Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9961 del 27/05/2020

Cassazione civile sez. II, 27/05/2020, (ud. 14/11/2019, dep. 27/05/2020), n.9961

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5539/2018 proposto da:

C.A., elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO VITTORIO

EMANUELE II 326, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO

SCOGNAMIGLIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

ELISABETTA PANZARINI;

– ricorrente –

contro

BANCA D’ITALIA, elettivamente domiciliata in ROMA, presso la propria

sede in VIA NAZIONALE 91, rappresentata e difesa dagli avvocati

MARCO MANCINI e DONATO MESSINEO dell’Avvocatura della Banca stessa;

– controricorrente –

avverso il provvedimento n. 37/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 05/07/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/11/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DE MARZO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato Claudio Scognamiglio, difensore del ricorrente, che

ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato Donato Messineo, difensore della resistente, che ha

chiesto il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza depositata il 5 luglio 2017 la Corte d’appello di Milano ha confermato il provvedimento emesso nei confronti di C.A., quale ex amministratore delegato di Prisma SGR s.p.a., in amministrazione straordinaria, ai sensi del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 195 (t.u.f.), salvo che per uno degli addebiti, con conseguente rideterminazione della sanzione.

2. Per quanto ancora rileva, la Corte territoriale ha osservato: a) che, sebbene plurimi argomenti convergano verso l’esigenza di riconsiderare l’orientamento di legittimità che reputa sufficiente, ai fini della completezza della contestazione, la puntuale indicazione dei fatti attribuiti, tuttavia, era opportuno adeguarsi alla giurisprudenza della Corte di Cassazione; b) che dal tenore letterale delle contestazioni, anche per effetto del riferimento a precise operazioni deliberate dal consiglio di amministrazione, era possibile individuare l’estensione temporale delle prime; c) che, contrariamente a quanto ritenuto dal C., la Banca d’Italia aveva assolto l’onere di contestazione dei fatti, con il massimo grado di specificità esigibile alla luce della loro particolare natura; d) che le critiche del ricorrente, quanto all’esistenza di circostanze attribuite col provvedimento sanzionatorio, ma non riconducibili alle irregolarità contestate e comunque non tempestivamente menzionate nella Nota, dovevano ritenersi generiche, in quanto non indicavano se e in quale misura esse avevano inciso sulla irrogazione della sanzione; e) che la motivazione del provvedimento impugnato dava conto delle specifiche responsabilità del C., alla luce del preminente ruolo da lui svolto nell’indirizzare la gestione aziendale e del suo contributo diretto in alcune delle operazioni contestate, con la conseguenza che il primo doveva rispondere anche dei fatti compiuti da soggetti subordinati al suo potere di controllo; f) che, indiscutibile la conoscenza, da parte del C., delle richieste avanzate dalla Banca d’Italia con la comunicazione del 14 novembre 2012, l’impugnante non aveva dimostrato, anche alla luce dei risultati economici della società, l’adeguatezza del piano di interventi adottato a seguito della prima verifica ispettiva; g) che il C. doveva rispondere anche con riguardo ai contratti di consulenza contestati, dal momento che essi, pur formalmente estranei ai suoi compiti, presentavano delle criticità, oggetto di precedenti rilievi della Banca d’Italia, che non avevano determinato alcun intervento; h) che, quanto al rilievo n. 5, il C. non aveva illustrato le ragioni giustificative della mancata approvazione, da parte del consiglio di amministrazione, delle operazioni in contropartita con i Fondi.

3. Avverso tale sentenza il C. ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, cui Banca d’Italia ha resistito con controricorso. E’ stata depositata memoria nell’interesse del C..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 25 Cost. e dell’art. 195 t.u.f.; nonchè, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza, rilevando che la Corte d’appello, dopo avere indicato una serie di considerazioni che avrebbero dovuto condurre ad accogliere il primo motivo di opposizione – quanto alla mancata, specifica indicazione delle norme asseritamente violate dal C. -, avevano mostrato di aderire all’orientamento di questa Corte, che esclude l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio per indeterminatezza delle norme violate, in presenza di una dettagliata indicazione delle circostanze fattuali e delle condotte addebitate, senza esplicitare le ragioni di tale decisione.

