Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9951 del 15/04/2021

Cassazione civile sez. III, 15/04/2021, (ud. 09/12/2020, dep. 15/04/2021), n.9951

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Presidente –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 1135/2019 R.G. proposto da:

M.G., e F.L.M., rappresentati e difesi

dall’Avv. Stefano Caffio, con domicilio eletto presso il suo studio

in Roma, via Vittorio Emanuele II, n. 18;

– ricorrenti –

contro

S.R., rappresentata e difesa dall’Avv. Francesco Grillo,

con domicilio eletto in Roma, via Celimontana, n. 38;

– controricorrente –

e nei confronti di:

G.L.J.;

– intimata –

nonchè sul ricorso successivamente proposto da:

G.L.J., rappresentata e difesa dall’Avv. Daniele d’Elia,

con domicilio eletto in Roma, via Federico Confalonieri, n. 1,

presso lo studio dell’Avv. Carlo Cipriani;

– ricorrente –

contro

S.R., rappresentata e difesa dall’Avv. Francesco Grillo,

con domicilio eletto in Roma, via Celimontana, n. 38;

– controricorrente –

e nei confronti di:

M.G. e F.L.M.;

– intimati –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Lecce, sezione

distaccata di Taranto, n. 403/2018 depositata il 15 ottobre 2018;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 9 dicembre

2020 dal Dott. Consigliere Emilio Iannello.

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

1. S.R. convenne in giudizio davanti al Tribunale di Taranto, sezione distaccata di Manduria, M.G., F.L.M. e G.L.J. chiedendo accertarsi:

a) l’interposizione reale di persona in due contratti di compravendita con i quali, nell’anno 2002, il F. (interposto) si era reso acquirente di immobili e riconoscersi, conseguentemente, l’effettivo acquisto degli immobili medesimi da parte del M. (interponente);

b) l’inefficacia, nei propri confronti, ex art. 2901 c.c., dell’atto con il quale, in data 30/3/2005, sia il M. che il F. avevano trasferito a G.L.J. i beni di rispettiva proprietà, con ciò compromettendo la garanzia patrimoniale del credito da essa istante vantato nei confronti del M..

Con sentenza del 20/4/2016 l’adito tribunale dichiarò che i primi due contratti, quelli del 2002, erano (non fiduciari ma) relativamente simulati quanto all’indicazione del soggetto acquirente e che i trasferimenti immobiliari che ne erano posti ad oggetto erano effettivamente intervenuti in favore di M.G.; accertò, analogamente, il carattere non fiduciario ma piuttosto relativamente simulato, quanto all’indicazione del venditore, del successivo contratto del 2005, dichiarando che quella alienazione afferiva in realtà a beni di proprietà del M.; dichiarò, infine, inefficace tale ultima vendita ex art. 2901 c.c..

2. Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Lecce ha rigettato l’appello – proposto dal F., dal M. e, con separato atto, dalla G. – “avverso il capo della sentenza contenente condanna dei convenuti in solido al pagamento delle spese di lite del primo grado”; ha dichiarato “per il resto l’inammissibilità dell’appello”; ha quindi condannato gli appellanti in solido alla rifusione, in favore dell’appellata, delle spese del grado.

Questi, in sintesi, i passaggi principali dell’iter argomentativo:

– l’appello ha investito solo il passaggio della sentenza con il quale il tribunale aveva ritenuto provata la simulazione soggettiva parziale in relazione agli atti per cui è causa: ne consegue l’acquiescenza sui capi non espressamente impugnati, “cosicchè la pretesa impugnazione di tutta la sentenza… si configura inammissibile”;

– le censure proposte per contestare l’idoneità delle prove per testi a fondare la decisione e per contestare, altresì, la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 232 c.p.c. (in relazione alla mancata comparizione dei convenuti all’udienza fissata per il loro interrogatorio formale) sono inammissibili, atteso che l’accertamento della simulazione soggettiva parziale degli atti oggetto di causa trova comunque ulteriore fondamento “in una lunga serie di presunzioni, singolarmente e unitariamente considerate, non censurate dagli appellanti”;

– entrambe dette censure (sulla valutazione della prova per testi e sulla applicazione dell’art. 232 c.p.c.) sono comunque anche infondate, atteso che: nel verbale d’udienza del 14/06/2012 veniva attestata dal giudice l’assenza ingiustificata dei convenuti contumaci che erano stati chiamati a rendere l’ammesso interrogatorio formale; le prove per testi sono state correttamente ritenute attendibili dal primo giudice e idonee a suffragare la decisione;

– non vi erano i presupposti per la compensazione totale o parziale delle spese.

