Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9905 del 27/05/2020

Cassazione civile sez. trib., 27/05/2020, (ud. 13/01/2020, dep. 27/05/2020), n.9905

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – rel. Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 27194/2012 R.G. proposto da:

V.D., rappresentata e difesa, come da procura in calce

alla costituzione di nuovo difensore, dagli avv.ti Nicola Crispino,

Roberta Grondona e Roberto Pera, con domicilio eletto presso lo

Studio Rodl & Partner, in Roma, Piazza di Sant’Anastasia, n. 7;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, alla via Portoghesi, n. 12,

presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e

difende come per legge;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 90/02/12 della Commissione Tributaria

regionale della Lombardia depositata il 14 giugno 2012

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 13 gennaio 2020

dal Consigliere Dott.ssa Condello Pasqualina Anna Piera;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale, Dott.ssa Mastroberardino Paola, che ha concluso chiedendo

il rigetto del ricorso principale e l’accoglimento del ricorso

incidentale;

udito il difensore della parte ricorrente, avv. Roberta Grondona;

udito il difensore della parte resistente, avv. Francesco Meloncelli.

Fatto

FATTI DI CAUSA

L’Agenzia delle entrate, a seguito di invio di questionario, emetteva, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, due avvisi di accertamento nei confronti di V.D., con conseguente recupero a tassazione di maggior reddito imponibile di Euro 173.615,00 per l’anno d’imposta 2003 e di Euro 150.651,00 per l’anno d’imposta 2004, avendo rilevato la disponibilità di beni indici di una maggiore capacità contributiva (possesso di abitazione principale e di abitazione secondaria, possesso di autovettura) che non trovava giustificazione nei redditi dichiarati.

La contribuente proponeva distinti ricorsi avverso gli avvisi di accertamento, eccependo il difetto di motivazione D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 42, la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, commi 2 e 7, nonchè l’assenza di presupposti idonei a fondare la pretesa tributaria, in ragione delle prove contrarie offerte già in risposta al questionario.

La Commissione provinciale adita, previa riunione, rigettava i ricorsi con sentenza che veniva impugnata dalla contribuente dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, la quale accoglieva parzialmente il gravame, rideterminando i redditi imponibili.

I giudici d’appello, in particolare, ribadita la legittimità del “redditometro” quale valido strumento per determinare in via presuntiva il reddito del contribuente sulla base di determinati indici rivelatori di una maggiore capacità contributiva, disattendevano le doglianze sollevate dalla contribuente in ordine alla legittimità degli avvisi di accertamento e affermavano che erano tassabili i proventi derivanti dall’esercizio di attività di prostituzione, richiamando la sentenza di questa Corte n. 20528 del 2010, ed escludevano al contempo di poter prendere in considerazione i versamenti e i pagamenti effettuati dal convivente della contribuente, non potendo l’analisi reddituale del soggetto sottoposto ad accertamento estendersi a soggetti estranei al nucleo familiare.

Accoglievano, infine, parzialmente l’appello, procedendo, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 5, nella versione applicabile ratione temporis, alla rideterminazione dei redditi imponibili, che venivano rettificati nel minor importo di Euro 64.853,00 per l’anno 2003 e di Euro 30.130,00 per l’anno 2004.

Ricorre per la cassazione della suddetta decisione V.D., affidandosi a dieci motivi, ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso e propone ricorso incidentale, affidato ad un unico motivo.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. L’Agenzia delle entrate, in controricorso, ha preliminarmente dedotto che i motivi del ricorso principale sarebbero inammissibili “per mancato rispetto del principio dell’autosufficienza” e ciò sul rilievo che la contribuente “solo in minima parte riporta il contenuto degli atti e documenti dai quali risulterebbero le circostanze asseritamente idonee a provare l’insussistenza dei redditi recuperati a tassazione”, con la conseguenza che, al fine di valutare la fondatezza dei motivi, questa Corte dovrebbe esaminare direttamente i documenti richiamati, attività non consentita in sede di legittimità.

L’eccezione è infondata.

Al riguardo occorre considerare che la parte ricorrente non è tenuta, in ragione dell’indisponibilità del fascicolo di parte, che resta acquisito, del D.Lgs. n. 546 de 1992, ex art. 25, comma 2, al fascicolo d’ufficio del processo svoltosi davanti alla Commissione tributaria, ad un nuovo onere di produzione documentale (Cass. Sez. U, 3 novembre 2011, n. 22726), risultando a tal fine sufficiente la richiesta di trasmissione, ex art. 369 c.p.c., comma 3, del fascicolo alla segreteria dellàCommissione tributaria regionale; ciò, tuttavia, non esonera la parte dal diverso onere previsto, a pena d’inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., n. 6, che richiede “la specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda”, con l’indicazione dei dati necessari all’individuazione della loro collocazione quanto al momento della loro produzione nei gradi di merito (Cass. n. 22726 del 2011, cit.; Cass. 15 luglio 2015, n. 14784; Cass. 18 novembre 2015, n. 23575; Cass. 22 ottobre 2010, n. 21686).

