Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9940 del 15/05/2015


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Civile Sent. Sez. 5 Num. 9940 Anno 2015
Presidente: PICCININNI CARLO
Relatore: VELLA PAOLA

SENTENZA

sul ricorso 11883-2008 proposto da:
MARCHISA GOMME SRL in persona dell’Amministratore e
legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliatck in ROMA PIAZZA GONDAR 22, presso lo
studio dell’avvocato MARIA ANTONELLI, che lq
rappresenta e difende giusta delega a margine;
– ricorrente contro
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro
tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DI CUNEO in
persona del Direttore pro tempore, elettivamente
domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

Data pubblicazione: 15/05/2015

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta

e difende;

resistenti con atto di costituzione

avverso la sentenza n. 4/2007 della COMM.TRIB.REG. di
TORINO, depositata il 05/04/2007;

udienza del 01/12/2014 dal Consigliere Dott. PAOLA
VELLA;

udito per il ricorrente l’Avvocato ARMELLA iStíde l ega
(

Avvocato ANTONELLI che ha chiesto l’accoglimento;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. TOMMASO BASILE che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

RITENUTO IN FATTO
A seguito di verifica fiscale effettuata presso la società Marchisia Gomme
s.r.l. tra il 29.5.2000 ed il 6.6.2002, e sulla base delle risultanze di un indagine
svolta dal Comando Compagnia della Guardia di Finanza di Susa a carico di altre
società analogamente operanti nel settore della commercializzazione di
pneumatici, l’Agenzia delle entrate di Cuneo emetteva due avvisi di
accertamento per gli anni di imposta 1999 e 2000, con i quali contestava a
carico della odierna ricorrente l’illegittima cessione di pneumatici in regime di

scorta di inveritiere dichiarazioni di intento attestanti lo status di esportatore
abituale delle società cessionarie, con conseguente recupero a tassazione dell’Iva
ed irrogazione di sanzioni amministrative per la somma complessiva di C
12.894.379,69.
La contribuente impugnava gli avvisi dinanzi alla Commissione Tributaria
Provinciale di Cuneo, per ragioni sia di legittimità (nullità della notifica,
violazione dell’art. 12, comma 5, Statuto dei diritti del contribuente) che di
merito (violazione degli artt. art. 8, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 633/72 e 7,
comma 3, D.Lgs. n. 471/97, duplicazione della pretesa impositiva, erronea
ricostruzione dei fatti, infondata presunzione di responsabilità per le dichiarazioni
d’intento rilasciate dalle cessionarie, mancanza di rilievo probatorio della
sentenza di patteggiamento emessa nei confronti dell’amministratore della
società) e, dopo il rigetto dei ricorsi previamente riuniti, riproponeva le
contestazioni dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale del Piemonte, che
con sentenza n. 4/33/07 rigettava l’appello, motivando articolatamente su tutte
le censure e concludendo che il recupero dell’Iva era stato effettuato in base alla
“circostanza inequivocabilmente provata che la ricorrente aveva emesso
sistematicamente fatture in esenzione di IVA nella piena e indiscussa
consapevolezza della falsità ideologica in ordine alla dichiarazione di intento
stessa artificiosamente precostituita in uno con gli altri soggetti coinvolt4 nelle
fittizie transazioni commerciali”
Per la cassazione di tale sentenza, depositata il 5.4.2007 e non notificata, la
Marchisia Gomme s.r.l. ha proposto ricorso affidato a sette motivi.
L’intimata Agenzia delle entrate, pur dando atto di non essersi costituita con
tempestivo controricorso, ha depositato un improprio “atto di costituzione”,
finalizzato esclusivamente a preannunziare l’eventualità della propria
partecipazione all’udienza pubblica di discussione, eventualità poi non
realizzatasi.

ud. 1 dicembre 2014

n, 11883/08 R G.

sospensione di imposta ex art. 8, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 633/72, sulla