3. Avverso tale decisione propongono separati ricorsi, in ordine cronologico:

– M.G. e F.L.M., con sei mezzi;

– G.L.J., anch’essa con sei mezzi, pienamente

sovrapponibili a quelli del primo ricorso.

Ad entrambi resiste S.R., depositando controricorso.

La trattazione è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.

La controricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I due ricorsi, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., in quanto proposti avverso il medesimo provvedimento, vanno riuniti per essere trattati unitariamente.

Può comunque procedersi ad un esame congiunto di entrambi, per essere come detto esattamente identici i motivi che ne sono posti a fondamento.

2. Va preliminarmente disattesa l’eccezione opposta, in memoria, dalla controricorrente, di improcedibilità dei ricorsi poichè non accompagnati dal deposito di copia autentica della sentenza impugnata, quella depositata essendo la copia notificata dalla stessa controparte al solo fine di far decorrere il termine breve per impugnare.

L’eccezione evoca implicitamente il principio affermato da Cass. 09/11/2017, n. 26520, secondo cui “fintanto che il processo civile telematico non sarà attivato anche presso la Corte di cassazione, ai fini dell’osservanza dell’art. 369 c.p.c., il difensore del ricorrente, che ha l’onere di depositare la copia conforme all’originale del provvedimento impugnato, qualora non abbia disponibilità della copia con attestazione di conformità rilasciata dalla cancelleria, deve estrarre una copia analogica dall’originale digitale presente nel fascicolo informatico e attestare con propria sottoscrizione autografa la conformità dell’una all’altro, ai sensi del D.L. n. 179 del 2012, art. 16-bis, comma 9-bis, non soddisfacendo invece le condizioni di legge l’attestazione di conformità apposta direttamente sulla copia del provvedimento eventualmente notificato con modalità telematiche”.

La ricostruzione sistematica in quella occasione accolta dalla S.C. è stata però rifiutata da successive pronunce (v. Cass. 22/12/2017, n. 30765, secondo cui “ai fini del rispetto di quanto imposto, a pena d’improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, il difensore che propone ricorso per cassazione contro un provvedimento che gli è stato notificato con modalità telematiche, deve depositare nella cancelleria della Corte di cassa ione copia analogica, con attestazione di conformità ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 9, commi 1-bis e 1-ter, del messaggio di posta elettronica certificata ricevuto, nonchè della relazione di notifica e del provvedimento impugnato, allegati al messaggio. Non è necessario anche il deposito di copia autenticata del provvedimento impugnato estratta direttamente dal fascicolo informatico”) ed è rimasta sostanzialmente isolata.

Quella prima interpretazione risulta peraltro ormai superata dal principio affermato da Cass. Sez. U. n. 8312 del 25/03/2019, secondo cui “il deposito in cancelleria, nel termine di venti giorni dall’ultima notifica, di copia analogica della decisione impugnata predisposta in originale telematico e notificata a mezzo p.e.c. priva di attestazione di conformità del difensore della L. n. 53 del 1994, ex art. 9, commi 1-bis e 1-ter, oppure con attestazione priva di sottoscrizione autografa, non comporta l’applicazione della sanzione dell’improcedibilità ove l’unico controricorrente o uno dei controricorrenti (anche in caso di tardiva costituzione) depositi copia analogica della decisione stessa ritualmente autenticata ovvero non abbia disconosciuto la conformità della copia informale all’originale notificatogli del D.Lgs. n. 82 del 2005, ex art. 23, comma 2. Invece, per evitare di incorrere nella dichiarazione di improcedibilità, il ricorrente ha l’onere di depositare l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica sino all’udienza di discussione o all’adunanza in Camera di consiglio nell’ipotesi in cui l’unico destinatario della notificazione del ricorso rimanga soltanto intimato (oppure tali rimangano alcuni o anche uno solo tra i molteplici destinatari della notifica del ricorso) oppure comunque il/i controricorrente/i disconosca/no la conformità all’originale della copia analogica non autenticata della decisione tempestivamente depositata”.