Nel caso di specie, il ricorso, contrariamente a quanto affermato dall’Ufficio, contiene puntuali e specifici riferimenti al contenuto dei documenti in esso richiamati, di cui vengono riportati i dati utili ad individuare il momento processuale della loro produzione nei gradi del giudizio di merito e la loro collocazione e di cui vengono ritrascritte le parti più rilevanti ai fini della decisione, cosicchè deve ritenersi che la parte ricorrente abbia assolto l’onere sulla stessa gravante di fornire una chiara illustrazione degli atti sui quali si fondano i motivi formulati.

Peraltro, la difesa erariale omette di specificare quali siano i documenti che la ricorrente avrebbe mancato di riprodurre e quali siano le parti rilevanti di essi non trascritte e, pertanto, la censura di inammissibilità risulta anche inficiata da genericità ed assoluta indeterminatezza.

2. Con i primi quattro motivi di ricorso (indicati con le lettere A 1.), A 2.), A 3.), A 4.) la ricorrente censura, sotto diversi profili, la sentenza impugnata per avere i giudici di appello ritenuto sussistenti gli indici rivelatori del maggior reddito recuperato a tassazione.

In particolare, con i primi due motivi di ricorso deduce l’insufficienza e contraddittorietà della motivazione, lamentando che i giudici di merito sono pervenuti a loro convincimento omettendo di considerare o considerando contraddittoriamente elementi che, se sottoposti ad una puntuale disamina, avrebbero condotto non ad un accoglimento parziale della domanda, ma all’integrale annullamento degli atti impositivi.

Spiega al riguardo che, poichè l’Agenzia delle entrate ha individuato quali “elementi indicativi” di maggiore capacità contributiva la disponibilità di beni, quali a) l’abitazione principale b) l’abitazione secondaria c) l’autovettura a benzina HP 17 immatricolata nell’anno 1998 4) l’assicurazione con premio annuo di Euro 1.036,00, aveva documentato già nella fase stragiudiziale che: 1) il primo investimento, ossia l’acquisto dell’immobile sito in (OMISSIS), era avvenuto in data 13 febbraio 2003 e che la spesa sostenuta era riferibile all’anno 2003 solo per l’importo di Euro 250.000,00, ottenuto mediante erogazione di un mutuo da parte della Banca Antonveneta all’atto della stipula del rogito notarile, mentre la restante parte del prezzo di compravendita, pari a Euro 263.000,00, era stata corrisposta anticipatamente mediante versamenti rateali effettuati, negli anni 2001 e 2002, attraverso provvista originata dalla pregressa vendita – in data 18 febbraio 2002 – di titoli di investimento dalla stessa detenuti sin dall’anno 1999; peraltro, parte degli acconti sul prezzo risalenti all’anno 2001 erano stati versati dal suo convivente, A.S.A.; 2) l’atto di acquisto dell’abitazione secondaria, sita in (OMISSIS), risaliva al 14 ottobre 2006 e l’immobile era stato donato in virtù di rogito notarile in data 31 gennaio 2003; 3) quanto agli altri beni di cui aveva la disponibilità (auto a benzina e assicurazione) e all’operazione di “compravendita di azioni”, menzionata nel questionario, che alla data del 1 gennaio 2003 aveva giacenze liquide in banca per oltre 250 mila Euro ed investimenti in titoli e strumenti finanziari di almeno pari valore, tutti risalenti agli anni precedenti; 4) nel corso del procedimento finalizzato all’accertamento con adesione, aveva altresì prodotto gli estratti conto bancari attestanti tutte le movimentazioni relative all’anno 2002, la disponibilità complessiva alla data del 1 gennaio 2003 fino al 31 dicembre 2004 ed il disinvestimento, nell’anno 2002, di titoli per Euro 192.500,00; nel corso del giudizio di merito, tramite le risultanze della documentazione bancaria, aveva ulteriormente dimostrato che, negli anni 2003 e 2004 oggetto di contestazione, aveva progressivamente utilizzato le disponibilità finanziarie risultanti sui conti correnti, rappresentati da risparmi accumulati negli anni precedenti, tanto che la disponibilità complessiva alla data del 31 dicembre 2003 si era ridotta ad Euro 74.976,00 ed alla data del 31 dicembre 2004 era ulteriormente diminuita ad Euro 13.004,08.

Le suddette circostanze, riscontrate documentalmente, non erano state contestate dall’Amministrazione finanziaria, che aveva circoscritto la propria difesa ad affermazioni apodittiche e generiche sull’assunto della tassabilità dei proventi da prostituzione.

A fronte di tali risultanze processuali, i giudici regionali, dopo avere enunciato che la decisione si fondava sull’applicazione del del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, non avevano condotto un esame critico del complesso delle circostanze fattuali evidenziate, integranti fatti determinanti ai fini del giudizio, idonei a legittimare l’annullamento degli avvisi di accertamento impugnati.