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo motivo di ricorso, la società Marchisia Gomme s.r.l. deduce la
«violazione dell’art. 12, quinto comma, I. n. 212 del 2000, in relazione all’art.
360, n. 3) c.p.c.», formulando il seguente quesito di diritto: «Voglia codesta
ecc.ma Corte di Cassazione chiarire se la violazione dell’art. 12, quinto comma, I.
212 del 2000, determini l’illegittimità dell’avviso di accertamento fondato sulla
verifica fiscale compiuta in violazione di tale disposizione».
1.1. Il motivo è infondato.

operatori presso l’azienda per l’espletamento della verifica oltre il termine
previsto dalla legge (art. 12, I. 27/7/2000 n. 212) non può determinare
l’illegittimità degli avvisi, non essendo prevista dalla predetta legge alcuna
sanzione per tale fatto; tanto più se si considera l’indubbia complessità delle
operazioni svolte falla Guardia di Finanza e degli accertamenti eseguiti anche
contemporaneamente presso altre imprese coinvolte negli asseriti illeciti, posti a
fondamento degli avvisi impugnati”.
1.3. Tale motivazione è conforme al consolidato orientamento di questa
Corte – al quale si intende dare continuità – per cui la violazione della L. 27 luglio
2000 n. 212, art. 12, comma 5 (il quale recita: “la permanenza degli operatori
(…), dovuta a verifiche presso la sede del contribuente, non può superare i
trenta giorni lavorativi, prorogabili per ulteriori trenta giorni nei casi di
particolare complessità dell’indagine individuati e motivati dal dirigente
dell’ufficio. Gli operatori possono ritornare nella sede del contribuente, decorso
tale periodo, per esaminare le osservazioni e le richieste eventualmente
presentate dal contribuente dopo la conclusione delle operazioni di verifica
ovvero, previo assenso motivato del dirigente dell’ufficio, per specifiche ragioni”)
non comporta la nullità dell’accertamento, né l’inutilizzabilità dei dati acquisiti trattandosi di effetti non previsti dall’ordinamento – potendo semmai il
contribuente formulare osservazioni e rilievi, ovvero rivolgersi al Garante del
Contribuente (Cass. n. 19338 del 2011).
1.4. Anche di recente si è sottolineato come sarebbe incongruo configurare
il termine in questione come perentorio – “tale da determinare la decadenza
dell’amministrazione finanziaria dal potere-dovere (costituzionalmente
consacrato) di accertare e far valere il debito del contribuente” – quando esso
stesso è in un secondo momento “derogabile con il mero consenso motivato del
dirigente interno” (Cass. n. 16323 del 2014). Al contrario, la sua natura
ordinatoria discende da una corretta interpretazione del dato normativo,
informata anche al principio di ragionevolezza, per cui non solo il termine di

ud. 1 dicembre 2014

n. 11883/08 RG.

1.2. Sul punto il giudice d’appello ha osservato che “la permanenza degli

permanenza degli operatori civili o militari dell’Amministrazione finanziaria
presso la sede del contribuente, ai fini di una verifica tributaria, non è dichiarato
perentorio da alcuna disposizione, ma nessuna norma stabilisce nemmeno la
nullità degli atti compiuti dopo il suo decorso, nè essa può ricavarsi dalla ratio
delle disposizioni in materia, apparendo sproporzionata la sanzione del venir
meno del potere accertativo fiscale a fronte del disagio arrecato al contribuente
dalla più lunga permanenza degli agenti dell’Amministrazione (conf. Cass. n.
17002 del 2012).