Nel caso di specie il controricorso non contiene alcun disconoscimento della conformità all’originale della copia analogica della sentenza depositata; viene piuttosto e diversamente eccepito che il ricorrente, secondo quanto indicato in calce al ricorso, ha depositato solo copia autentica della sentenza e non già la copia notificata a mezzo p.e.c. con attestazione di conformità: eccezione in sè destituita di fondamento in fatto, risultando invece depositata – come appunto ammette anche la controricorrente nella successiva memoria – copia della sentenza notificata da controparte, con attestazione di conformità della sentenza medesima, della relata di notifica e del messaggio p.e.c. all’originale digitale oggetto di notifica telematica).

In tale contesto, le considerazioni svolte dalla controricorrente in memoria – quand’anche interpretabili come implicito disconoscimento della conformità della copia così prodotta all’originale digitale della sentenza contenuto nel fascicolo informativo – sarebbero in tal senso da considerare comunque tardive e inammissibili, essendosi l’effetto di sopravvenuta autenticazione della copia semplice depositata già prodottosi come conseguenza del suo mancato disconoscimento nel controricorso.

3. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., in relazione al primo dei sopra esposti passaggi argomentativi della sentenza d’appello.

3.1. Il motivo è inammissibile.

Premesso che, alla stregua di una doverosa lettura della parte dispositiva della sentenza alla luce della motivazione, l’affermazione censurata si risolve nella mera presa d’atto della mancata impugnazione di capi diversi da quelli afferenti all’accertamento del carattere relativamente simulato dei contratti in questione, le considerazioni svolte con il motivo in esame si appalesano del tutto astratte e incomprensibili e mancano totalmente di un effettivo contenuto critico, risolvendosi nella mera prolissa illustrazione dei requisiti di forma richiesti dall’art. 342 c.p.c., per l’appello e della loro interpretazione da parte della giurisprudenza di legittimità, senza che ne segua alcun aggancio alla questione processuale in concreto trattata, nè la spiegazione delle ragioni per cui dovrebbe ritenersi che, nella specie, quella disciplina sia rimasta inosservata o mal applicata dalla corte territoriale.

Varrà in proposito richiamare il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, ai sensi del quale, il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, siccome per denunciare un errore occorre identificarlo (e, quindi, fornirne la rappresentazione), l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito, considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4 (v. ex aliis Cass. Sez. U. 20/03/2017, n. 7074; Id. 05/08/2016, n. 16598; Id. 03/11/2016, n. 22226; Cass. 05/07/2019, n. 18066; 13/03/2009, n. 6184; 10/03/2006, n. 5244; 04/03/2005, n. 4741; 11/01/2005, n. 359).

4. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 1414 c.c., comma 2 e art. 1417 c.c., nonchè omesso esame circa un fatto decisivo della controversia che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Il motivo dichiaratamente investe la sentenza impugnata nella parte in cui, secondo i ricorrenti, ha ritenuto che la causa petendi sia rappresentata non da quella indicata dall’attrice nell’atto di citazione (ovvero l’interposizione reale di persona negli acquisti formalmente effettuati dal F.), ma dalla prospettazione di una intestazione solo formale dei beni, ovvero da un’ipotesi di simulazione parziale soggettiva.

L’illustrazione del motivo prosegue con: a) l’affermazione secondo cui “dalla lettura degli atti del processo di primo grado, appare evidente come non vi sia stata alcuna simulazione nella formazione degli atti pubblici di compravendita”; b) l’analisi del contenuto degli artt. 1414,1415 e 1417 c.c., secondo un registro puramente accademico (tale analisi occupa sette pagine e mezza del ricorso ed è per ampi stralci chiaramente tratta, alla strega di mero copia-incolla, da alcune pagine di un’opera di dottrina facilmente identificabile).

