Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 992 del 16/01/2019

Cassazione civile sez. lav., 16/01/2019, (ud. 29/11/2018, dep. 16/01/2019), n.992

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19643-2013 proposto da:

M.R., (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA A.

MORDINI 14, presso lo studio dell’avvocato ANTONINO V.E. SPINOSO,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASSIMO

GRATTAROLA;

– ricorrente principale –

contro

AZIENDA SANITARIA LOCALE AL C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

ASIAGO 8, presso lo studio dell’avvocato SILVIA VILLANI,

rappresentata e difesa dagli avvocati CARLO CASTELLOTTI, ELIO GIANNI

GARIBALDI, MARIA DANIELA COGO;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

contro

M.R. (OMISSIS);

– ricorrente principale – controricorrente incidentale –

contro

AZIENDA SANITARIA LOCALE AL C.F. (OMISSIS);

– controricorrente – ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 166/2013 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 07/02/2013 R.G.N. 560/2012.

Fatto

RILEVATO

che la sentenza attualmente impugnata (depositata il 19 febbraio 2013), si pronuncia sull’appello principale della ASL AL e sul riunito appello incidentale di M.R. – la quale, in base a numerosissimi contratti di somministrazione a termine o di altre forme di contratti di lavoro flessibile reiterati per circa nove anni ha lavorato alle dipendenze della suddetta ASL, sempre per lo svolgimento di medesime mansioni – avverso la sentenza di primo grado del Tribunale di Alessandria. E, in parziale accoglimento dell’appello principale, respinto quello incidentale, esclude la condanna dell’Azienda Sanitaria al risarcimento del danno, per mancanza di allegazione e prova della sussistenza, in concreto, del danno stesso;

che la Corte d’appello di Torino, per quel che qui interessa, precisa quanto segue:

a) è da condividere l’iter argomentativo che ha portato il primo giudice a dichiarare la carenza di specificità delle ragioni poste a fondamento dei primi tre contratti di somministrazione a termine di cui si tratta, in applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 20 e 21 nonchè dell’art. 22 dello stesso D.Lgs. che, per le somministrazioni a tempo, richiama la disciplina del D.Lgs. n. 368 del 2001 “per quanto compatibile”;

b) da tale richiamo si desume l’applicazione del principio di specificità delle ragioni poste a base del contratto, che è da intendere in modo rigoroso in base alla giurisprudenza di legittimità;

c) nella specie le causali dei primi tre contratti sono assolutamente generiche – “esigenze di lavoro aggiuntivo” “integrazione turni” – nè si può superare tale genericità facendo ricorso agli atti amministrativi a monte della stipulazione dei contratti di somministrazione, visto che in questi atti non sono individuate le situazioni concrete;

d) d’altra parte, neppure può ricorrersi per relationem ad atti o documenti ove le suddette ragioni siano state esplicitate, visto che, nella specie, le relative spiegazioni sono state offerte solo in sede giurisdizionale;

e) quanto al danno derivante dall’illegittimità dei contratti a termine, va osservato che la lavoratrice nel ricorso introduttivo non ha proposto alcuna allegazione o deduzione probatoria sul punto e si è limitata a chiedere l’applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 27, con condanna della ASL al risarcimento del danno nella misura di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, senza alcun cenno alla natura e all’entità del danno da risarcire;

f) ebbene, in primo luogo, deve escludersi la correttezza della prospettazione scelta dalla difesa della lavoratrice, secondo cui il danno sarebbe da individuare nella mancata conversione del rapporto;

g) va aggiunto che il danno in parola non può essere configurato come danno punitivo o sanzionatorio, visto che questo istituto è estraneo al nostro ordinamento;

h) ne deriva che l’onere probatorio del danno in questione è regolato dalla disciplina generale del nostro ordinamento, nella specie non rispettata;

i) nell’appello incidentale la lavoratrice contesta il rigetto della domanda di trasformazione del rapporto, epilogo che è precluso dalla regola dell’accesso al lavoro pubblico mediante concorso come risulta dall’art. 97 Cost.;

l) la costante giurisprudenza della CGUE non richiede che venga prevista simile trasformazione, visto che rinviene nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 una disciplina sanzionatoria adeguata a prevenire e poi sanzionare responsabilizzando i dirigenti pubblici – l’utilizzo abusivo da parte della PA di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato;

che il ricorso di M.R. domanda la cassazione della sentenza per tre motivi; resiste, con controricorso, la ASL AL, che propone, a sua volta, ricorso incidentale per due motivi, cui la ricorrente principale replica con controricorso;

che entrambe le parti depositano anche memorie ex art. 380-bis.1 c.p.c.;

che nella propria memoria la ricorrente principale richiama la sopravvenuta sentenza delle Sezioni Unite n. 5072 del 2016 e chiede l’applicazione alla presente vicenda dei principi ivi affermati in materia di risarcimento del danno conseguente al ricorso abusivo ai contratti a termine nell’ambito del lavoro pubblico contrattualizzato.

