effetti anche nel tempo successivo
alla propria emanazione, con l’unico limite di fatti nuovi che

regolamento pattizio (cfr. Cass. 16 agosto 2004, n. 15931; Cass. n.
19426/2003; Cass. n. 16959/2003; Cass. n. 3230/2001; Cass. n.
15178/2000; Cass. n. 9548/1997).
Nel caso di specie non solo non vi è alcun fatto nuovo che abbia
modificato il contenuto materiale del rapporto o il relativo regolamento
pattizio (tale non essendo il summenzionato art. 1 co. 55 legge n.
243/04, che – proprio perché di mera interpretazione – non ha alcuna
attitudine innovativa), ma la retroattività di una norma di interpretazione
autentica incontra il limite del giudicato, limite connaturato
all’ordinamento in quanto posto a custodia di quel principio di
separazione dei poteri che costituisce cardine indefettibile di ogni
democrazia costituzionale.
Una diversa opzione ricostruttiva sarebbe costituzionalmente
impraticabile per lesione del principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.
(letto in chiave a quello di certezza del diritto), del principio di
separazione dei poteri (artt. 101 cpv. e 104 co. 1° Cost.) e dell’art. 117
Cost. attraverso la norma interposta dell’art. 1 prot. Protocollo
aggiuntivo n. 1 alla CEDU come interpretato dalla giurisprudenza della
Corte di Strasburgo, secondo la quale i diritti pensionistici costituiscono
un bene ai sensi, appunto, dell’art. 1 del Protocollo n. 1 aggiuntivo alla
Convenzione (si vedano, ad esempio, le sentenze della Corte EDU
Lakiéevie e altri c. Montenegro e Serbia; Gnidie c. Serbia; Pej’eié c.
Serbia; Stefanetti e altri c. Italia).
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modifichino il contenuto materiale del rapporto o il relativo

Sempre avuto riguardo alla sopravvenienza di una normativa
incidente sulla disciplina in base alla quale il giudicato si è formato, deve
considerarsi che il fondamento del giudicato sostanziale – che si realizza
quando la decisione, oltre ad essere passata formalmente in giudicato
(art. 324 cod. proc. civ.), incide sul diritto fatto valere (art. 2909 cod.

quello di rendere insensibili le situazioni di fatto dallo stesso considerate
(per le quali è stata individuata ed applicata la corrispondente regula juris)
ai successivi mutamenti della normativa di riferimento, anche con
riguardo allo jus superveniens che contenga norme retroattive.
Ne consegue, con riferimento ai limiti cronologici del giudicato
sostanziale, che la sopravvenienza di una legge interpretativa che
contraddica l’interpretazione recepita nella sentenza irrevocabile la rende
“erronea”, ma non ne compromette il valore, che è indipendente
dall’esattezza della statuizione con essa resa.
Infatti un giudicato – e ciò è dirimente – per quanto in ipotesi
“erroneo”, resta pur sempre giudicato, con tutta la propria capacità
espansiva nei successivi rapporti fra le medesime parti, nei limiti
oggettivi sopra ricordati.
Pertanto, sebbene l’intangibilità del giudicato riguardi solo quanto
sia stato oggetto del giudicato stesso, con esclusione di quanto non fosse
deducibile nel giudizio in cui esso si è formato, tale non deducibilità non
può ricollegarsi alla mera sopravvenienza di una norma che, senza
introdurre una nuova azione, si sia limitata ad interpretare
autenticamente una disposizione precedente (cfr, ex abis, Cass. n.
1583/2010; Cass. n. 18339/2003; Cass. n. 4630/2000; Cass. n.
12701/1995; Cass. n. 8797/1995).
Del resto, l’intangibilità del giudicato sostanziale non solo prevale
sullo jus superveniens e sulle norme di interpretazione autentica, ma
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civ.) e che risponde al generale principio della certezza del diritto – è

impedisce la caducazione, ab origine, delle norme su cui il giudicato si
fonda per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale delle
stesse, costituendo – appunto – il giudicato, al pari di altre situazioni
giuridiche consolidate in conseguenza di eventi che l’ordinamento
giuridico riconosca idonei a produrre tale effetto, uno dei limiti che

costituzionale (cfr., fra le numerose in tal senso, Cass. n. 4766/1999;
Cass. n. 7057/1997; Cass. n. 891/1996; Cass. n. 1860/1983; Cass. S.U.
n. 1707/1963).
L’applicazione di tali principi al caso in oggetto fa sì che la norma di
interpretazione autentica di cui all’art. 1, comma 55, legge n. 243/04, che
non contiene previsione alcuna di caducazione dei giudicati sostanziali
già formatisi, non è suscettibile di incidere, nel caso concreto, in
relazione alle situazioni giuridiche già oggetto di sentenza definitiva
passata in giudicato.
Né può ritenersi che tale norma di interpretazione autentica venga
ad incidere sugli effetti futuri del giudicato sostanziale, posto che, giusta
l’interpretazione resane dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., e

pltaibus, Cass. n. 16206/2009; Cass. n. 22700/2006), la stessa non
introduce una nuova disciplina della normativa di riferimento, destinata
ad esplicare la propria efficacia sui rapporti giuridici di durata a cui si
applica; conformemente alla propria natura interpretativa, essa individua
soltanto la corretta portata precettiva della normativa già esistente, la
stessa, cioè, sulla base della quale si è formato il giudicato sostanziale.
Ne consegue che quest’ultimo ha cristallizzato il maturato
pensionistico per il periodo considerato, che resta insensibile, anche nei
suoi effetti, alla successiva norma di interpretazione autentica contenuta
nel cit. art. 1 co. 55 legge n. 243/04 e che, pertanto, deve essere
riconosciuto nella sua entità (con le eventuali variazioni legate alla
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incontra l’efficacia retroattiva della decisione di illegittimità

dinamica perequativa legale, non essendo più applicabile quella
aziendale) anche per i ratei successivi.
Essendosi la sentenza impugnata conformata ai suindicati principi, il
motivo di ricorso non può trovare accoglimento.
4. Non è, poi, accoglibile la richiesta di correzione di errore

eventualmente contenuti nella sentenza di appello (de adus al posto degli
eredi ovvero errori nell’indicazione del nominativo e nell’attribuzione
della qualifica di contumace in luogo di quella di appellato), non sono
rimediabili in sede di legittimità, ma soltanto con il procedimento di
correzione ex artt. 287 e ss. cod. proc. civ. da attivarsi presso la Corte di
merito che ha emesso la sentenza (cfr. Cass. n. 28712 del 30 dicembre
2013; Cass. n. 9968 del 12 maggio 2005; Cass. n. 4677 dell’8 maggio
1998).
5. In definitiva il ricorso va rigettato.
7. Le spese a favore dei controricorrenti, liquidate come in
dispositivo, seguono la soccombenza, non dovendosi invece provvedere
per le parti rimaste intimate.
8. Il ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013)
di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (art. 1, comma 17
della legge 24 dicembre 2012, n. 228 del 2012), che ha integrato l’art. 13
del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, aggiungendovi il comma 1 quater del
seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta
integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che
l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione,
principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice dà atto nel
provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo

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materiale avanzata dalla ricorrente. Ed infatti gli errori materiali

precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito
dello stesso”.
Essendo il ricorso in questione integralmente da respingersi, deve
provvedersi in conformità.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in
favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio di
legittimità che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per
compensi professionali, oltre accessori di legge e rimborso forfetario in
misura del 15%; nulla spese per le parti rimaste intimate.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto
della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della
ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso Roma, nella Camera di consiglio, il 12 marzo 2015.

P.Q.M.

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