4.1. Il motivo è inammissibile sotto diversi profili.

4.1.1. Anzitutto perchè dichiaratamente è volto a contestare un’affermazione che non si rinviene nella sentenza d’appello: non è questa infatti, ma semmai quella di primo grado, ad aver “interpretato” la causa petendi della domanda svolta dalla creditrice come volta nella sostanza ad ottenere l’accertamento, nella specie, di una interposizione fittizia e non reale di persone; la sentenza d’appello si è limitata a prendere atto di tale qualificazione della domanda e ha poi giudicato inammissibili e comunque infondati i soli motivi di gravame che investivano l’affermazione, nel merito, della effettiva sussistenza di una siffatta ipotesi di interposizione.

4.1.2. Ove poi il motivo possa ritenersi diretto a censurare tale ultima statuizione della sentenza d’appello, esso andrebbe comunque dichiarato inammissibile; anzitutto perchè non coglie la prima ratio decidendi della sentenza (la quale risiede nella valutazione di inammissibilità del gravame perchè inidoneo a colpire tutti i fondamenti motivazionali della sentenza di primo grado) e, in secondo luogo, per le stesse ragioni per le quali si è detto inammissibile il primo motivo di ricorso.

Anche in tal caso, infatti, si è evidentemente al cospetto di un “non motivo” non essendo in alcun modo individuato l’error iuris in cui sarebbe incorsa la sentenza d’appello, nè tanto meno viene indicato il fatto storico decisivo e oggetto di discussione tra le parti la cui considerazione sarebbe stata omessa dal giudice d’appello.

5. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 1417 c.c., nonchè omesso esame circa un fatto decisivo della controversia che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Il motivo è inammissibile poichè investe chiaramente ed esclusivamente la motivazione della sentenza di primo grado (e segnatamente la valutazione, da parte del primo giudice, della valenza probatoria delle deposizioni dei testi Mo. e P.), sostanzialmente riproponendo i motivi di gravame che sul punto erano stati proposti al giudice d’appello e che questo ha ritenuto inammissibili, ma senza confrontarsi in alcun modo con la motivazione resa da quest’ultimo.

Anche in tal caso si è, dunque, in presenza di un “non motivo”.

6. Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 232 c.p.c., nonchè omesso esame circa un fatto decisivo della controversia che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Lamentano che erroneamente il giudice d’appello ha ritenuto corretta l’applicazione da parte del primo giudice dell’art. 232 c.p.c., assumendo che, nel giorno fissato per il suo interrogatorio formale, il convenuto M. doveva in realtà considerarsi presente in aula.

6.1. Anche tale motivo è inammissibile, sotto due profili.

6.1.1. Anzitutto perchè fa riferimento ad atti processuali (provvedimenti del primo giudice e verbali di udienza) dei quali è omessa la specifica indicazione – sia quanto al loro contenuto, sia quanto alla loro localizzazione nel fascicolo processuale – in palese violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

6.1.2. In secondo luogo perchè coglie una ratio decidendi che, in sentenza, è chiaramente indicata come accessoria e secondaria, non anche quella principale, rappresentata dal rilievo della aspecificità della doglianza perchè inidonea (quand’anche fondata) a privare di fondamento la decisione di primo grado, traendo questa autonoma e sufficiente giustificazione anche dalla considerazione, in sè non fatta segno di alcuna specifica censura, di varie altre prove presuntive.

7. Con il quinto motivo i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione dell’art. 2901 c.c., nonchè omesso esame circa un fatto decisivo della controversia che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Il motivo dichiaratamente investe la sentenza impugnata nella parte in cui è scritto (pag. 5) che “sotto il profilo della nozione di credito in relazione alla funzione essenziale di restituzione e conservazione della garanzia generica data dal patrimonio del debitore in favore dei creditori, sotto il profilo dell’eventus damni (……) e del consilium fraudis a prova dell’esistenza del quale il Tribunale ha indicato una lunga serie di prove presuntive concludendo per l’accoglimento dell’azione di simulazione della cessione del 30.3.2005 e per la declaratoria di revoca e di inefficacia del predetto atto nei confronti dell’attrice” (questo è quanto testualmente si legge a pag. 36 del ricorso principale e di quello incidentale).