La ricorrente muove altresì altro profilo di censura alla sentenza laddove i giudici di merito hanno ritenuto di non prendere in considerazione i versamenti ed i pagamenti effettuati dal suo convivente, posto che aveva prodotto documentazione comprovante che A.S.A. aveva residenza anagrafica presso l’immobile di sua proprietà e che, nel corso degli anni, egli si era fatto carico degli oneri economici connessi alla convivenza, come pure di parte del prezzo di acquisto dell’abitazione sita in (OMISSIS); sul punto, la Commissione regionale non aveva indicato su quale presupposto giuridico avesse escluso la rilevanza di spese sostenute e di pagamenti effettuati da terzi, nè a quale titolo potesse discriminare l’apporto reso dal convivente more uxorio rispetto a quello fornito da “altri componenti del nucleo familiare”, dato che la stessa Agenzia delle entrate non aveva mai confutato il fatto che l’ A. avesse contribuito, nel tempo, al sostenimento di tali oneri economici.

3. Con il terzo motivo (indicato in ricorso con la lettera A 3.) la contribuente deduce nullità della sentenza con riferimento agli artt. 115 e 116 c.p.c. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 23, comma 3, e lamenta che i giudici d’appello avrebbero dovuto fare applicazione del principio di non

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contestazione, considerando di conseguenza pacifiche le circostanze non disconosciute.

4. Con il quarto motivo (indicato in ricorso con la lettera A 4.) la ricorrente, deducendo la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, sostiene che la Commissione regionale non avrebbe fatto buon governo di tale disposizione normativa, considerato che, all’esito del quadro emerso dall’istruttoria, gli indici rivelatori di reddito individuati nei separati atti di accertamento non integravano, come previsto dalla norma, “elementi e circostanze di fatto certi”, risultando, al contrario, privi del “contenuto induttivo” idoneo a suffragare la pretesa erariale, e che vi era prova pacifica della circostanza che le spese non fossero state effettuate nelle annualità considerate e non fossero espressive di redditi prodotti dalla ricorrente nei periodi oggetto di accertamento.

I giudici di merito, procedendo alla rettifica dei redditi imponibili, ad avviso della ricorrente, hanno anche disatteso il disposto del citato D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 5, poichè hanno imputato alle annualità oggetto di accertamento ed alle quattro antecedenti non gli importi delle spese sostenute nel biennio, come stabilito dalla norma, bensì gli importi dei redditi complessivi già accertati sinteticamente dall’Ufficio.

5. Con il quinto motivo (indicato in ricorso con la lettera B 1.) la contribuente censura la sentenza impugnata per insufficiente motivazione con riferimento al fatto controverso e decisivo costituito dalla tassabilità dei redditi derivanti dall’attività di prostituzione e sostiene che sul punto l’argomentazione contenuta nella decisione gravata trascura di compiere una ricognizione in merito ai presupposti di fatto necessari per attrarre ad imposizione i proventi conseguiti da tale attività.

Dando atto di avere esposto nel giudizio di merito che fin dall’età di venti anni e sino al 2002 aveva tratto la propria fonte di sostentamento dall’offerta di prestazioni sessuali, ricevendo in cambio regalie e somme di denaro da persone con le quali aveva intrattenuto relazioni amorose, sostiene che i proventi derivanti da tale attività avrebbero dovuto concorrere alla determinazione del reddito imponibile nei periodi in cui gli stessi erano stati percepiti, e non nel periodo in cui dette somme erano state impiegate per l’acquisto dell’abitazione, e che, inoltre, anche in forza dei principi formulati dalla Corte di giustizia in data 20 novembre 2001, in causa C- 268/99, la riconducibilità dell’attività di prostituzione a quella di lavoratore autonomo era ammessa esclusivamente qualora si fosse dimostrato che era stata svolta dal prestatore senza vincolo di subordinazione e sotto la propria responsabilità, circostanze queste che spettava al giudice nazionale accertare.

Nella motivazione resa dalla Commissione regionale non si faceva menzione dei presupposti di fatto indispensabili per assimilare l’attività di prostituzione a quella di lavoro autonomo, poichè i giudici si erano limitati a poggiare la decisione su un precedente giurisprudenziale che non era in alcun modo pertinente alla fattispecie processuale.

6. Con il sesto ed il settimo motivo (indicati in ricorso con le lettere C 1. e C 2.) la parte ricorrente denuncia la sentenza impugnata – sotto i profili della violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 e L. 212 del 2000, art. 7 e dell’omessa motivazione – per non avere i giudici di appello annullato gli avvisi di accertamento nonostante la carenza di motivazione degli stessi.

Lamenta, in particolare, che l’Amministrazione avrebbe completamente omesso di dare conto e di replicare alle giustificazioni rese nella risposta al questionario, così come alle informazioni dalla stessa fornite nell’ambito della procedura di accertamento con adesione, e che la Commissione regionale, nel rigettare la doglianza, avrebbe reso una motivazione priva di qualsiasi supporto argomentativo, nonostante la questione rivestisse rilievo decisivo, potendo determinare la nullità degli atti impositivi.