Aggiunge il ricorrente che il richiamo operato alla sentenza n. 31/2016 resa dalla medesima Corte doveva ritenersi inconferente, a meno di non ritenere una totale sovrapposizione dei due provvedimenti sanzionatori che avrebbe dovuto condurre ad un annullamento della sanzione applicata dalla Banca d’Italia, per violazione del ne bis in idem.

La doglianza è infondata.

Per intanto, si osserva che il tema prospettato dal ricorrente dinanzi alla Corte d’appello ha natura strettamente giuridica e che il giudice ben può affrontare siffatte questioni, come nella specie, attraverso il richiamo alla giurisprudenza di legittimità e ai propri precedenti, come si desume non solo dall’art. 118 disp. att. c.p.c., ma anche dalla puntualizzazione di cui all’art. 360-bis, n. 1 c.p.c..

Ora, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di ricorso per cassazione, qualora il ricorrente prospetti un difetto di motivazione che non riguarda un punto di fatto, bensì un’astratta questione di diritto, il giudice di legittimità, peraltro investito, a norma dell’art. 384 c.p.c., del potere di integrare e correggere la motivazione della sentenza impugnata, è chiamato a valutare se la soluzione adottata dal giudice del merito sia oggettivamente conforme alla legge, piuttosto che a sindacarne la motivazione, con la conseguenza che anche l’eventuale mancanza di questa deve ritenersi del tutto irrilevante, quando il giudice del merito sia, comunque, pervenuto ad una esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame (Cass. 28 maggio 2019, n. 14476).

Ciò posto, un primo punto da considerare è che le sanzioni delle quali si discute, irrogate ai sensi dell’art. 195 t.u.f., non hanno natura sostanzialmente penale, alla stregua dei criteri elaborati dalla giurisprudenza di Strasburgo (come, di recente, ribadito da Cass. 3 gennaio 2019, n. 4).

La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha, peraltro, chiarito (ad. es., con la sentenza del 04/03/2014, nel caso Grande Stevens c. Italia, par. 120 della motivazione) che le esigenze del processo equo sono più rigorose in materia penale, come confermato dal fatto che l’art. 6, par. 2 e 3, della Convenzione è appunto dedicato alle garanzie della persona accusata di un reato.

La sentenza Drassich c. Italia del giorno 11 dicembre 2007, come quella resa nel caso Pelissier c. Francia del 25 marzo 1999, menzionate dalla sentenza impugnata, al pari della successiva giurisprudenza convenzionale, hanno riguardo alla portata dell’art. 6, par. 3 della Convenzione, con riferimento al diritto dell’accusato di essere informato in maniera dettagliata del contenuto dell’accusa. Naturalmente, siffatta precisazione non esclude che l’equità del processo di cui al precedente par. 1 dell’art. 6 debba essere apprezzata sul piano della verifica dei modi attraverso i quali è garantito il diritto di difesa della parte coinvolta.

E, tuttavia, in questa prospettiva, che nel diritto interno trae alimento essenzialmente dall’art. 24 Cost., non vi è motivo di disattendere una valutazione funzionale che abbia riguardo, in relazione alla particolare tipologia del processo del quale si discute, alle concrete possibilità di comprendere la portata della pretesa sanzionatoria amministrativa, ossia di conseguire una effettiva conoscenza dei contorni fattuali dell’accusa e il pieno svolgersi del diritto di difesa.

E ciò non senza aggiungere che, nel quadro di tale valutazione, assume un ruolo fondamentale la difesa tecnica assicurata nel nostro ordinamento.