fissare il termine di trenta “giorni lavorativi” di permanenza presso la sede del
contribuente, si riferisce ai soli giorni di effettiva attività lavorativa svolta presso
tale sede – con esclusione dal computo di quelli impiegati per verifiche ed attività
eseguite in altri luoghi – in quanto si tratta di una disposizione diretta non già ad
accelerare le operazioni di accertamento, ma solo ad abbreviare l’accesso e la
permanenza degli agenti operanti nei luoghi del contribuente (Cass. n. 16323
del 2014, n. 3766 del 2013 e n. 23595 del 2011).
1.6. Sotto quest’ultimo profilo, va ulteriormente rilevato che la ricorrente si
limita ad indicare il momento iniziale e finale della verifica (dal 29 maggio 2000
al 6 giugno 2002), senza tuttavia precisare i giorni di effettiva permanenza degli
accertatori presso la sua sede, così precludendo alla Corte – cui non è consentito
accedere agli atti di causa – di conoscere i dati fattuali necessari ai fini della
enunciazione del principio di diritto (in termini, Cass. n. 14059 del 2012).
1.7. Sussiste invero un precedente specifico riguardante la contestazione
delle stesse violazioni alla società Marchisia Gomme s.r.l. (sulla base della
medesima verifica, ma riferite ai predenti anni di imposta 1997 e 1998), in cui
questa Corte ha espressamente dichiarato l’inammissibilità – per violazione del
principio di autosufficienza del ricorso – dell’identica censura al tempo proposta
dalla contribuente, proprio perché l’unico riferimento fattuale da essa fornito
consisteva nella “affermazione (priva di qualsivoglia ulteriore specificazione,
come dell’indicazione di elementi temporali tratti dalle verbalizzazioni delle
operazioni ispettive) secondo cui l’attività di verifica della Guardia di Finanza
presso la sua sede si sarebbe protratta per ben venticinque mesi”, affermazione
come tale inidonea, “per la sua genericità ed indeterminatezza temporale”, a
consentire il vaglio sul fondamento della doglianza, posto che “per la norma
assume rilevanza non la durata dell’attività di verifica (e, quindi, della sua
complessiva protrazione) ma unicamente la durata della permanenza (se dovuta
a verifiche) degli operatori civili o militari presso la sede del contribuente” (Cass.
sez. 5, 20/06/2008, n. 16819, sul ricorso iscritto al NRG 7063/06).

ud. 1 dicembre 2014

n. 11B83/08

1.5. Questa Corte ha altresì rilevato che la disposizione in esame, nel

2. Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta «Duplicazione della pretesa
impositiva. Violazione degli artt. 23 e 53 della Costituzione, in relazione all’art.
360, n. 5) c.p.c.», sulla scorta del seguente quesito di diritto: «chiarisca la Corte
se gli artt. 23 e 53 della Costituzione consentano un’azione di accertamento
dell’Iva promossa dall’Ufficio nei confronti di due soggetti diversi, alienante e
acquirente, in relazione all’art. 8, lett. c), d.p.r. 633 del 1972 e se l’art. 21,
settimo comma, 7, d.p.r. 633 del 1972, possa legittimare l’azione di
accertamento dell’imposta nei confronti di un soggetto che ha operato come

d.p.r. 633 del 1972».
2.1. Il motivo è infondato.
2.2. Anche in questo caso va richiamato il precedente specifico sopra
menzionato (Cass. n. 16819/2008), il quale, sul punto, risulta così massimato:
“L’avviso di accertamento per il recupero di IVA non versata, emesso nei
confronti di società che aveva effettuato cessioni di beni, non può essere
considerato illegittimo perchè analoga azione per il recupero del medesimo
tributo era stata avviata nei confronti del cessionario con emissione di avviso di
accertamento divenuto definitivo. Non sussiste, infatti, in tale ipotesi alcuna
violazione del divieto della cosiddetta doppia imposizione, fattispecie questa che
si verifica solo quando una medesima imposta gravi sullo stesso soggetto e non
quando l’ente impositore la richieda a persone diverse. In quest’ultimo caso,
individuato anche in sede giurisdizionale il soggetto effettivamente debitore,
l’estraneo maturerà il diritto a richiedere il rimborso di quanto eventualmente
versato. (Nella fattispecie, la S.C. ha ritenuto legittimo l’avviso di accertamento
per il recupero dell’IVA non versata, emesso nei confronti di una società
commerciale che aveva venduto pneumatici ad un soggetto che, emettendo falsa
dichiarazione di intenti ex art. 1, comma primo, lett. c), d.l. 29 dicembre 1983,
n. 746, si era dichiarato esportatore abituale e che per tale ragione era stato
raggiunto da precedente avviso di accertamento divenuto definitivo)”.
2.3. In effetti, la non sussumibilità di una cessione di beni nella fattispecie
legale di non imponibilità prevista dall’art. 8, d.P.R. n. 633 del 1972, per
mancanza dell’elemento tipico del modello legale – ossia la veritiera dichiarazione
d’intenti del cessionario di volere esportare la merce acquistata, quale
esportatore abituale – comporta che l’operazione commerciale posta in essere
non può considerarsi in regime di esenzione e che il cedente, consapevole di
siffatta falsità, è obbligato come d’ordinario, ai sensi dell’art. 17, d.P.R. n. 633
del 1972, a versare egli stesso l’imposta (conf. Cass. n. 6458 del 2010). Invero,
ai sensi del primo comma di detta norma (per cui “l’imposta è dovuta dai