7. Con l’ottavo ed il nono motivo (indicati in ricorso con le lettere C 3. e C 4.) la ricorrente denuncia rispettivamente la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, commi 2 e 7, e l’omessa motivazione. Ribadisce, con riferimeno alla prima violazione, che nel questionario notificato non sono state indicate le ragioni e l’oggetto della verifica fiscale, nè è riportato l’avvertimento sulla facoltà concessa alla ricorrente di farsi assistere da un professionista e, relativamente alla seconda censura, l’illegittimità degli atti impositivi per mancato rispetto del termine dilatorio di sessanta giorni dalla data di notifica del questionario, posto che l’invito a mezzo del questionario era stato notificato in data 19 ottobre 2009 e la risposta era stata fornita in data 3 novembre 2009, mentre gli avvisi di accertamento erano stati notificati in data 20 novembre 2009, prima del decorso del termine di 60 giorni prescritto dalla richiamata norma.

Con riferimento a tali doglianze la decisione impugnata era carente nella indicazione dei motivi che avevano portato al loro rigetto.

8. Con il decimo motivo (indicato in ricorso con la lettera D 1.) la contribuente deduce nullità della sentenza con riferimento all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, sostenendo che in relazione alle deduzioni articolate nei paragrafi A 2), C 2), C 4), la motivazione, se non insufficiente, dovrebbe essere considerata meramente apparente perchè basata su enunciazioni di stile insufficienti a palesare il percorso logico-giuridico adottato.

9. Il decimo motivo, da esaminare con priorità in quanto incentrato sul vizio assoluto di motivazione della decisione impugnata, è infondato e non può essere accolto.

Per costante orientamento di questa Corte, il vizio di motivazione meramente apparente della sentenza ricorre quando il giudice, in violazione di un obbligo di legge, costituzionalmente imposto (art. 111 Cost., comma 6,), ossia dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, omette di illustrare l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta, ossia di chiarire su quali prove ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali argomentazioni è pervenuto alla propria determinazione, in tal modo consentendo di verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata.

La sanzione di nullità colpisce, pertanto, non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione da punto di vista grafico o quelle che presentano un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e che presentano “una motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. Sez. U, n. 8053 del 7/4/2014), ma anche quelle che contengono una motivazione meramente apparente, perchè dietro la parvenza di una giustificazione della decisione assunta, la motivazione non consente di “comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato”, non assolvendo in tal modo alla finalità di esternare un “ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo”, logico e consequenziale, “a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi” (Cass. Sez. U., n. 22232 del 3/11/2016).

Come questa Corte ha più volte affermato, la motivazione è solo apparente e la sentenza è nulla perchè affetta da error in procedendo – quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. Sez. U, n. 22232 del 3/11/2016; Cass., sez. 6-5, ord. n. 14927 del 2017).

La motivazione della sentenza impugnata, con riguardo alle questioni prospettate dalla contribuente nei paragrafi A 2), C 2), C 4) del ricorso per cassazione, sebbene estremamente sintetica, non è inquadrabile nelle gravi anomalie argomentative sopra individuate e non integra, di conseguenza, un’ipotesi di motivazione apparente, poichè non si pone al di sotto del “minimo costituzionale” (Cass. Sez. U, n. 8053 del 7/4/2014). Infatti, la C.T.R. ha ritenuto di confermare quanto statuito dai giudici di primo grado in ordine alla sufficiente motivazione degli atti impositivi e all’insussistenza dell’illegittimità degli stessi perchè emessi prima del decorso del termine di sessanta giorni dalla chiusura delle indagini, nonchè di ritenere tassabili i redditi derivanti dall’attività di prostituzione, in tal modo esplicitando le ragioni della decisione, per cui eventuali profili di apoditticità e insufficienza della motivazione, anche se sussistenti, non viziano tale motivazione in modo così radicale da renderla meramente apparente (Cass. n. 5315 del 17/3/2015; Cass., sez. 6-5, ord. n. 9105 del 7/4/2017).

10. Il sesto ed il settimo motivo, con i quali si deduce il difetto di motivazione dell’avviso di accertamento impugnato e l’insufficienza della motivazione resa dalla Commissione regionale su tale questione, sono infondati.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, cui si presta adesione, il requisito motivazionale dell’accertamento, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 2, esige, oltre alla puntualizzazione degli estremi soggettivi e oggettivi della posizione creditoria dedotta, soltanto l’indicazione di fatti astrattamete giustificativi di essa, che consentano al contribuente di conoscere nel modo più compiuto i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche poste dall’ufficio finanziario a fondamento dell’atto impositivo, e dunque di porlo in condizioni di apprestare un’adeguata difesa, restando poi affidate al giudizio di impugnazione dell’atto le questioni riguardanti l’effettivo verificarsi dei fatti stessi e la loro idoneità a dare sostegno alla pretesa impositiva (Cass. n. 23615 del 11/11/2011).

Pertanto, il fatto che l’Amministrazione finanziaria abbia proceduto al recupero a tassazione menzionando negli atti impositivi gli indici rilevatori di maggiore capacità contributiva già elencati nel questionario, affermando che, a fronte di tali manifestazioni di capacità di spesa, la contribuente non aveva fornito idonei documenti giustificativi, non importa carenza di motivazione dell’atto di accertamento, perchè tali aspetti attengono al merito della pretesa impositiva.