Diritto

CONSIDERATO

che il ricorso principale è articolato in tre motivi;

che con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, del D.Lgs. n. 376 del 2003, art. 27 e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, contestandosi, con ampie argomentazioni, il rigetto della domanda di trasformazione dei contratti di somministrazione a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato;

che con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 e della L. n. 183 del 2010, art. 32, rilevandosi che l’attribuzione al lavoratore dell’onere probatorio spesso “diabolico” relativo al danno subito per effetto della illegittima reiterazione di contratti a termine alle dipendenze di Pubbliche Amministrazioni si pone in frontale contrasto con la normativa UE in materia;

che si aggiunge che, diversamente da quanto affermato dalla Corte d’appello, il nostro ordinamento prevede indennizzi e/o risarcimenti quantificati e dovuti a prescindere dalla prova del relativo danno, come accade, ad esempio, per l’art. 18 St.Lav. o anche per la L. n. 183 del 2010, art. 32;

che di tale ultima norma si chiede l’applicazione nella specie, sottolineandosi che la soluzione adottata dalla Corte d’appello si pone in contrasto con il consolidato orientamento della CGUE secondo cui, in caso di utilizzazione abusiva di contratti a termine, gli ordinamenti nazionali devono prevedere “misure concrete, proporzionate ed effettive” volte a contrastare il fenomeno;

che con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., sostenendosi che la Corte d’appello, anche escludendo l’applicabilità della L. n. 183 del 2010, art. 32, in ogni caso avrebbe dovuto liquidare il danno facendo ricorso alle nozioni di comune esperienza e alla prova per presunzioni;

che il ricorso incidentale è articolato in due motivi;

che con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione delle seguenti disposizioni: a) del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1; b) del comma 4 del Preambolo e delle clausole 2, 3 e 5 dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato; c) del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 22, comma 2;

che si censurano le affermazioni con le quali la Corte d’appello confermando, sul punto, la sentenza di primo grado – ha ritenuto, in applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, che i primi tre contratti di somministrazione a tempo determinato inter partes siano da considerare nulli per carenza di specificità delle relative ragioni giustificative;

che si sostiene, in particolare, che la disciplina dei contratti a termine non è applicabile a quelli di somministrazione, come più volte affermato dalla CGUE (vedi: sentenza 11 aprile 2013, C-290/12) e che il principio di specificità delle ragioni rientra tra gli elementi la cui estensione ai contratti di somministrazione a termine non sarebbe “compatibile” con la relativa disciplina;

che con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione di numerose norme legislative nonchè dell’art. 43 del CCNL 24 luglio 2008, per i lavoratori in somministrazione delle A.P.I.;

che, premesso che il primo motivo del ricorso incidentale – basato sulla inapplicabilità del D.Lgs. n. 368 del 2001 – è assorbente, comunque si ribadisce che anche dal D.Lgs. n. 276 del 2003 e dal D.Lgs.n. 165 del 2001, art. 36 si desume che, diversamente da quanto affermato dalla Corte d’appello, le ragioni poste a base dei contratti di somministrazione a termine de quibus non dovevano essere dettagliatamente specificate;

che si sostiene che la Corte d’appello, con le contestate statuizioni, avrebbe censurato, nel merito, le scelte aziendali;

che l’esame dei motivi di censura porta al rigetto del primo motivo del ricorso principale, all’accoglimento del secondo motivo dello stesso ricorso, con assorbimento del terzo nonchè al rigetto del primo motivo del ricorso incidentale e alla dichiarazione di inammissibilità del secondo motivo del medesimo ricorso;

che al rigetto del primo motivo del ricorso principale si perviene ricordando che, come risulta confermato dal costante orientamento della Corte costituzionale e di questa Corte, la normativa del lavoro a tempo determinato alle dipendenze di enti pubblici non economici nel contesto del lavoro pubblico contrattualizzato, pur articolata in varie disposizioni mutate nel tempo, si è mossa costantemente lungo una direttrice di fondo segnata dall’esigenza costituzionale di conformità al canone espresso dall’art. 97 Cost., u.c., che prescrive che agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge, canone questo che costituisce proiezione del principio di eguaglianza in quanto consente a tutti, secondo capacità e merito, di accedere all’impiego pubblico dopo una valutazione per il tramite di una procedura di concorso, ma all’opposto non consente l’accesso in modo stabile al lavoro pubblico per altra via, tanto più se segnata da illegalità (vedi, per tutte: Cass. SU 15 marzo 2016, n. 5072);

che, pertanto, il suddetto principio, che differenzia il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni rispetto a lavoro privato – pur in un quadro di tendenziale unitarietà quale si ricava dal D.Lgs. n. 368 del 2001, applicabile anche alle pubbliche amministrazioni “per quanto compatibile” – per i contratti a tempo determinato, anche se protrattisi in modo abusivo, esclude, per il lavoro pubblico la possibilità di convertire il rapporto a tempo indeterminato se l’assunzione non è avvenuta con una procedura concorsuale, diversamente da quel che accade nel lavoro privato;

che si tratta di un effetto derivante dal citato art. 97 Cost. e contemplato anche dalla legislazione in materia;

