Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9977 del 08/05/2014


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Civile Sent. Sez. 3 Num. 9977 Anno 2014
Presidente: SEGRETO ANTONIO
Relatore: AMBROSIO ANNAMARIA

SENTENZA

sul ricorso 17974-2008 proposto da:
FORTE

DONATO

FRTDNT39S21E716X,

FORTE

MICHELE

ARCANGELO FRTMHL38E08E7161, FORTE VINCENZO
FRTVCN46A27E716Z, domicialiati ex lege in ROMA presso
la CANCELLERIA DELLA CORTE
I.

CASSAZIONE,

DI

rappresentati e difesi dall’avvocato FORTE PASQUALE

2014
603

giusta procura speciale del Dott. Notaio ANNA MARIA
LEMBO, in LUCERA il 10/2/2014, rep. n. 978;
– ricorrenti contro

FORTE

ANGIOLA

DIVINA

FRTNLD35C41E716S,

1

FORTE

Data pubblicazione: 08/05/2014

ARCANGIOLA

FRTRNG38C48E716L,

elettivamente

domiciliate in ROMA, VIA AURELIA 190, presso lo
studio dell’avvocato TESTA FELICE, che le rappresenta
e difende unitamente all’avvocato CONCETTA CINZIA
D’ANGELO giusta procura speciale a margine del

– controricorrenti

avverso la sentenza n. 1044/2007 della CORTE
D’APPELLO di BARI, SEZIONE AGRARIA, depositata il
07/02/2008, R.G.N. 1117/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 07/03/2014 dal Consigliere Dott.
ANNAMARIA AMBROSIO;
udito l’Avvocato PASQUALE FORTE;
udito l’Avvocato FELICE TESTA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. TOMMASO BASILE che ha concluso per il
rigetto del ricorso;

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controricorso;

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La presente controversia è stata incardinata nell’anno 1992
innanzi al Tribunale di Lucera sez. specializzata agraria dalle
sorelle Angiola Divina e Arcangiola Forte nei confronti dei
loro fratelli Michelangelo Arcangelo, Donato e Vincenzo Forte,

medesimo Tribunale di Lucera, confermata in appello, fosse
stato dichiarato risolto, per esercizio del diritto di ripresa,
il contratto di affitto tra essi intercorrente, avente ad
oggetto fondo di loro proprietà, sito in contrada “Torre Mazza”
in agro di Lucera- i tre fratelli si opponevano al rilascio del
fondo, avanzando pretese di migliorie e praticando, invece,
un’agricoltura “di rapina” e omettendo, altresì, di
corrispondere gli estagli.
Con sentenza in data 09.04.2003 l’adito Tribunale – in esito
ad una C.T.U. intesa a determinare l’ammontare dei canoni
mensili – dichiarava risolto il contratto di affitto per grave
inadempimento dei resistenti Michelangelo Arcangelo, Donato e
Vincenzo Forte e li condannava al pagamento della somma di C
2.801,54 oltre interessi a titolo di canoni di affitto non
corrisposti a partire dall’annata agraria 1986-1987 sino
all’annata agraria 1992-1993, nonché al pagamento della somma
di e 5.500,00 oltre accessori a titolo risarcimento danni alle
colture; dichiarava improcedibile l’ulteriore domanda attorea
di risarcimento danni per ritardato rilascio del fondo, nonché
quella riconvenzionale dei resistenti di pagamento di un
indennizzo per migliorie; condannava i resistenti al pagamento
delle spese processuali.

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assumendo che – sebbene con sentenza n. 41 del 1991 del

La decisione, gravata da impugnazione da parte delle
originarie ricorrenti, era parzialmente riformata dalla Corte
di appello di Bari, sez. specializzata agraria, la quale con
sentenza in data 07.02.2008, condannava in solido gli appellati
al pagamento in favore delle appellanti della ulteriore somma

1986-1987 al 1992-1993 oltre interessi, nonché a quella di C
39.450,00 oltre accessori a titolo risarcimento danni alle
colture; con condanna al pagamento delle ulteriori spese.
Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione
Michelangelo Arcangelo, Donato e Vincenzo Forte, svolgendo tre
motivi, illustrati anche da memoria.
Hanno resistito Angiola Divina e Arcangiola Forte,
depositando controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso, avuto riguardo alla data della pronuncia
della sentenza impugnata (successiva al 2 marzo 2006 e
antecedente al 4 luglio 2009), è soggetto alla disciplina di
cui agli artt. 360 cod. proc. civ. e segg. come risultanti per
effetto del cit. d.Lgs. n. 40 del 2006; si applica, in
particolare, l’art. 366 bis cod. proc. civ., stante l’univoca
volontà del legislatore di assicurarne ultra-attività (ex
multis,

cfr. Cass. 27 gennaio 2012, n. 1194), atteso che la

norma resta applicabile in virtù dell’art. 27, comma 2 del cit.
d. Lgs ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e
gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di
entrata in vigore del decreto, cioè dal 2 marzo 2006, senza che
rilevi la sua abrogazione, a far tempo dal 4 luglio 2009, ad

