Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9957 del 26/04/2010

Cassazione civile sez. I, 26/04/2010, (ud. 11/02/2010, dep. 26/04/2010), n.9957

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente –

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere –

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere –

Dott. DI PALMA Salvatore – rel. Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.A. (C.F. (OMISSIS)), elettivamente

domiciliato in ROMA, VIALE DEL VIGNOLA 23, presso lo STUDIO

COMMERCIALE SELCON S.R.L., rappresentato e difeso dall’avvocato

BETTONI GIOVANNI MARIA, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI APPELLO DI TRENTO-SEZIONE

DISTACCATA DI BOLZANO, A.S.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 6/2009 della SEZ. DIST. DI BOLZANO – CORTE

D’APPELLO di TRENTO, depositata il 19/06/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza

dell’11/02/2010 dal Consigliere Dott. SALVATORE SALVAGO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Libertino Alberto che ha concluso per l’accoglimento del quarto

motivo di ricorso; assorbimento del resto.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale per i minorenni di Bolzano, con sentenza del 17 ottobre 2007 dichiarava lo stato di adottabilità della minore M. A., nata a (OMISSIS), disponendone l’affidamento al Servizio sociale, nonchè la sospensione dell’esercizio della potestà dei genitori M.A. e A.S., con cui sospendeva ogni contatto.

L’impugnazione di costoro è stata respinta dalla Corte di Appello di Trento, sez. distaccata di Bolzano, con sentenza 19 giugno 2009,la quale ha osservato: a) che entrambi i genitori erano risultati assolutamente inidonei ed inadeguati ad occuparsi della bambina sin dai suoi primi giorni di vita perfino per somministrarle l’alimentazione o i farmaci; tanto che era stato necessario ricoverarla presso la locale I.P.A.I.; b)che essi non avevano avuto significativi contatti con la figlia neppure successivamente,ed anzi l’ A. aveva rifiutato perfino gli incontri con i servizi sociali e si era resa irreperibile; c)che infine era fallito anche un tentativo di affidamento agli zii paterni anche per il comportamento del padre che si era disinteressato della minore;con riguardo al quale anche le relazioni successive del servizio sociale avevano posto in rilievo un quadro allarmante di inadeguatezza ad esercitare la funzione genitoriale ed escluso la possibilità di progetti certi ed affidabili di educazione della minore pur considerando la sua convivenza con P.A., anch’essa per le sue condizioni fisiche e psichiche inidonea a dare un contributo nell’accudimento della bambina.

Per la cassazione della sentenza il M. ha proposto ricorso per 4 motivi. Nè il P.G., nè le altre parti hanno spiegato difese.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il Procuratore Generale ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità del ricorso, perchè i motivi non si concludono con quesiti di diritto conformi alla disposizione dell’art. 366 bis cod. proc. civ.. L’eccezione è fondata relativamente ai primi tre motivi.

Essendo stato il ricorso proposto contro la sentenza della Corte di appello di Trento depositata il 25 giugno 2009, il M. era tenuto all’osservanza dell’art. 366 bis cod. proc. civ., introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6 il quale stabilisce che l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, con la formulazione di un quesito di diritto, mentre, nell’ipotesi prevista dal n. 5 del medesimo comma, il motivo deve enunciare, in modo sintetico ma completo, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.

Nella elaborazione dei canoni di redazione del quesito di diritto,le Sezioni Unite hanno ripetutamente affermato che i quesiti di diritto rispondono alla esigenza di soddisfare l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata, ed al tempo stesso, con più ampia valenza, dì enucleare, collaborando alla funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, il principio di diritto applicabile alla fattispecie;

sicchè gli stessi devono costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la medesima Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una “regula iuris” che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata.

Ciò vale a dire, da un lato che il quesito di diritto deve rappresentare il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale; e dall’altro che la Corte di legittimità deve poter comprendere dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare. E ciò anche nel caso in cui si denuncia la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. da parte del giudice di merito,ed allorchè l’inosservanza del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato sia riferibile ad un’erronea sussunzione o ricostruzione di un fatto processuale implicanti la violazione di tale regola: essendo necessario prospettare, pure in queste ipotesi, le corrette premesse giuridiche in punto di qualificazione del fatto (Cass. 4329/2009).

Consegue che, ove tale articolazione logico – giuridica manchi, il quesito si risolve in un’astratta petizione di principio, inidonea sia ad evidenziare il nesso tra la fattispecie ed il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia ad agevolare la successiva enunciazione di tale principio ad opera della Corte, in funzione nomofilattica; per cui esso non può consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo. Ed a maggior ragione risolversi in una tautologia o in un interrogativo circolare, che già presuppone la risposta ovvero la cui risposta non consenta di risolvere il caso “sub iudice” (Cass. 28536/2008); nè per converso nella generica richiesta rivolta alla Corte di stabilire se sia stata o meno violata una certa norma,essendo ciascuna di queste formulazioni del tutto inidonea ad assumere rilevanza ai fini della decisione del motivo e a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in relazione alla concreta controversia (Cass. 3519/2008).