che, infatti, fin dal D.Lgs. 29 marzo 1993, n. 29, art. 36 (nel testo modificato dal D.Lgs. 23 dicembre 1993, n. 546) è stato stabilito che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori ad opera delle pubbliche amministrazioni non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni e tale divieto è stato ribadito del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36, che pur essendo stato più volte modificato, è rimasto invariato con riguardo a due aspetti che sono fondamentali per il presente giudizio: da una parte il suddetto divieto e d’altra parte il riconoscimento al lavoratore interessato del diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative;

che, come afferma anche la Corte d’appello, la costante giurisprudenza della CGUE non richiede che venga prevista negli ordinamenti nazionali la ricostituzione del rapporto alle dipendenze delle PA che abbia avuto origine da un utilizzo illegittimo o abusivo di un contratto di lavoro flessibile non originato da una procedura concorsuale (vedi: sentenze del 4 luglio 2006, Adeneler e a., C-212/04; del 7 settembre 2006, M. e S., C-53/04; Vassallo, C-180/04, e del 23 aprile 2009, Angelidaki e a., C-378/07; nonchè ordinanze del 12 giugno 2008, Vassilakis e a., C-364/07; del 24 aprile 2009, Koukou, C-519/08; del 23 novembre 2009, Lagoudakis e a., da C-162/08, e del 1 ottobre 2010, Affatato, C-3/10);

che la stessa Corte rinviene nel citato D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 una disciplina adeguata a prevenire e poi sanzionare le situazioni illegittime e il suddetto divieto di trasformazione ha superato il vaglio anche della Corte costituzionale (vedi, per tutte: sentenze n. 89 del 2003 e n. 267 del 2013);

che al suddetto divieto consegue il rigetto del primo motivo del ricorso principale, essendo pacifico che, nella specie, l’assunzione della ricorrente non ha avuto origine in una procedura concorsuale;

che per quel che riguarda il secondo motivo dello stesso ricorso va, innanzi tutto, ricordato che per consolidato e condiviso indirizzo di questa Corte, anche nella somministrazione a termine è necessario che le ragioni del ricorso alla somministrazione siano specificate nel contratto, visto che la normativa (D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 20-28, qui applicabili ratione temporis) prevede come “condizione di liceità” che il contratto sia stipulato soltanto in presenza di ragioni “di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo di cui al comma 3 dell’art. 20” e impone di indicarle per iscritto nel contratto stesso, a pena di nullità (art. 21, u.c.);

che, d’altra parte, il successivo art. 27, comma 3, sancisce che in sede giudiziale si deve effettuare l’accertamento della esistenza delle ragioni che consentono e giustificano la somministrazione di lavoro, anche se il controllo giudiziale non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano all’utilizzatore;

che, quindi, non può essere posto in dubbio che le suindicate ragioni devono essere precisate per iscritto nel contratto e devono essere indicate, in quella sede, con un grado di specificazione tale da consentire di verificare sia se rientrino nella tipologia di ragioni cui è legata la legittimità del contratto sia la loro effettività e quindi la relativa correlazione con la situazione lavorativa del dipendente;

che, pertanto, l’indicazione, delle ragioni non può essere tautologica, nè può essere generica, nè può risolversi in una parafrasi della norma, ma deve esplicitare il collegamento tra la previsione astratta e la situazione concreta (vedi, fra le tante: Cass. 17 ottobre 2018, n. 26018; Cass. 29 maggio 2018, n. 13417; Cass. 9 ottobre 2017, n. 23513; Cass. 26 ottobre 2015, n. 21768; Cass. 26 ottobre 2015, n. 21769; Cass. 27 ottobre 2015, n. 21916: Cass. 29 ottobre 2015, n. 22178; Cass. 8 maggio 2012, n. 6933; Cass. 15 luglio 2011, n. 15610);

che la mera astratta legittimità della causale indicata nel contratto di somministrazione non è sufficiente per rendere legittima l’apposizione di un termine al rapporto, dovendo anche sussistere, in concreto, la rispondenza tra la causale enunciata e la concreta assegnazione del lavoratore a mansioni ad essa confacenti (Cass. 9 settembre 2013, n. 20598; Cass. 1 agosto 2014, n. 17540);

che, quanto alle conseguenze dell’anzidetta nullità, nel lavoro privato si è affermato un fermo – qui condiviso, per quanto interessa – orientamento di questa Corte secondo cui in caso di violazione delle norme di legge sulla apposizione del termine al contratto di somministrazione è applicabile l’indennità prevista dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32 (nel significato chiarito dal comma 13 dell’art. 1 della legge 28 giugno 2012 n. 92), la quale trova applicazione a qualsiasi ipotesi di rapporto di lavoro flessibile originato da un termine illegittimo (vedi, fra le altre: Cass. 6 ottobre 2016, n. 20060; Cass. 29 maggio 2013, n. 13404; Cass. 17 gennaio 2013, n. 1148; Cass. 8 settembre 2014, n. 18861; Cass. 7 luglio 2015, n. 14033);