Persino nella materia penale la Corte di Strasburgo ha sottolineato il ruolo imprescindibile di tale funzione ai fini di comprendere l’oggetto del processo, sottolineando il ruolo del ricorso a consulenti illuminati (v., di recente, sentenza 14/04/2015, Contrada c. Italia, p. 79).

Va, in conclusione, ribadito, anche alla luce della evoluzione della giurisprudenza di Strasburgo, che non sussiste alcuna violazione del diritto di difesa quando sia riscontrabile, come nel caso in esame, la puntuale individuazione delle condotte irregolari riscontrate e l’indicazione, sia pure in termini generali, delle previsioni normative, primarie e secondarie, che si assumono violate (v., ad es. Cass. 14 dicembre 2015, n. 25141).

In tale contesto, non è in discussione la assoluta analiticità della descrizione in fatto delle condotte contestate, quali riportate dalla sentenza impugnata, che si accompagna non solo ad elementi fattuali, ma anche valutativi (a titolo puramente esemplificativo, il non avere introdotto elementi di discontinuità rispetto ai rilievi dell’organo di vigilanza contenuti nella lettera del 14 novembre 2012 o l’avere assunto scelte poco prudenti non sostenute da elementi oggettivi), idonei a consentire la piena comprensione del thema decidendum.

2. Con il secondo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 24 Cost. e dell’art. 195, comma 2, t.u.f.; nonchè, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti.

Il ricorrente osserva: a) che la Corte d’appello aveva ritenuto che le contestazioni si riferissero all’arco temporale compreso tra il 2013 e il primo trimestre 2014 e, più precisamente, al periodo successivo al giorno 11 febbraio 2013, quando il consiglio di amministrazione aveva attribuito nuovi poteri al C.; b) che la Corte territoriale aveva richiamato la citata sentenza n. 31 del 2016 della medesima Corte, in quanto decisione resa su “fatti largamente coincidenti”; c) che, in effetti, la stessa Banca d’Italia aveva chiarito, con riferimento agli accertamenti svolti nel periodo 23 gennaio 2014 – 11 aprile 2014, che le sanzioni si riferivano alla gestione dell’intermediario nell’ultimo biennio, talchè era evidente la sovrapposizione con i fatti di cui al primo provvedimento sanzionatorio, posti in essere tra il mese di luglio 2011 e fine agosto 2012.

La doglianza è inammissibile.

Dalla stessa riproduzione nel ricorso del motivo di censura prospettato dinanzi al giudice di merito emerge in modo palese che non è stata dedotta alcuna violazione del principio del ne bis in idem, in quanto la critica riguardava la mancata determinazione dell’arco temporale nel quale sarebbero state compiute le irregolarità.

Ma se anche volesse ritenersi che, in termini non perspicui, si sia inteso riproporre il medesimo rilievo appena indicato, si osserva che il ricorso omette di confrontarsi con l’apparato motivazionale della sentenza impugnata.

Quest’ultima non ha affatto recepito quella che invece definisce la generica indicazione difensiva della Banca d’Italia (ossia il riferimento all’ultimo biennio), ma, alla stregua del rinvio a “precise operazioni deliberate dal CdA”, ha individuato un arco temporale che va dal giorno 11 febbraio 2013 al primo trimestre 2014 (che, si osserva incidentalmente, non si sovrappone cronologicamente in alcun modo, alla stregua della stessa prospettazione del ricorso, alla precedente iniziativa sanzionatoria).

Secondo il ricorrente siffatto più ristretto arco temporale sarebbe stato individuato erroneamente dalla Corte d’appello.

Ma si tratta di mera asserzione priva di qualunque correlazione agli atti del processo, inidonea ad esprimere una censura riconducibile o ad una violazione di legge o al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

3. Con il terzo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 25 Cost., art. 190 e art. 195, comma 2, t.u.f.; nonchè del principio di personalità della responsabilità, per avere la Corte territoriale ritenuto generiche le contestazioni relative a nuove circostanze che gli erano state attribuite, per effetto di un progressivo aggiustamento di tiro, dal provvedimento sanzionatorio, dopo che l’Autorità aveva inizialmente avuto riguardo alla sua “generica responsabilità circa il buon andamento della Società”. In tale contesto, del tutto illegittima era poi la conclusione di porre a carico del C. l’onere di dimostrare l’incidenza sanzionatoria di tale ampliamento di contestazione.