La critica a tale parte della sentenza è poi dichiaratamente affidata a “tutte le deduzioni svolte nei motivi di ricorso che precedono, con particolare riferimento alla evidente inesistenza dei presupposti di cui all’art. 2901 c.c., che sono stati indirettamente ricavati dal Giudice i prime cure (e frettolosamente confermati dalla Corte di appello) sulla scorta di inesistenti riscontri testimoniali ed altrettanto infondate presunzioni” (anche questa è citazione testuale del ricorso).

7.1. Il motivo è inammissibile.

Anzitutto perchè è incomprensibile, anche solo sul piano sintattico.

La parte della sentenza che si dice impugnata non contiene alcuna statuizione del giudice d’appello ma solo riferisce il contenuto della sentenza di primo grado. La corte territoriale, anzi, ha espressamente evidenziato che per tale parte non era stato proposto alcuno specifico motivo di appello.

Ne discende a fortiori l’impossibilità di individuare in quanto successivamente dedotto, peraltro in termini evidentemente del tutto generici, alcuna pertinente ragione di critica.

8. Con il sesto motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., nonchè omesso esame circa un fatto decisivo della controversia che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Il motivo investe la statuizione sulle spese, deducendosene l’erroneità nella parte in cui ha gravato di esse anche G.L.J., anzichè disporre nei suoi confronti l’integrale compensazione.

8.1. Anche tale motivo si appalesa inammissibile, risolvendosi nella mera illustrazione del contenuto delle norme processuali in tema di regolamento delle spese processuali, ma senza indicare in alcun modo l’errore in cui sarebbe incorso il giudice d’appello nel farne applicazione nel caso concreto.

E’ appena il caso dunque di rilevare che, avuto riguardo all’esito del giudizio di appello, la statuizione si sottrae comunque ad ogni ipotetica censura.

Varrà in tal senso rammentare che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, in tema di regolamento delle spese processuali il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi (Cass. 11/01/2008, n. 406 e succ. conff.).

Nel caso di specie non è dubbio che l’esito finale del giudizio di appello segni una soccombenza piena anche della predetta odierna ricorrente; ciò certamente esclude, in base al suesposto principio, che possa avere ingresso nella presente sede la doglianza di mancata compensazione, neppure parziale, delle spese relative a tale grado del giudizio di merito.

9. Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere in definitiva dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna dei ricorrenti tutti al pagamento, nei confronti della controricorrente, delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

10. Le conclamate e manifeste ragioni di inammissibilità del ricorso giustificano la condanna dei ricorrenti principali e di quella incidentale, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 4 (applicabile nella fattispecie ratione temporis), al pagamento di una “somma equitativamente determinata” (come da dispositivo), in funzione sanzionatoria dell’abuso del processo (v. Corte Cost. n. 152 del 2016; Cass. Sez. U. 05/07/2017, n. 16601).

Non può a tal fine non attribuirsi rilievo alla prospettazione – peraltro attraverso una pletorica articolazione – di motivi del tutto generici e inconferenti, privi di alcun riferimento critico alla motivazione della sentenza impugnata.

Tutto ciò segna l’iniziativa processuale, nel suo complesso, quale frutto di colpa grave, così valutabile – come è stato detto – “in coerenza con il progressivo rafforzamento del ruolo di nomofilachia della Suprema Corte, nonchè con il mutato quadro ordinamentale, quale desumibile dai principi di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), di illiceità dell’abuso del processo e di necessità di una interpretazione delle norme processuali che non comporti spreco di energie giurisdizionali” (v. Cass. 14/10/2016, n. 20732; Cass. 21/07/2016, n. 15017; Cass. 22/02/2016, n. 3376; Cass. 7/10/2013, n. 22812).

11. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

dichiara inammissibili entrambi i ricorsi. Condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Condanna altresì i ricorrenti, tutti, in solido, al pagamento della somma di Euro 6.000 ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 4.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 9 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2021

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