che tale orientamento è basato sul testo del citato art. 32 che richiama in senso ampio l’istituto del contratto di lavoro a tempo determinato, con formulazione unitaria, indistinta e generale, non associata all’indicazione di una normativa specifica di riferimento, nè al riferimento ad ulteriori elementi selettivi e che stabilisce che, per il lavoro privato, l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, “comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro”;

che, peraltro, il suddetto indirizzo non si pone in contrasto con la richiamata sentenza della Corte di Giustizia UE 11 aprile 2013, C-290/12, Della Rocca, ove è stato escluso che la direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato e l’accordo quadro medesimo allegato a tale direttiva, si applichino al rapporto di lavoro a tempo determinato tra un lavoratore interinale e un’agenzia di lavoro interinale e al rapporto di lavoro a tempo determinato tra tale lavoratore e un’impresa utilizzatrice – cioè alla somministrazione di lavoro a termine – che sono specificamente disciplinati dalla direttiva 2008/104/CE del 19 novembre 2008 relativa al lavoro tramite agenzia interinale (recepita in Italia con il D.Lgs. 2 marzo 2012, n. 24);

che, infatti, la Corte di giustizia è pervenuta alla suddetta conclusione ribadita dalla CGUE nella sentenza 3 luglio 2014, nelle cause riunite C-362/13, C-363/13 e C-407/13 (punto 33) – sul principale argomento secondo cui nel diritto UE e le due suddette fattispecie giuridiche sono regolate da fonti diverse;

che – come si evince dalla citata direttiva 2008/104/CE, la quale prevede solo i “requisiti minimi” di protezione dei “lavoratori tramite agenzia interinale (vedi art. 9, par. 2) – tale affermazione non esclude, con i dovuti adattamenti, l’applicabilità anche alla somministrazione: a) del principio più volte affermato dalla stessa Corte di giustizia in materia di contratti a termine, secondo cui, “i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro” (vedi Considerando 15 della direttiva 2008/104/CE) sicchè “il beneficio della stabilità del rapporto di lavoro è considerato un elemento assolutamente rilevante per la tutela dei lavoratori, laddove è solo in determinate circostanze che contratti di lavoro a tempo determinato possono soddisfare le esigenze sia dei datori di lavoro sia dei lavoratori” (sentenze Grande Sezione, 22 novembre 2005, Mangold, punto 64; Grande Sezione, luglio 2006, Adeneler e a., C- 212/04, punto 62; nonchè 8 marzo 2012, Huet, C-251/11, punto 35); b) dell’impegno UE per l’adozione di una politica comune, volta a coniugare occupazione e crescita e quindi, a “favorire, al tempo stesso, flessibilità e sicurezza occupazionale e a ridurre la segmentazione del mercato del lavoro, tenendo debito conto del ruolo delle parti sociali”(vedi: Considerando 8); c) del conseguente ulteriore indirizzo secondo cui l’effettiva attuazione della normativa UE in ambito nazionale deve contenere misure adeguate per prevenire e punire l’uso abusivo dei contratti di lavoro di breve durata, come specificamente prescrive l’art. 10, par. 2, della direttiva 2008/140/CE, ove si stabilisce che: “gli Stati membri determinano il regime delle sanzioni applicabili a violazioni delle disposizioni nazionali di attuazione della presente direttiva e adottano ogni misura necessaria a garantirne l’attuazione”, aggiungendo che”le sanzioni previste devono essere effettive, proporzionate e dissuasive” (vedi: Cass. 6 ottobre 2014, n. 21000; Cass. 8 ottobre 2014, n. 21235 e n. 21236);

che la direttiva 2008/104/CE non è autoapplicativa – al pari di quella sui contratti a termine 1999/70/CE – e vincola gli Stati membri soltanto al raggiungimento dell’obiettivo di uno standard uniforme di tutele del lavoratore lasciando agli Stati stessi la scelta della forma e dei mezzi e, peraltro, non è applicabile nella specie ratione temporis, visto che è stata trasposta nell’ordinamento nazionale con il D.Lgs. 2 marzo 2012, n. 24, quindi molto dopo la conclusione dei contratti di somministrazione a termine de quibus;

che, comunque – anche a volerne tenere conto nel presente giudizio, in via interpretativa in applicazione del generale canone ermeneutico sistematicamente applicato da questa Corte (vedi, tra le tante: Cass. SU 14 aprile 2011, n. 8486; Cass. SU 16 marzo 2009, n. 6316; Cass. 18 aprile 2014, n. 9082), secondo cui i giudici degli Stati UE sono obbligati ad interpretare il diritto nazionale, in conformità con il diritto UE, come interpretato dalla CGUE (in tal senso vedi, tra le molte, le sentenze della CGUE 5 ottobre 2004, C397/01- 403/01; 22 maggio 2003, C-462/99; 15 maggio 2003, C-160/01; 13 novembre 1990, C-106/89) – essa non impedisce l’applicabilità dell’art. 32, comma 5, cit. alla somministrazione a termine irregolare o abusiva, anche nell’ambito del lavoro pubblico contrattualizzato, come meglio si dirà più avanti;