udi 1 dicembre 2014

n. 11383/08 RG.

cedente a favore di un esportatore abituale, ai sensi dell’art. 8, secondo comma,

soggetti che effettuano le cessioni di beni e le prestazioni di servizi imponibili, i
quali devono versarla all’erario, cumulativamente per tutte le operazioni
effettuate e al netto della detrazione prevista nell’art. 19, nei modi e nei termini
stabiliti nel titolo secondo”), l’imposta sul valore aggiunto – attesa la sua
“neutralità”, per la possibilità di recupero riconosciuta all’operatore che la
corrisponde – è dovuta dai soggetti che effettuano le cessioni di beni e le
prestazioni di servizi imponibili, come nel caso di specie la MARCHISA Gomme
srl, che dunque invoca impropriamente la tutela costituzionale dell’art. 53 Cost.,

quindi, della relativa manifestazione di ricchezza sottoposta a tassazione.
2.4. Peraltro, il fenomeno patologico della doppia imposizione (distinto
dall’ipotesi della solidarietà tributaria, che lascia comunque immutata l’unicità
oggettiva del fatto impositivo e del correlato prelievo fiscale) presuppone una
duplicazione della stessa imposta (quindi della medesima obbligazione fiscale) a
carico di uno stesso soggetto, a differenza dell’ipotesi di erronea pretesa
dell’ente impositore di assoggettare alla medesima imposta soggetti diversi,
risolubile con l’individuazione (se necessario anche in sede giurisdizionale)
dell’unico soggetto effettivamente debitore, da cui consegue l’estraneità dell’altro
soggetto ed il sorgere, solo in capo a questi, del diritto al rimborso di quanto
eventualmente versato sine causa per una imposta da altri dovuta; tale diritto al
rimborso del soggetto passivamente non legittimato esclude inoltre la possibilità
di attribuire al pagamento del terzo qualsiasi effetto estintivo dell’obbligazione
gravante sull’effettivo soggetto d’imposta; a maggior ragione, va escluso ogni
effetto estintivo laddove la pretesa verso il terzo trovi la sua fonte in una causa
giuridica diversa da quella dell’imposizione a carico del vero soggetto d’imposta
(Cass. n. 16819/2008; cfr. Cass. n. 8965 del 2007 e n. 9247 del 1992).
3. Con il terzo mezzo viene analogamente dedotta la «Duplicazione della
pretesa impositiva. Violazione dell’art. 62, n. 6 c.p., in relazione all’art. 360, n.
5) c.p.c.», in base al seguente quesito di diritto: «chiarisca la Corte se, in
presenza dell’integrale risarcimento del danno erariale operato in sede penale, ai
sensi dell’art. 62, n. 6), sia legittima l’azione di recupero della medesima
imposta da parte dell’Agenzia delle entrate ovvero essa rappresenti un’illegittima
duplicazione della medesima pretesa impositiva».
3.1. Il motivo è inammissibile, per violazione del principio di autosufficienza
del ricorso.
3.2. In esso si fa invero generico riferimento al “procedimento penale
svoltosi nei confronti di diverse persone, tra cui anche il sig. Marchisa Gian
Franco, amministratore della società esponente”, nel corso del quale sarebbe

ud. 1 dicembre 2014

n. 11883/08 R

essendo essa la titolare dell’operazione economica delle “cessioni” contestate e,