Nel caso di specie, la doglianza in esame è smentita proprio dal contenuto degli atti impugnati, riportati a pag. 10 del ricorso in ossequio al principio di autosufficienza, dal quale è possibile evincere con chiarezza i presupposti di fatto della pretesa fiscale e le violazioni contestate; deve pure escludersi che il preteso difetto di motivazione possa discendere dal fatto che nell’emettere gli atti impositivi l’ente impositore non abbia richiamato e replicato alle giustificazioni allegate alla contribuente nella propria risposta al questionario. Infatti, la questione, così come prospettata, attiene alla fondatezza nel merito della pretesa tributaria, ma non riguarda il diverso profilo della motivazione degli avvisi di accertamento, potendo la nullità di questi derivare solo da irregolarità che sono espressamente previste dalla legge oppure, in difetto di previsione, allorchè ricorra una lesione di specifici diritti o garanzie tali da impedire la produzione di effetti da parte dell’atto cui ineriscono.

Ciò comporta che all’obbligo dell’amministrazione finanziaria di “valutare” le osservazioni del contribuente non si aggiunge l’ulteriore obbligo di esplicitare detta valutazione nell’atto impositivo, a pena di nullità (Cass., sez. 6-5, ord. n. 8378 del 31/3/2017).

Sebbene la sentenza della Commissione regionale sia affetta da vizio di omessa motivazione su tale questione, come dedotto dalla ricorrente con il settimo motivo, la mancanza di motivazione su questione di diritto e non di fatto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame. In tale caso, infatti, la Corte di cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata, nonchè dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., ha il potere di correggere la motivazione, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., anche a fronte di un error in procedendo, enunciando le ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, anche quando si tratti di implicito rigetto della domanda, sempre che la questione non richieda ulteriori accertamenti in fatto (Cass. Sez. U, n. 2731 del 2/2/2017; Cass. n. 28663 del 27/12/2013; Cass. n. 23989 del 11/11/2014, che afferma il medesimo principio con riferimento al caso di motivazione solo apparente). La motivazione della sentenza impugnata, che sul punto risulta lacunosa, può, pertanto, essere integrata nei termini sopra indicati.

11. Parimenti infondati sono l’ottavo ed il nono motivo, da esaminare congiuntamente in quanto strettamente connessi.

La ricorrente lamenta violazione del diritto di difesa conseguente sia alla mancata indicazione, da parte dell’Agenzia delle entrate, al momento dell’invio del questionario, delle ragioni e dell’oggetto della verifica -sottolineando al riguardo che, a fronte di tale specifica censura, l’Amministrazione si è limitata ad osservare che era stata svolta un’attività istruttoria interna e non un’attività istruttoria esterna con la presenza di un funzionario presso la sede del contribuente conclusasi con la redazione di un processo verbale di constatazione – sia del mancato riconoscimento del termine dilatorio di sessanta giorni tra la conclusione delle indagini e l’emissione dell’avviso di accertamento.

La sentenza impugnata risulta viziata sotto il profilo motivazionale, perchè i giudici di appello non hanno esplicitato il percorso argomentativo sottostante al loro decisum, come eccepito dalla ricorrente con il nono motivo, ma la motivazione può essere integrata da questa Corte, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., nel modo che segue, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto e risultando la decisione conforme a diritto.

Come è stato più volte confermato, il verbale delle operazioni compiute è redatto obbligatoriamente solo in caso di accesso presso il contribuente (in materia di I.V.A., Cass., sez. 5, 4/4/2018, n. 8246) e le garanzie previste dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, operano esclusivamente in relazione agli accertamenti conseguenti ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove si esercita l’attività imprenditoriale o professionale del contribuente, sia pur accompagnati da contestuali indagini finanziarie avviate per via telematica e con consegna di ulteriore documentazione da parte dell’accertato (Cass., sez. 6-5, ord. 19/10/2017, n. 24636).

Si è, in proposito, chiarito che “la naturale vis expansiva dell’istituto del contraddittorio procedimentale nei rapporti tra fisco e contribuente non giunge sino al punto di imporre termini dilatori all’azione di accertamento che derivi da controlli fatti dall’Amministrazione nella propria sede, in base ai dati forniti dallo stesso contribuente, o acquisiti documentalmente” (Cass. n. 11539 del 6/6/2016) e che “gli avvisi di accertamento emessi ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, per effetto del controllo delle dichiarazioni e della documentazione contabile del contribuente, non sono assoggettati al termine dilatorio previsto dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, la cui applicazione postula lo svolgimento di accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali del contribuente, e non si estende all’ipotesi in cui la pretesa impositiva sia scaturita dall’esame di atti sottoposti all’Amministrazione finanziaria dallo stesso contribuente e da essa esaminati in ufficio” (Cass. sez. 6 – 5, ordinanza n. 21391 del 09/10/2014; Cass. n. 17426 del 30/8/2016; Cass. n. 34409 del 23/12/2019).

Nel caso che ci occupa è pacifico che l’accertamento scaturisce da un accertamento sintetico e che l’Amministrazione ha invitato, a mezzo questionario, la contribuente a fornire chiarimenti in merito alle spese per incrementi patrimoniali rivelatrici di una maggiore capacità reddituale ed a produrre elementi di documentazione giustificativa di tali spese, sicchè non opera il termine dilatorio di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7.