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di C 3.891,67 a titolo di canoni per le annate agrarie dal

opera della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma l, lettd), in forza della disciplina transitoria dell’art. 58 di
quest’ultima.
1.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia ai sensi
dell’art. 360 n.3 cod. proc. civ. violazione o falsa

all’applicabilità della pronunzia della Corte Cost. n. 318/2002
dichiarativa della illegittimità costituzionale degli artt. 9 e
62 della legge n. 203 del 1982.
1.1.1.

Il motivo riguarda il punto della decisione

impugnata, con il quale la Corte di appello – ritenendo erronee
le conclusioni cui era pervenuto il primo giudice in punto di
insensibilità della controversia alla declaratoria di
incostituzionalità degli artt. 9 e 62 della legge n. 203 del
1982 intervenuta in corso di causa – ha rideterminato la somma
dovuta per canoni insoluti, sulla base del criterio pattizio,
convertendo in moneta, avuto riguardo alle risultanze della
c.t.u., l’estaglio determinato con contratto del 28.09.1968. In
particolare la Corte territoriale ha osservato che, pur essendo
stato dichiarato risolto il contratto per l’esercizio del
diritto di ripresa, la circostanza pacificamente non precludeva
alle proprietarie (come avevano fatto) di agire per la
risoluzione per inadempimento dei conduttori morosi e di
conseguire la condanna al pagamento dei canoni non pagati oltre
alla restituzione del fondo e al risarcimento del danno; di
conseguenza doveva ritenersi che il rapporto non era ancora
esaurito e che, vertendo, peraltro, la controversia anche sul
pagamento del canone, il giudice era tenuto a verificare

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applicazione dei principi di diritto in merito

l’incidenza della ridetta dichiarazione di incostituzionalità,
facendo riferimento al criterio pattizio, ove rispondente come nella specie – all’equa sistemazione degli interessi delle
parti.
1.2. Il motivo – come è reso evidente dai quesiti conclusivi

l’operatività della dichiarazione di incostituzionalità,
trattandosi di rapporto definitivamente cessato nel 1993 con il
rilascio dell’immobile e dall’altro, si profila un
inammissibile mutamento del quantum nel corso del giudizio.
Il motivo, sotto il primo versante, è manifestamente
infondato, risultando, per il resto, affetto da inammissibile
genericità.
Valga innanzitutto considerare che

secondo principio

acquisito nella giurisprudenza di legittimità, cui la Corte di
appello ha prestato convinta adesione e dal quale il ricorso
non offre ragione di discostarsi – la retroattività delle
pronunce di illegittimità costituzionale riguarda
l’antigiuridicità delle norme investite, che risultano non più
applicabili, neanche ai rapporti pregressi, non ancora
“esauriti”. Invero le pronunce di accoglimento del giudice
delle leggi, dichiarative di illegittimità costituzionale,
eliminano la norma con effetto ex tunc,

con la conseguenza che

essa non è più applicabile, indipendentemente dalla circostanza
che la fattispecie sia sorta in epoca anteriore alla
pubblicazione della decisione, perché l’illegittimità
costituzionale ha per presupposto l’invalidità originaria della
legge sia essa di natura sostanziale, procedimentale o

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– pone un duplice ordine di questioni: da un lato, si contesta

processuale – per contrasto con un precetto costituzionale,
fermo restando il principio che gli effetti
dell’incostituzionalità non si estendono esclusivamente ai
rapporti ormai esauriti in modo definitivo, per avvenuta
formazione del giudicato o per essersi verificato altro evento

medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni
processuali, o decadenze e prescrizioni non direttamente
investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia
d’incostituzionalità (ex

multis:

Cass. 20 novembre 2012, n.

20381; Cass. 28 febbraio 2012, n. 2998).
Con più specifico riferimento al tema di cui trattasi è
stato precisato che possono, peraltro, legittimamente ritenersi
“esauriti” i soli rapporti rispetto ai quali si sia formato il
giudicato, ovvero sia decorso il termine prescrizionale o
decadenziale previsto dalla legge, e non anche quelli
scaturenti da contratti che, per scadenza o per qualsiasi altra
ragione, non siano più produttivi degli effetti loro propri,
con la conseguenza che, cessata l’efficacia di un contratto per
naturale scadenza del relativo termine, il rapporto da esso
(scaturito e) scaturente non può qualificarsi esaurito nei casi
in cui risulti attualmente pendente, in relazione ad esso, una
controversia giudiziaria (nella specie, relativa ad un
contratto di affitto agrario stipulato ai sensi della legge n.
203 del 1982, avente ad oggetto l’istanza di ripetizione di
somme che il conduttore assumeva di aver corrisposto in misura
maggiore rispetto a quella dei livelli massimi previsti dalle
tabelle contenute nella legge), di talchè l’eventuale pronuncia