stato “integralmente risarcito, ai sensi dell’art. 62, n. 6) c.p., il danno lamentato
dall’Agenzia delle entrate, costituitasi parte civile”, con altrettanto generico rinvio
ai relativi “atti … tutti prodotti nel giudizio di secondo grado”. Il motivo contiene
anche delle vaghe osservazioni (peraltro contestate nella sentenza impugnata)
circa l’ampia formula relativa alla “causale di versamento … utilizzata dall’Ufficio
tesoreria provinciale dello Stato” – “Entrate eventuali diverse concernenti il
Ministero dell’Economia e delle Finanze” – che asseritamente comprenderebbe “il
risarcimento a titolo di Iva”.

specifica individuazione dei corrispondenti documenti, asseritamente prodotti,
impediscono a questa Corte di valutare il merito della censura, in ordine al quale
il giudice d’appello ha rilevato, tra l’altro, che in sede di patteggiamento il
Pubblico ministero prestò assenso all’applicazione della pena concordata “nella
convinzione che il risarcimento effettuato dagli imputati non pregiudica eventuale
azione di recupero da parte dell’erario”. E’ comunque evidente che il recupero
dell’imposta ed il risarcimento del danno integrano pretese di natura diversa,
esercitate nei confronti di soggetti diversi (la società contribuente in sede
tributaria e l’amministratore imputato in sede penale).
4. Il quarto motivo di ricorso riguarda la denunziata «violazione e falsa
applicazione degli artt. 8, secondo comma, d.p.r. 633 del 1972 e 7, terzo
comma, d.lgs. 471 del 1997, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3)
c.p.c.», in base al seguente quesito di diritto: «Chiarisca codesta ecc.ma Corte di
Cassazione se gli artt. 8, secondo comma, d.p.r. 633 del 1972 e 7, terzo comma,
d.lgs. 471 del 1997, consentono di configurare un’ipotesi di responsabilità del
cedente in ordine al pagamento dell’Iva, allorquando questi sia destinatario di
dichiarazioni d’intento».
5. Similmente il quinto mezzo denunzia la «violazione e falsa applicazione
dell’art. 8, lett. c), d.p.r. 633 del 1972, in relazione all’art. 360, n. 3) c.p.c.»,
sulla scorta del seguente quesito di diritto: «Chiarisca codesta ecc.ma Corte di
Cassazione se la fattispecie prevista dall’art. 8, lett. c), d.p.r. 633 del 1972,
implichi il trasporto della merce fuori dal territorio dello Stato e se l’assenza di
tale requisito possa essere considerato elemento presuntivo da cui desumere
l’illegittimità delle forniture a esportatori abituali».
5.1. I motivi, che in quanto connessi possono essere esaminati
congiuntamente, sono entrambi infondati.
5.2. Secondo una prima giurisprudenza di legittimità, la non imponibilità
delle cessioni all’esportazione fatte nei confronti di esportatori abituali, ex art. 8,
comma 1, lett. c), d.P.R. n. 633/72 (c.d. esportazioni indirette), sarebbe

ud, 1 d cembre 2014

n. 11883/03 R.C.

3.3. La mancata trascrizione in ricorso degli atti implicati e la mancanza di

subordinata solo all’emissione di specifica “dichiarazione d’intento” da parte
dell’esportatore (ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. c), D.L. n. 746 del 1983)
circa la destinazione del bene fuori del territorio comunitario ed il possesso dei
requisiti soggettivi e oggettivi previsti dalla norma, la cui eventuale falsità
comporterebbe la responsabilità, anche in sede penale, del solo dichiarante,
mentre il soggetto cedente, una volta riscontratane la conformità alle
disposizioni di legge, non sarebbe tenuto ad eseguire alcun altro controllo (Cass.
n. 28948 del 2008). Tuttavia, in un secondo momento è stato precisato che per