Neanche è ravvisabile la violazione della medesima L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 2. Va, in primo luogo, rilevato che con il motivo in esame, formulato in modo generico, la ricorrente non specifica quale pregiudizio al diritto di difesa abbia in concreto subito a causa della mancata preventiva indicazione delle ragioni e dell’oggetto della verifica. In secondo luogo, come è stato precisato da questa Corte (Cass. n. 14026 del 3/8/2012), le norme tributarie distinguono il procedimento di accertamento in senso stretto (che comporta accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciale) dall’attività che si esaurisce, invece, nel mero controllo della documentazione pervenuta agli uffici finanziari, poichè solo nel primo caso sono previste specifiche garanzie di difesa del contribuente (quali il diritto ad essere informato delle ragioni della verifica, la facoltà di farsi assistere da professionista abilitato alla difesa avanti i giudici tributari, la formulazione di osservazioni e rilievi in corso di verifica) che possono essere esercitate nel corso della fase istruttoria del procedimento amministrativo, perchè giustificate dalla complessità delle indagini e dal carattere particolarmente pervasivo dei poteri di indagine. Tale esigenza non si pone invece in relazione all’attività di controllo dei dati acquisiti attraverso “inviti e richieste” di trasmissione agli uffici finanziari di dati, documenti e informazioni, in ordine ai quali il legislatore ha ritenuto prevalenti le esigenze di funzionalità degli uffici e di efficienza della azione amministrativa rispetto alla “anticipata” partecipazione del privato già nella fase istruttoria della ricerca, individuazione ed acquisizione di dati ed informazioni che dovranno poi essere sottoposti al controllo ai fini dell’esercizio – peraltro solo eventuale – della potestà di accertamento (Cass. n. 14026 del 2012, cit.).

Le Sezioni Unite (Cass. Sez. U, n. 24823 del 9/12/2015) hanno in realtà evidenziato come, nella normativa tributaria nazionale, in relazione ai tributi non armonizzati, non si rinviene alcuna disposizione espressa che sancisca in via generale l’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale, al di fuori di specifiche disposizioni che tale contraddittorio prescrivono, peraltro a condizioni e con modalità ed effetti differenti, in rapporto a singole e specifiche ipotesi, quale il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 7, come modificato dal D.L. n. 78 del 2010, art. 22, comma 1, conv. dalla L. n. 122 del 2010, in tema di accertamento sintetico. Tuttavia, nel caso di specie si discute di accertamento sintetico relativo agli anni d’imposta 2003 e 2004, in relazione ai quali non opera la modifica normativa introdotta dal citato D.L. n. 78 del 2010; infatti, tale D.L. n. 78 del 2010, art. 22, comma 1, con specifica norma di diritto transitorio, ha previsto che le modifiche operano in relazione “agli accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla data di entrata in vigore del presente decreto”, per cui la norma può trovare applicazione solo a decorrere dal periodo d’imposta 2009 (Cass. n. 21041 del 6/10/2014; Cass. n. 22746 del 6/11/2015; Cass. n. 11283 del 31/5/2016).

12. Il primo motivo di ricorso è fondato e va accolto, con assorbimento del terzo e del quarto motivo.

12.1. Il metodo di accertamento sintetico del reddito, disciplinato dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, nel testo vigente ratione temporis (cioè tra la L. n. 413 del 1991 ed il D.L. n. 78 del 2010, convertito dalla L. n. 122 del 2010), prevede, al comma 4, la possibilità di presumere il reddito complessivo netto sulla base della valenza induttiva di una serie di elementi e circostanze di fatto certi, costituenti indici di capacità contributiva, connessi alla disponibilità di determinati beni o servizi ed alle spese necessarie per il loro utilizzo e mantenimento e, al comma 5, le cd. “spese per incrementi patrimoniali”, ossia quelle sostenute per incrementare in modo durevole il patrimonio, prevedendo in tal caso una presunzione di imputabilità del reddito, in quote costanti, all’anno in cui la spesa è stata effettuata ed ai cinque precedenti, introducendo una disciplina di favore, adottata in base all’id quod plerumque accidit, ossia al fatto che la capacità di effettuare una determinata spesa ben può attribuirsi non al reddito prodotto nello stesso anno d’imposta cui l’accertamento si riferisce, bensì alla disponibilità di capitale accumulato negli anni precedenti.

Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, l’accertamento con metodo sintetico non impedisce al contribuente di dimostrare, attraverso idonea documentazione, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito, in tutto o in parte, da redditi soggetti a ritenute alla fonte o esenti da imposta ovvero da finanziamenti di terzi (come recentemente ribadito anche da Cass., sez. 5, ord. n. 13602 del 2018). In presenza dei presupposti previsti dall’art. 38, la norma non impone, dunque, ulteriore onere all’amministrazione, ma piuttosto fa gravare sul contribuente la prova contraria, prova che va riferita, secondo il tenore letterale del citato art. 38, comma 6, al fatto che “il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte”, con la precisazione che “l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”. L’oggetto della prova contraria da parte del contribuente riguarda non solo, dunque, la disponibilità di ulteriori redditi, ma anche l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso. Si è, al riguardo, chiarito che, pur non prevedendosi esplicitamente la prova che detti ulteriori redditi siano stati utilizzati per coprire le spese contestate, si chiede espressamente una prova documentale su circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto (o sia potuto accadere). In tal senso deve essere letto lo specifico riferimento alla prova – risultante da “idonea documentazione” – della “entità” di tali eventuali ulteriori redditi e della “durata” del relativo possesso, previsione che ha la finalità di aconcorare a fatti oggettivi (di tipo quantitativo e temporale) la disponibilità di detti redditi per consentire la riferibilità della maggiore capacità contributiva accertata con metodo sintetico in capo al contribuente proprio a tali ulteriori redditi, escludendo quindi che i suddetti siano stati utilizzati per finalità non considerate ai fini dell’accertamento sintetico (Cass., sez. 5, 18 aprile 2014, n. 8995; Cass. 26 novembre 2014, n. 25104; Cass. 16 luglio 2015, n. 14885; Cass. 1510 del 20/1/2017).

Al fine di meglio delimitare l’ambito della prova contraria gravante sul contribuente, questa Corte ha, ad esempio, precisato che la prova documentale richiesta dalla norma in grado di superare la presunzione di maggiore reddito ben può essere fornita con l’esibizione degli estratti dei conti correnti bancari facenti capo alla parte contribuente, idonei a dimostrare, mediante l’indicazione dell’entità dei redditi e delle date dei movimenti, anche la “durata” del possesso dei redditi e, quindi, non il loro semplice “transito” nella disponibilità del contribuente (Cass. sez. 6 – 5, ordinanza n. 12026 del 16/05/2018). Quanto ai mutui ultrannuali, si è, inoltre, precisato, che, qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali ed il contribuente deduca e dimostri che tale spesa sia giustificata dall’accensione di un mutuo ultrannuale, il mutuo medesimo non esclude ma diluisce la capacità contributiva; ne consegue che deve essere detratto dalla spesa accertata (ed imputata a reddito) il capitale mutuato ma ad essa vanno, invece, aggiunti, per ogni annualità, i ratei di mutuo maturati e versati (Cass., sez. 5, n. 24597 del 03/12/2010; Cass. n. 4797 del 24/2/2017).

Quanto, poi, alla disponibilità di immobili, va osservato che, ai sensi dell’art. 38 citato, essa costituisce una presunzione di “capacità contributiva” ai sensi dell’art. 2728 c.c., per cui il giudice tributario, una volta accertata l’esistenza degli specifici “elementi indicatori di capacità contributiva” esposti dall’ufficio, deve valutare la prova offerta dal contribuente.

L’effettiva capacità contributiva, nell’ipotesi di disponibilità di immobili, va individuata non in base alla mera proprietà e provenienza degli immobili, ma valutando le spese per il loro mantenimento (Cass. n. 10603 del 19/7/2002; Cass. n. 7408 del 31/3/2011); lo stesso principio vale per la manutenzione dei veicoli (Cass. n. 1294 del 22/1/2007).

12.2. Tanto premesso, nel caso di specie, l’accertamento sintetico è stato dall’amministrazione finanziaria basato su più beni-indici di capacità contributiva risultanti dagli accertamenti ed emergenti anche dalla risposta della stessa contribuente al questionario inviatole ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 (possesso di immobili, possesso di una autovettura; disinvestimento di strumenti finanziari). Al fine di superare la presunzione di maggior reddito, la contribuente, come emerge dai richiami contenuti nel ricorso per cassazione, ha offerto a titolo di prova contraria documentazione al fine di provare che: a) il prezzo dell’immobile sito in (OMISSIS), acquistato nel 2003, è stato corrisposto, in parte, ricorrendo ad un mutuo e, in parte, utilizzando provviste originate da una precedente vendita, risalente al 18 febbraio 2002, e da titoli di investimenti detenuti sin dal 1999; b) l’abitazione secondaria, il cui acquisto risaliva al 1996, era stata donata in data 31 gennaio 2003 (immobile sito in (OMISSIS)); c) la disponibilità, risultante da estratti conto bancari, di giacenze liquide in banca per circa Euro 250.000,00 alla data del 1 gennaio 2003.

La Commissione regionale, nel confermare, seppure parzialmente, gli atti impositivi, ha aderito acriticamente alla ricostruzione reddituale operata dall’amministrazione finanziaria, senza procedere ad una disamina e valutazione degli elementi a discarico offerti dalla contribuente al fine di superare la presunzione legale – di cui non si fa alcuna menzione nella decisione impugnata – incorrendo in tal modo nel vizio di omessa motivazione dedotto con il mezzo in esame.

Infatti, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte, il vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel testo applicabile ratione temporis), sotto il profilo della omissione, insufficienza e contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate (Cass. n. 19547 del 4/8/2017). Nella specie, con il mezzo in esame sono stati indicati specifici fatti decisivi il cui esame da parte della Commissione regionale è stato del tutto pretermesso e che, se fossero stati tenuti presenti dal giudice di merito, avrebbero potuto condurre ad una diversa decisione.