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cui l’ordinamento collega il consolidamento del rapporto

della Corte costituzionale intervenuta nelle more del giudizio
(quale, nella specie, la sentenza n. 318 del 2002, dichiarativa
dell’illegittimità costituzionale degli artt. 9 e 62 della
citata legge n. 203 del 1982), anche in sede di giudizio di
cassazione, deve ritenersi del tutto legittimamente applicabile

della relativa sentenza (Cass. 28 luglio 2005, n. 15809, oltre
a Cass. 17 dicembre 2004, n. 23506 già cit. nella decisione
impugnata).
Nel caso all’esame, dunque, l’intervenuta risoluzione del
contratto per l’esercizio del diritto di ripresa e lo stesso
rilascio dell’immobile (avvenuto – come è pacifico – nel corso
del presente giudizio) non costituiscono fatti giuridici idonei
a valere come causa di esaurimento del rapporto, poiché, fin
quando il diritto al pagamento del canone non è prescritto,
ovvero non è coperto da giudicato negativo, il Giudice chiamato
a pronunciarsi sulla esistenza del medesimo deve tenere conto
della declaratoria di incostituzionalità di cui alla sentenza
n. 318 del 2002, perché, in caso diverso, si determinerebbe
l’applicazione di norme dichiarate illegittime.
1.3. D’altra parte neppure può dirsi che sia intervenuta una
preclusione processuale sul punto, atteso che – per quanto si
legge nella sentenza impugnata – la questione era stata
ampiamente dibattuta nel primo grado, essendo state le parti
espressamente invitate a interloquire sul metodo di
determinazione del canone a seguito della pronuncia della Corte
Costituzionale (v. pag. 11 sentenza impugnata); inoltre la
stessa questione era stata riproposta dalle odierne

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sino a quando non sia intervenuto il passaggio in giudicato

controricorrenti con i motivi di appello, per cui non era
coperta da giudicato.
Peraltro parte ricorrente – profilando in termini di
assoluta genericità una modificazione del

quantum

non

individua alcuno specifico momento preclusivo, né lascia

con riferimento ai criteri di cui alle disposizioni normative
poi dichiarate illegittime in corso di causa e non già con
riferimento al criterio pattizio di determinazione
dell’estaglio.
In definitiva il motivo va rigettato.
2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia ai sensi
dell’art.

360 n.3 cod.

proc.

civ.

violazione o falsa

applicazione degli artt. 1223-1226 e 1227 cod. civ., profilando
nel quesito conclusivo che i giudici di appello abbiano fatto
ricorso ad una c.t.u.

«carente e lacunosa»

supplendo una

carenza di prova, incombente sulla parte istante per il
risarcimento, in ordine al danno e al suo autore.
3. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia ai sensi
dell’art. 360 n.5 cod. proc. civ. omessa, insufficiente o
contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e
decisivo per il giudizio.
3.1. I due motivi attengono entrambi alla determinazione
quantitativa del danno alle culture e si risolvono in una
congerie di dati fattuali del tutto incontrollabili, come tali
in questa sede e, nella sostanza, esprimono un convincimento
contrario a quello del giudice del merito, così sollecitando un
inammissibile riesame del materiale probatorio e una soluzione

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intendere che la domanda fosse stata originariamente proposta

della controversia favorevole alla sua tesi; e ciò esula dal
sindacato di legittimità di cui all’art. 360 cod. proc. civ.,
il quale non consiste nella rivalutazione degli elementi di
merito, ma soltanto nel controllo del processo logico seguito
dal giudice in ordine all’esercizio del potere dovere di

rapporto in contestazione ed all’obbligo di munire la decisione
di un’adeguata e logica motivazione.
Tutto ciò si riflette nel quesito di diritto a corredo del
secondo motivo, il quale sollecita, all’evidenza,
un’inammissibile verifica in fatto delle pretese carenze e
lacune della c.t.u.; mentre la mancanza del “momento di
sintesi” a corredo del terzo motivo è, di per sé, ragione di
inammissibilità delle relative censure.
In conclusione il ricorso va rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in
dispositivo alla stregua dei parametri di cui al D.M. n. 140
del 2012, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al
rimborso delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in E
4.700,00 (di cui C 200,00 per esborsi) oltre accessori come per
legge.
Roma 7 marzo 2014

esaminare i fatti costitutivi, estintivi o modificativi del

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