che, peraltro, nella stessa sentenza C-290/12, Della Rocca, è stato precisato che l’inapplicabilità alla somministrazione a termine della direttiva 1999/70/CE dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP (ad essa allegato) non deve pregiudicare la tutela di cui un lavoratore interinale potrebbe, all’occorrenza, beneficiare “contro l’abusivo ricorso ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato” (punto 43);

che quanto si è detto porta ad escludere che la CGUE abbia fatto derivare tale inapplicabilità da una ritenuta “incompatibilità ontologica”, a tutti gli effetti, della disciplina della somministrazione a termine con quella di un ordinario contratto a tempo determinato, visto che per gli abusi si è fatto esplicito riferimento alla necessità di garantire la tutela del lavoratore e tale richiamo risulta confermato anche dalla successiva direttiva 2008/140/CE;

che, in definitiva, il suddetto orientamento di questa Corte segue la stessa impostazione della Corte di Giustizia UE, in quanto pur muovendo dalla non assimilazione fra le discipline del contratto a tempo determinato e della somministrazione a termine, nella rispettiva applicazione corretta, tuttavia al fine di garantire la tutela del lavoratore nell’ipotesi di illegittima e/o abusiva utilizzazione del contratto di somministrazione a termine ritiene applicabile l’art. 32, comma 5, cit. sulla base dell’interpretazione letterale della norma e in conformità con il generale principio del riconoscimento al lavoratore interessato del diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro – a termine – in violazione di disposizioni imperative;

che così come, in conformità con la impostazione della legislazione e della giurisprudenza UE, si è ritenuta applicabile la medesima disciplina nel lavoro privato e in quello pubblico – salva la regola di cui all’art. 97 Cost. – per l’ipotesi di illegittimo o abusivo ricorso al contratto a termine, sulla base del D.Lgs. n. 368 del 2001 (considerato di applicazione generale, pur nel rispetto delle descritte specificità del lavoro pubblico) nonchè, per le relative conseguenze, nel lavoro pubblico, al citato D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, al medesimo risultato deve pervenirsi per la somministrazione di lavoro a termine illegittima o abusiva;

che, infatti, il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, fin dalla sua prima versione, ha fatto espresso riferimento all’utilizzo illegittimo e/o abusivo da parte delle Pubbliche Amministrazioni di contratti di “lavoro flessibile”, che è un’espressione omnicomprensiva;

che, d’altra parte, anche nella normativa nazionale in materia di somministrazione a tempo determinato si afferma che il rapporto di lavoro tra somministratore e prestatore di lavoro è soggetto alla disciplina del rapporto di lavoro a termine (D.Lgs. n. 368 del 2001) “per quanto compatibile” (D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 22, comma 2, applicabile nella specie, ratione temporis);

che così come è pacificamente considerata “compatibile” con la peculiarità della normativa propria della somministrazione di lavoro (pubblico) a termine l’applicazione del regime sulla specificità delle ragioni poste a fondamento del contratto proprio degli ordinari contratti di lavoro a termine, alla medesima conclusione può pervenirsi per le misure sanzionatorie previste per l’illegittimo o abusivo utilizzo dei contratti a termine nel lavoro pubblico, essendovi anche in tal caso la suindicata “compatibilità”, ricavabile, in primo luogo, dalla consolidata giurisprudenza della CGUE che invoca per sanzionare gli abusi dei contratti a termine nel lavoro pubblico regime “misure energiche”, fortemente dissuasive (come richiesto dalla Corte di giustizia, a partire dalla sentenza 26 novembre 2014, C-22/13 ss., Mascolo), specialmente un sistema come il nostro che, in assenza di una procedura concorsuale, esclude la trasformazione del rapporto in rapporto a tempo indeterminato (Cass. SU n. 5072 del 2016 cit.), che, nella citata sentenza, le Sezioni Unite hanno altresì sottolineato che la CGUE ha affermato la compatibilità con tali principi dell’insieme delle misure sanzionatorie previste dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, che hanno il loro fulcro nel diritto al risarcimento del danno da riconoscere al lavoratore per la prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative, cui si aggiungono altre misure di contorno che fanno perno soprattutto sulla responsabilità, anche patrimoniale, del dirigente cui sia ascrivibile l’illegittimo ricorso a contratti di “lavoro flessibile”;

che tale danno, nel lavoro pubblico, non è configurabile come danno da mancata conversione del rapporto e quindi da perdita del posto di lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione pubblica per la quale si è lavorato, perchè al “posto stabile” non si può avere diritto senza aver superato il vaglio di un concorso pubblico;

che, escluso tale tipo di danno, le Sezioni Unite hanno sottolineato come l’abuso del ricorso a fattispecie contrattuali di “lavoro flessibile” – in genere essenzialmente in ipotesi di proroga, rinnovo o ripetuta reiterazione contra legem, può produrre per il lavoratore numerosi gli effetti pregiudizievoli che, come danno patrimoniale, possono variamente configurarsi e che, nell’ipotesi ordinaria, consistono nella perdita di chance risarcibile come danno patrimoniale nella misura in cui l’illegittimo (soprattutto se prolungato) impiego a termine abbia fatto perdere al lavoratore altre occasioni di lavoro stabile, anche se non può escludersi che una prolungata precarizzazione per anni possa aver inflitto al lavoratore un pregiudizio che va anche al di là della mera perdita di chance di un’occupazione migliore;