La doglianza, oltre ad oscillare tra la critica della novità di alcune contestazioni e quella di attribuzione di fatti non riconducibili al C., è del tutto generica nella sua formulazione, in quanto neppure consente di comprendere di quali condotte si stia discutendo.

Ciò posto, in linea generale, si osserva che la puntualizzazione, condivisa dalla sentenza impugnata, secondo la quale le condotte addebitate al C. “non attengono a singoli, specifici atti, ma integrano valutazioni riguardanti azioni, omissioni e scelte gestionali dalle quali è stato desunto un quadro complessivo di inadeguatezza della gestione societaria e la valutazione delle problematiche” mira ad affrontare il tema della specificità esigibile della contestazione, che viene ricostruita in termini funzionali, ossia rispetto ai risultati che le singole azioni, omissioni o scelte gestionali hanno determinato.

Essa non significa affatto che la contestazione sia stata generica, come dimostra l’amplissimo elenco dei fatti riportati nella sentenza impugnata.

Ne discende che il ricorrente, nel momento in cui con la doglianza in esame, critica o l’attribuzione di condotte altrui o la novità dei fatti sanzionati rispetto a quelli contestati, ben avrebbe potuto e dovuto indicare nel ricorso con precisione le vicende alle quali intendeva riferirsi.

4. Con il quarto motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 25 Cost. e dell’art. 190 e art. 195, comma 2, t.u.f.; nonchè del principio di personalità della responsabilità, rilevando: a) che il richiamo alla precedente, già citata sentenza n. 31 del 2016 o era del tutto inconferente, alla luce delle diversità delle condotte oggetto dei due provvedimenti, o confermava l’illegittimità del secondo provvedimento per violazione del principio del ne bis in idem; b) che la Corte territoriale neppure aveva chiarito per quale ragione il C. dovesse rispondere dell’operato degli amministratori indipendenti e di quello del M., il quale, oltre a non essere un amministratore indipendente, non era neppure stato sanzionato; c) che quest’ultimo rilievo determinava una preclusione all’applicazione di sanzioni nei confronti del ricorrente.

La critica è infondata.

Il richiamo alla sentenza n. 31 del 2016, resa in relazione ad altre violazioni attribuite al C., non è effettuato dalla decisione impugnata con riguardo allo specifico apparato argomentativo avente ad oggetto le singole condotte, ma su un piano metodologico, per rinviare ai doveri di vigilanza e di controllo dell’organo gestorio, oltre che per sottolineare il personale coinvolgimento del C. in alcune operazioni.

Ne discende che non sussistono le lamentate violazioni di legge e che, in realtà, il ricorrente aspira, peraltro in termini di assoluta genericità, ad una rivisitazione delle risultanze istruttorie non consentita alla luce del chiaro tenore dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Quanto alla mancata irrogazione di una sanzione amministrativa in danno del direttore generale, deve solo rilevarsi che essa – per come dedotta e per il solo fatto di riguardare un soggetto diverso – non comporta alcuna preclusione.

Nè il ricorrente indugia ad illustrare le ragioni che, per effetto della concreta correlazione, oggettiva e soggettiva, con la posizione del C., renderebbero il fatto decisivo per il giudizio.

5. Con il quinto motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con riguardo al rigetto dei motivi di impugnazione dal sesto al decimo, in ragione del carattere assertivo e apodittico della motivazione utilizzata dalla Corte d’appello.

La doglianza è inammissibile, in quanto, attraverso il formale riferimento alla nullità della sentenza, aspira a introdurre un sindacato sulla motivazione della sentenza precluso dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

6. In conclusione il ricorso va rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 13, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 14 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2020

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