dichiarazione in questione esista e non sia ideologicamente falsa o, comunque,
egli non sia consapevole di tale falsità (Cass. n. 21956 del 2010).
5.3. Si è così ulteriormente chiarito che la non imponibilità delle cessioni di
beni asseritamente destinati all’esportazione viene meno qualora si accerti che i
beni non siano stati effettivamente esportati e che la dichiarazione d’intenti sia
ideologicamente falsa, nel qual caso l’obbligo del cedente di assolvere
successivamente l’IVA su tali beni può essere escluso solo nella misura in cui
risulti provato che egli abbia adottato tutte le misure ragionevoli in suo potere, al
fine di assicurarsi che la cessione effettuata non lo conducesse a partecipare alla
frode (Cass. n. 12751 del 2011 e n. 7389 del 2012; cfr. Corte giust., 27
settembre 2007, Teleos, punti 68 e 72).
5.4. Questo più rigoroso orientamento, informato alla salvaguardia dei
principi del diritto dell’Unione europea, si è progressivamente consolidato (Cass.
nn. 12961, 12962, 12963, 13293, 22178, 22179 e 22181 del 2013; nn. 9324 e
22430 del 2014), potendosi ormai ascrivere al diritto vivente il principio per cui
“nel caso di cessioni di beni asseritamente destinati all’esportazione, la non
imponibilità ai fini IVA – subordinata alla dichiarazione scritta di responsabilità
del cessionario circa la destinazione del bene fuori del territorio comunitario ed il
possesso dei requisiti oggettivi e soggettivi previsti dal d.P.R. 26 ottobre 1972,
n. 633, art. 8, primo comma, lett. c) – viene meno ove si accerti che i beni non
siano stati effettivamente esportati e che tale dichiarazione sia ideologicamente
falsa, nel qual caso il cedente è tenuto ad assolvere successivamente VIVA
sull’operazione, salvo provi l’assenza di un proprio coinvolgimento nell’attività
fraudolenta del cessionario o comunque di aver adottato tutte le misure,
ragionevolmente in suo potere, per assicurarsi che la cessione effettuata non lo
conducesse a partecipare a quella frode” (Cass. nn. 176 e 4593 del 2015).
5.5. Si tratta in effetti di un principio conforme alla Sesta direttiva (art. 16)
ed alla giurisprudenza eurounitaria, che impone alle autorità e ai giudici nazionali
di negare benefici ed esenzioni se il soggetto passivo sapeva – o avrebbe dovuto

1 dicembre 2014

rL 11883/08

il soggetto cedente l’operazione può ritenersi non imponibile solo quando la

sapere – di partecipare, tramite le operazione invocate, a un’evasione
dell’imposta, a prescindere dall’eventuale rispetto delle condizioni formali
previste dalla normativa nazionale per il regime agevolato (v. Corte giust., 18
dicembre 2014, Italmoda). In altri termini, deve escludersi che la normativa
sulla dichiarazione d’intenti determini una sorta di deresponsabilizzazione del
cedente, il cui eventuale coinvolgimento nella frode posta in essere dal
cessionario deve essere perciò valutato dal giudice di merito secondo quei criteri
di normale diligenza che consentono la sussunzione dei fatti accertati nella

la falsa applicazione). A tal fine, ogni elemento può essere valorizzato, ivi
compresa (con riguardo allo specifico quesito contenuto nel quinto motivo) la
portata presuntiva del mancato trasporto della merce fuori dal territorio dello
Stato, il quale non esplica alcun rilievo solo nel caso in cui possa escludersi la
consapevolezza del cedente che l’operazione non sia in realtà destinata
all’esportazione (cfr. Cass. n. 22430 del 2014).
5.6. Non deve quindi fuorviare il disposto del D.L. n. 746 del 1983, art. 2,
comma 1, laddove prevede la responsabilità, per imposta e pena pecuniaria, di
colui che effettua cessioni all’esportazione in esenzione di imposta in mancanza
della suddetta dichiarazione, aggiungendo che “qualora sia stata rilasciata la
dichiarazione, dell’omesso pagamento dell’imposta rispondono soltanto i
cessionari, i committenti e gli importatori che hanno rilasciato la dichiarazione
stessa”. Questa Corte ha infatti chiarito che, ai fini dell’applicabilità della prima
parte della disposizione, la condotta di colui che operi senza assolvere l’imposta
in base ad una dichiarazione falsa, con la consapevolezza della falsità, è dei tutto
equivalente a quella di chi sia del tutto privo della dichiarazione, salva la
concorrente responsabilità del cessionario, committente o importatore che ha
rilasciato la falsa dichiarazione (Cass. n. 20834 del 2005, n. 16819 del 2008, nn.
6458 e 21956 del 2010, n. 22430 del 2014).
6. La censura contenuta nel sesto motivo attiene alla «violazione dell’art. 54,
secondo comma, d.p.r. 633 del 1972, in relazione all’art. 360, primo comma, n.
3) c.p.c.», e si compendia nel seguente quesito di diritto: «Voglia codesta
ecc.ma Corte di Cassazione chiarire se l’art. 54, secondo comma, d.p.r. 633 del
1972, legittimi l’azione di rettifica della dichiarazione Iva al ricorrere di
presunzioni semplici, prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza».
7.