Al lume di questi principi, il Collegio deve dichiarare inammissibile il secondo motivo del ricorso con cui si addebita alla decisione impugnata omessa,insufficiente e contraddittoria motivazione censurando ora la valutazione di fatti passati,ora il giudizio di inadeguatezza sulle capacità genitoriali di esso ricorrente,e soprattutto della propria compagna, ora riproponendo la propria idoneità ad occuparsi della figlia minore e ricordando le decisione di questa Corte secondo le quali la dichiarazione dello stato di adottabilità costituisce un’estrema ratio, rispetto alla quale è comunque da preferire il reinserimento del minori nell’ambito familiare: in quanto nessuna di queste doglianze è corredata dai prescritti quesiti di diritto di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ., obbligatori anche per le censure che attengono alla motivazione della sentenza impugnata; per le quali occorre comunque che il quesito si concreti in un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che circoscriva puntualmente i limiti di ciascuna censura, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità.

Egualmente inammissibili risultano i quesiti formulati a conclusione del primo e del terzo motivo,con i quali il M.. A) deducendo violazione della L. n. 184 del 1983, art. 1 censura la sentenza impugnata per aver confermato lo stato di adottabilità della figlia senza tener conto della vicinanza e dell’assiduità del padre alla stessa durante la sua permanenza presso gli zii,con la conseguente ricostituzione di un vincolo affettivo e del riconoscimento da parte della bimba della figura paterna; la sua volontà di riavere la figlia manifestata a più riprese e la sua idoneità confermata dalla perizia L., nonchè dalle relazioni del G.I.L. le quali imponevano di dare preferenza al reinserimento della minore nella famiglia paterna (1 motivo); B) deducendo violazione della L. n. 184 del 1983, art. 17 si duole che la Corte di appello,pur in presenza di significativi mutamenti della situazione della minore non abbia compiuto in grado di appello alcun accertamento e si sia limitata a riesaminare la decisione di primo grado dopo avere acquisito le relazioni dei servizi sociali: senza in particolare disporre perizia o altri accertamenti soprattutto sulla propria convivente e perciò adottando la sentenza senza tener conto degli obblighi istruttori imposti dalla norma (3 motivo); C) (quarto motivo). Ciò in quanto i quesiti con cui si denuncia la violazione di una norma si concretano nella mera elencazione in forma riassuntiva delle disposizioni di legge sostanziali e processuali che si assumono violate o disapplicate nonchè nella richiesta del tutto generica alla Corte di prendere atto della loro mancata osservanza: senza alcun riferimento all’impianto motivazionale della sentenza impugnata nè alle ragioni giuridiche per le quali ciascuna di queste disposizioni sarebbe stata erroneamente applicata. Per cui ciascun quesito si risolve in una tautologia che già presuppone la risposta,e senza che questa consenta di risolvere il caso “sub iudice”. Mentre per le parti in cui ciascuna censura si risolve in una contestazione della ricostruzione dei fatti e delle relative valutazioni ad esso ricorrente sfavorevoli da parte della decisione di appello,e quindi in una prospettazione di vizi della motivazione, difettano nuovamente i quesiti sulle varie questioni che si assumono illogicamente o contraddittoriamente risolte. Il quesito è invece conforme al disposto dell’art. 366 bis cod. proc. civ. con riguardo al quarto motivo con cui il ricorrente, deducendo violazione della L. 1983 del 1984, art. 8 e 10 eccepisce la nullità della sentenza impugnata e del procedimento di appello perchè concluso senza che la madre della minore A.S. avesse un difensore, posto che quello che l’aveva assistita aveva rinunciato al mandato con dichiarazione resa nell’udienza dell’1 aprile 2009 senza che fosse sostituito o che la Corte avesse nominato un difensore di ufficio come previsto dalla menzionata normativa.

La doglianza è tuttavia infondata: in punto di fatto perchè non tiene conto dell’accertamento compiuto dalla sentenza impugnata che, pur dopo la dichiarazione di rinuncia al mandato,il difensore dell’ A. ha continuato ad espletare il proprio mandato fino all’udienza del 13 maggio 2009 in cui la controversia è stata assunta in decisione (cfr. pag. 12 sent.). E non considera neppure la disposizione dell’art. 85 cod. proc. civ. per la quale la rinuncia della procura da parte del difensore (così come la revoca del mandato da parte del cliente) non fa perdere al procuratore rinunciante lo “ius postulandi” nè il diritto-dovere della rappresentanza legale del cliente per tutti gli atti del processo fino a quando non si sia provveduto alla sua sostituzione con altro procuratore e tale sostituzione non sia stata ufficialmente comunicata: in quanto in base alla menzionata norma, ciò che priva il procuratore della capacità di compiere o ricevere atti, non sono la revoca o la rinuncia di per se soli, bensì il fatto che alla revoca o alla rinuncia si accompagni la sostituzione del difensore (Cass. 7073/2004; 5410/2001; sez. un. 1103/1995). Per cui nella fattispecie deve escludersi che l’ A. sia rimasta priva del difensore pure nell’arco del procedimento di appello ricordato dal ricorrente.

Non va emessa pronuncia sulle spese processuali in quanto nessuno degli intimati ha spiegato difese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 11 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 26 aprile 2010

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