che, in ogni caso, l’onere probatorio di tale danno grava interamente sul lavoratore e pur potendo operare il regime delle presunzioni semplici (art. 2729 cod. civ.) indubbiamente il danno – una volta escluso che possa consistere nella perdita del posto di lavoro occupato a termine – può essere in concreto di difficile prova;

che, a tale ultimo riguardo, la CGUE, con ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, C-50/13, ha ritenuto non conforme al “principio di effettività” l’unica forma di tutela esistente nel nostro ordinamento per i lavoratori del settore pubblico assunti con contratto a durata determinata, rappresentata dal risarcimento del danno sofferto, in considerazione della impossibilità in concreto per un lavoratore del settore pubblico di fornire le prove richieste dal diritto nazionale, come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità dell’epoca, al fine di ottenere un siffatto risarcimento del danno, essendogli imposto di dimostrare, in particolare, la perdita di opportunità di lavoro e quella del conseguente lucro cessante;

che nella suindicata ordinanza la CGUE ha espresso il monito di dare maggiore consistenza ed effettività al danno risarcibile nell’ipotesi dell’abuso del ricorso al contratto a termine nel lavoro pubblico, attraverso un’agevolazione del relativo regime probatorio;

che le Sezioni Unite, nella citata sentenza, per tenere conto di tale monito, con un’operazione di integrazione in via interpretativa orientata dalla conformità eurounitaria, sono giunte alla conclusione di considerare la fattispecie di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, come omogenea, sistematicamente coerente e strettamente contigua all’ipotesi di illegittima apposizione del termine al contratto a tempo determinato nel settore pubblico perchè riguardante analoga situazione per il settore privato e prevedente la condanna del datore di lavoro al risarcimento del lavoratore costituito in “un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8” (in tal senso già Cass. 21 agosto 2013, n. 19371);

che, comportando l’applicazione della suddetta disposizione l’esonero per il lavoratore pubblico dalla prova del danno nella misura presuntiva ivi indicata (determinata tra un minimo ed un massimo), le Sezioni Unite hanno sottolineato come questa agevolazione probatoria, derivante dall’interpretazione sistematica orientata alla conformità con la normativa UE, rappresenta la misura dissuasiva ed il rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico, quale richiesta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia;

che nell’occasione è stato altresì precisato che la trasposizione di questo canone di “danno presunto” esprime pure una portata sanzionatoria della violazione della normativa comunitaria sì che il danno così determinato può qualificarsi come “danno comunitario” (così già Cass. 30 dicembre 2014, n. 27481 e 3 luglio 2015, n. 13655), nel senso che vale a colmare quel deficit di tutela, ritenuto sussistente dalla giurisprudenza della Corte di giustizia con riguardo alla disciplina dell’onere della prova a carico del lavoratore, la cui mancanza esporrebbe la norma interna (art. 36, comma 5, cit.), ove applicabile nella sua sola portata testuale, ad essere “in violazione della clausola 5 della direttiva e quindi ad innescare un dubbio di sua illegittimità costituzionale; essa quindi esaurisce l’esigenza di interpretazione adeguatrice”;

che, in sintesi, per effetto della suddetta pronuncia (seguita dalla costante giurisprudenza successiva):

a) il lavoratore pubblico – e non già il lavoratore privato – ha diritto a tutto il risarcimento del danno (come sopra identificato) e – per essere agevolato nella prova, perchè ciò deriva dall’interpretazione eurounitariamente orientata, richiesta dalla CGUE nell’ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, C-50/13 – ha, in primo luogo, diritto senza necessità di prova alcuna all’indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5, cit., essendo, in questa misura, sollevato dall’onere probatorio del danno;

b) peraltro, al lavoratore pubblico non è precluso di provare che le chances di lavoro che ha perso perchè impiegato in reiterati contratti a termine in violazione di legge si sono tradotti in un danno patrimoniale più elevato, salvo restando che, se l’assunzione non è avvenuta a seguito del superamento di una procedura concorsuale, in nessun caso il lavoratore pubblico può vantare un danno da mancata conversione del rapporto e quindi da “perdita del posto” di lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione pubblica;

c) il lavoratore privato, invece, non ha suddetta possibilità e questa restrizione è stata ritenuta costituzionalmente non illegittima (Corte cost. n. 303 del 2011, cit.), visto che egli ha comunque diritto alla conversione del rapporto di lavoro;

che, per quanto sin qui si è detto, i suindicati principi hanno il loro fulcro nella necessità di rafforzare la tutela del lavoratore pubblico precario rendendo meno difficile la prova del danno subito a causa dell’utilizzo illegittimo o abusivo da parte delle P.A. del contratto a termine;