Il settimo motivo di ricorso riguarda infine la «violazione e falsa

applicazione dell’art. 445 comma 1-bis, c.p.p., in relazione all’art. 360, primo
comma, n. 3) c.p.c.», in base al seguente quesito di diritto: «Voglia codesta
ecc.ma Corte di Cassazione chiarire se l’art. 445 comma 1-bis, c.p.p., deve

ud, 1 dicembre 2014

portata precettiva della norma settoriale di cui si assume la violazione (o meglio,

ESENTE DA REGISTRAZIOM
AI SENSI DEL D.P.R. 26/411946
N. 131 TAB. ALL. 8. – N.3
essere inteso nel senso che la sentenza di applicazione della apiténiYaseiZte”
delle parti non ha efficacia nel giudizio tributario per quanto concerne la prova
della colpevolezza dell’imputato».
7.1. Gli ultimi due motivi, che in quanto connessi possono essere esaminati
congiuntamente, sono entrambi inammissibili.
7.2. Il primo di essi muove da un presupposto fattuale che non trova
riscontro negli atti processuali, segnatamente che la contestazione dell’Ufficio sia
stata mossa “sulla base di presunzioni semplici, ossia sull’assunto che, risultando

essere false anche le fatture che Marchisa Gomme emetteva per la vendita di
pneumatici a tali società”. In realtà, dalla lettura della motivazione della
sentenza d’appello (in particolare le pagine da 11 a 15) emerge chiaramente la
molteplicità e pregnanza degli elementi di prova in base ai quali i giudici
territoriali hanno concluso “che vi sia stata non solo la consapevolezza della
Società appellante di utilizzare false dichiarazioni d’intento, ma una vera e
propria preordinazione, un accordo tra amministratori delle società regolari e
amministratori delle società cartiere … con particolare riferimento alle accertate
triangolazioni, alle modalità di trasporto delle merci, alle dichiarazioni degli
autotrasportatori” nonché – come “elemento di prova aggiuntivo ai precedenti” “la sentenza di patteggiamento”.
7.3. Quest’ultimo passaggio motivazionale rende ragione della anticipata
inammissibilità anche del settimo motivo, essendo evidente che la sentenza di
patteggiamento è stata menzionata dal giudice d’appello solo ad abundantiam,
rispetto ad ulteriori e specifici elementi di prova espressamente indicati. Peraltro,
la stessa formulazione del quesito è incongrua, in quanto fa riferimento alla
efficacia della “prova della colpevolezza dell’imputato” nel giudizio tributario,
quando in quest’ultimo si discute, in realtà, del diverso profilo della
consapevolezza della società cedente circa la falsità delle dichiarazioni d’intento
rese dalle società cessionarie.
8. In conclusione, il ricorso va respinto e, stante la mancata costituzione in
giudizio dell’intimata, le relative spese restano a carico del ricorrente, che le ha
anticipate.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Nulla sulle spese.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio dell’i dicembre 2014.

irregolari le dichiarazioni d’intento rilasciate dalle società acquirenti, dovevano

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