13. Non merita, invece, accoglimento il secondo motivo di ricorso. In tema di accertamento delle imposte sui redditi, con riferimento alla determinazione sintetica del reddito complessivo netto in base ai coefficienti presuntivi individuati dai decreti ministeriali previsti dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, la prova contraria ivi ammessa, richiedendo la dimostrazione documentale della sussistenza e del possesso, da parte del contribuente, di redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, implica un riferimento alla complessiva posizione reddituale dell’intero suo nucleo familiare, costituito dai coniugi conviventi e dai figli, soprattutto minori, atteso che la presunzione del loro concorso alla produzione del reddito trova fondamento, ai fini dell’accertamento suddetto, nel vincolo che li lega, e non già nel mero fatto della convivenza, così escludendosi la desumibilità da quest’ultima del possesso di redditi prodotti da un parente diverso o da un affine, in quanto tale estraneo al nucleo familiare (Cass., sez. 5, n. 5365 del 07/03/2014).

La sentenza impugnata, escludendo di poter prendere in considerazione i versamenti e i pagamenti effettuati da A.A., convivente della contribuente, ha applicato il suddetto principio e, pertanto, il motivo va disatteso.

14. Il quinto motivo è inammissibile. La ricorrente, invocando la giurisprudenza comunitaria, deduce che i giudici regionali non avrebbero adeguatamente motivato sull’esistenza delle condizioni in presenza delle quali il reddito derivante dall’attività di prostituzione sarebbe tassabile quale reddito di lavoro autonomo.

Sennonchè la prostituzione, che la contribuente ha ammesso di avere praticato, è prestazione di servizi retribuita che rientra nella nozione di attività economica, come è stato affermato dalla Corte di Giustizia UE con la sentenza del 20 novembre 2011, in C- 268/99, e va assoggettata ad imposizione riguardo a proventi pur sempre riconducibili alla categoria dei redditi di lavoro autonomo, in caso di esercizio abituale, o a quella dei redditi diversi, ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 67 lett. f) e art. 67 lett. I), se svolta, sempre autonomamente, ma in forma occasionale, atteso che si tratta pur sempre di prestazioni remunerate (nel senso della tassabilità dei proventi della prostituzione, Cass., sez. 5, n. 2528 del 2010; Cass. sez. 5, n. 10578 del 13/5/2011; Cass. n. 15596 del 27/7/2016). Ne consegue che, sebbene la Corte di giustizia, con la sentenza sopra richiamata, abbia precisato che “spetta al giudice nazionale accertare, caso per caso, se sussistono le condizioni per ritenere che la prostituzione sia svolta come lavoro autonomo”, ossia al di fuori di fenomeni di induzione, costrizione o sfruttamento della prostituzione, risulta evidente che non rileva ai fini della presente decisione la qualificazione dei redditi come di lavoro autonomo o come redditi diversi.

15. Con l’unico motivo del ricorso incidentale la difesa erariale deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto la C.T.R. ha ridotto l’ammontare dei redditi recuperati a tassazione nelle due annualità sulla scorta di un motivo mai dedotto dalla contribuente, la quale non aveva mai chiesto, nè in primo nè in secondo grado, che i redditi accertati ovvero le spese sostenute fossero “spalmati” anche sulle quattro annualità precedenti.

Il ricorso incidentale è fondato. Come si evince dallo svolgimento del processo descritto nella decisione impugnata, la contribuente non ha mai lamentato la violazione da parte dell’Ufficio del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 5, e, pertanto, i giudici regionali, pronunciandosi d’ufficio su una questione non sollevata dalla parte ricorrente, hanno travalicato i limiti del thema decidendum. Infatti, nel giudizio tributario – il quale è caratterizzato da un meccanismo di instaurazione di tipo impugnatorio, circoscritto alla verifica della legittimità formale e sostanziale della pretesa effettivamente avanzata con l’atto impugnato, nei limiti delle contestazioni mosse dal contribuente con i motivi dedotti nel ricorso introduttivo di primo grado, il giudice è tenuto a rispettare i confini ritualmente fissati dalle parti, dovendo ritenersi escluso che egli possa svolgere una qualsiasi indagine su questioni non contestate da alcuna delle parti (Cass. sez. 5, Sentenza n. 15121 del 30/06/2006). La sentenza va pertanto cassata nella parte in cui ridetermina i redditi imponibili delle due annualità oggetto di accertamento.

16. In conclusione, deve essere accolto il primo motivo del ricorso principale, con assorbimento del terzo e del quarto motivo, va dichiarata l’inammissibilità del quinto motivo e vanno rigettati i restanti motivi del ricorso principale; deve, inoltre, essere accolto il ricorso incidentale, con conseguente cassazione della sentenza impugnata con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, perchè proceda a nuovo esame in relazione alle censure accolte, nonchè alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale, dichiara assorbiti il terzo ed il quarto motivo, dichiara inammissibile il quinto motivo e rigetta i restanti motivi del ricorso principale; accoglie il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 13 gennaio 2020.

Depositato in cancelleria il 27 maggio 2020

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