che tale questione sia nell’ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, C-50/13 sia nella sentenza SU n. 5072 del 2016 è stata affrontata con specifico riguardo ai contratti a termine (e quindi alla direttiva 1999/70/CE e all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP) perchè quella era la fattispecie sub judice, ma è evidente che l’esigenza di fornire un’adeguata tutela (sostanziale e processuale) ai lavoratori dipendenti delle P.A. rispetto ad una “precarizzazione” protrattasi nel tempo al di fuori di ogni regola è un’esigenza di carattere generale che, sia per la nostra Costituzione sia per la normativa UE, non può che riguardare anche l’utilizzo illegittimo e/o abusivo da parte delle Pubbliche Amministrazioni della somministrazione di lavoro a termine così come di ogni altra forma di “lavoro flessibile” a termine;

che, del resto, in più punti nella citata sentenza delle Sezioni Unite si richiama proprio questa categoria generale, cui fa riferimento pure il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36;

che, peraltro, tale esigenza è contemplata specificamente pure dalla direttiva 2008/104/CE che – dopo aver richiamato nel Considerato n. 1 la Carta dei diritti fondamentali della UE e, in particolare, i diritti ivi previsti nell’art. 31 (Condizioni di lavoro giuste ed eque) in favore del lavoratore – stabilisce (vedi il combinato disposto dell’art. 4, comma 1, art. 5, comma 5, art. 6, comma 2, art. 9, comma 1, 10 della direttiva) che gli Stati membri, conformemente alla legislazione e/o le pratiche nazionali, “adottano” le misure necessarie per evitare gli abusi e, in particolare, per prevenire la stipulazione reiterata nel tempo di contratti di lavoro tramite agenzia interinale (i.e. di somministrazione di lavoro), finalizzata ad eludere le disposizioni della direttiva (art. 5, comma 5) e/o ad impedire la stipulazione di un contratto di lavoro o l’avvio di un rapporto di lavoro stabile tra l’impresa utilizzatrice e il lavoratore tramite agenzia interinale al termine della sua (prima) missione (art. 6, comma 2);

che si aggiunge che gli Stati stessi per le violazioni delle disposizioni nazionali di attuazione della direttiva devono prevedere sanzioni “effettive, proporzionate e dissuasive”;

che, inoltre, nel Considerando n. 12 della direttiva 2008/104/CE, si dice che essa “stabilisce un quadro normativo che tuteli i lavoratori tramite agenzia interinale che sia non discriminatorio, trasparente e proporzionato nel rispetto della diversità dei mercati del lavoro e delle relazioni industriali”;

che, d’altra parte, essendo i principi affermati dalla CGUE nella ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, C-50/13 relativi al regime dell’onere probatorio e quindi di per sè non collegati – ontologicamente – ad un tipo particolare di contratto di lavoro flessibile concluso in modo illegittimo o abusivo da una P.A., la mancata applicazione ad ogni tipo di rapporto di “lavoro flessibile” pubblico, caratterizzato da una illegittima o abusiva apposizione di un termine di durata, della soluzione adottata dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 5072 del 2016 al problema posto dall’indicata ordinanza C-50/13, verrebbe a collidere con il principio di razionalità-equità di cui all’art. 3 Cost., con la stessa direttiva 2008/104/CE e con i principi di equivalenza e di effettività elaborati dalla CGUE, dando luogo ad una ingiustificata discriminazione in danno di tutti i lavoratori pubblici illegittimamente “precarizzati” attraverso l’utilizzo di forme contrattuali diverse dal contratto a termine ordinario;

che, come si è detto, la costante giurisprudenza di questa Corte ha da tempo attribuito, nel lavoro privato, alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, portata applicativa di carattere generale per tutti i contratti aventi origine in un termine illegittimo;

che per effetto della suindicata sentenza n. 5072 del 2016 – basata sul fondamentale canone dell’interpretazione della disciplina nazionale Eurounitariamente orientata – (e della successiva conforme giurisprudenza), analoga portata è da attribuire alla norma nell’ambito del lavoro pubblico;

che, in questa ottica, al suddetto art. 32, comma 5, cit. si è fatto riferimento anche per l’ipotesi in cui la P.A. abbia stipulato, in assenza dei presupposti richiesti dalla legge per la reiterazione, successivi contratti formalmente qualificati di collaborazione coordinata e continuativa (ma che di fatto abbiano comportato l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato) e il lavoratore ne abbia allegato l’illegittimità anche sotto il profilo del carattere abusivo della reiterazione del termine (vedi: Cass. 9 maggio 2018, n. 10951; Cass. 19 novembre 2018, n. 29779);

che, per quanto si è detto, i principi affermati dalla citata sentenza delle Sezioni Unite n. 5072 del 2016 a maggior ragione devono trovare applicazione per il regime del risarcimento del danno da riconoscere al lavoratore pubblico in caso di illegittima e/o abusiva reiterazione nel tempo di contratti di somministrazione di lavoro a termine, visto che così come i principi affermati dalle Sezioni Unite trovano la loro base in una interpretazione eurounitariamente conforme della normativa nazionale la stessa operazione è anche alla base della qui affermata applicazione della soluzione ermeneutica adottata dalle Sezioni Unite ad ogni tipo di rapporto di “lavoro flessibile” pubblico, caratterizzato da una illegittima o abusiva apposizione di un termine di durata e quindi alla somministrazione di lavoro a termine di cui si tratta nel presente giudizio;

che, nella specie, la Corte d’appello – facendo corretta applicazione della normativa in materia di somministrazione di lavoro a termine nel lavoro pubblico come interpretata da questa Corte – ha rilevato la carenza di specificità delle ragioni poste a fondamento dei primi tre contratti di somministrazione a termine in oggetto e la loro conseguente nullità, senza per questo estendere il proprio sindacato alle scelte tecniche, organizzative e produttive dell’utilizzatore;

che, tuttavia, pur muovendo da tale esatta premessa, la Corte d’appello è pervenuta alla non condivisibile conclusione di escludere la condanna dell’Azienda Sanitaria al risarcimento del danno, per mancanza di allegazione e prova della sussistenza, in concreto, del danno patito dalla lavoratrice ed ha quindi escluso anche l’applicabilità dell’art. 32, comma 5, come richiesto dalla lavoratrice;

che, pertanto, il secondo motivo del ricorso principale deve essere accolto e ciò comporta l’assorbimento del terzo motivo;

che il primo motivo del ricorso incidentale è infondato in quanto tutte le censure con esso proposte muovono dal presupposto della non applicabilità alla somministrazione di lavoro a termine del principio della specificità delle ragioni che giustificano la conclusione del contratto, presupposto erroneo, per le ragioni già ampiamente esposte al riguardo;

che il secondo motivo del ricorso incidentale va dichiarato inammissibile;

che, infatti, tutte le censure con esso proposte si risolvono – nonostante il formale richiamo contenuto nell’intestazione a violazione di norme di legge nella denuncia di una errata o omessa valutazione da parte della Corte d’appello del materiale probatorio acquisito ai fini della ricostruzione dei fatti, al fine di ottenere una rivisitazione del merito della controversia non ammissibile in questa sede e oltretutto effettuata senza trascrivere nel ricorso, in violazione del principio di autosufficienza, il testo delle clausole contrattuali su cui si fondano le censure in esame e senza neppure specificare i motivi per i quali la Corte d’appello avrebbe censurato nel merito le scelte aziendali;

che la verifica della specificità o meno delle ragioni indicate nel contratto e della corrispondenza dell’impiego concreto del lavoratore alle ragioni indicate nel contratto, costituisce l’oggetto centrale del controllo in sede giudiziaria (peraltro previsto da, una norma specifica, il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 27, comma 3) e la relativa prova, con particolare riguardo alla effettività della causale posta a base dell’impiego del lavoratore temporaneo ricade sull’utilizzatore che intende avvalersene (Cass. 23 ottobre 2017, n. 25005);

che questo accertamento è di competenza del giudice del merito e non può essere oggetto di rivalutazione in sede di legittimità, ma solo di un’eventuale denuncia di vizio di motivazione nei ristretti limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., n. 5, attualmente vigente ed applicabile della specie ratione temporis, denuncia che manca nella specie.

Conclusioni:

che, in sintesi, il primo motivo del ricorso principale va respinto, il secondo motivo dello stesso ricorso deve essere accolto, con assorbimento del terzo motivo; il primo motivo del ricorso incidentale deve essere respinto mentre il secondo motivo di tale ricorso va dichiarato inammissibile;

che, in relazione al motivo accolto, la sentenza impugnata deve essere, cassata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Torino in diversa composizione, che si atterrà, nell’ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i principi su affermati e, quindi, anche al seguente:

“nel lavoro pubblico contrattualizzato, in conformità con il canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13) e con i principi enunciati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 5072 del 2016, ai fini del risarcimento del danno spettante al lavoratore nell’ipotesi di illegittima o abusiva reiterazione di contratti di somministrazione di lavoro a termine, deve farsi riferimento alla fattispecie di portata generale di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, da configurare come corrispondente ad un danno presunto, con valenza sanzionatoria qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, che non può comunque farsi derivare dalla “perdita del posto” (in assenza di una assunzione tramite concorso ex art. 97 Cost., u.c.). Ciò non dà luogo ad posizione di favore del dipendente pubblico rispetto al lavoratore privato, atteso che per il primo l’indennità forfetizzata agevola l’onere probatorio del danno subito pur rimanendo salva la possibilità di provare un danno maggiore mentre per il lavoratore privato essa funge da limite al danno risarcibile, ma questa restrizione è bilanciata dal diritto alla conversione del rapporto di lavoro, insussistente nel lavoro pubblico”.

PQM

La Corte rigetta il primo motivo del ricorso principale, accoglie il secondo motivo, assorbito il terzo motivo del medesimo ricorso. Rigetta il primo motivo del ricorso incidentale e dichiara inammissibile il secondo motivo dello stesso ricorso. Cassa la sentenza impugnata, in relazione alle censure accolte, e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione lavoro, il 29 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2019

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