Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9904 del 27/05/2020

Cassazione civile sez. trib., 27/05/2020, (ud. 13/01/2020, dep. 27/05/2020), n.9904

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – rel. Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 23718/2012 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore elettivamente

domiciliata in Roma, alla via Portoghesi, pro tempore, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende come

per legge;

– ricorrente –

contro

C.A., rappresentato e difeso, giusta procura a margine del

controricorso, dagli avv.ti Cesare Federico Glendi e Luigi Manzi,

con domicilio eletto presso lo studio del secondo, in Roma, via

Federico Confalonieri.

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 74/11/11 della Commissione Tributaria

regionale della Liguria depositata il 18 luglio 2011;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 13 gennaio 2020

dal Consigliere Dott.ssa Condello Pasqualina Anna Piera;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale, Dott.ssa Mastroberardino Paola, che ha concluso chiedendo

l’accoglimento del ricorso;

udito il difensore della parte ricorrente, avv. Francesco Meloncelli;

udito il difensore della parte controricorrente, avv. Carlo Albini,

per delega dell’avv. Luigi Manzi

Fatto

FATTI DI CAUSA

L’Agenzia delle entrate, a seguito di invio di questionario e di invito a comparire, emetteva avviso di accertamento nei confronti di C.A., che svolgeva attività di commercio ambulante di prodotti ortofrutticoli, recuperando, per l’anno 2002, maggiori ricavi e rideterminando la plusvalenza da avviamento derivante dalla cessione dell’azienda avvenuta in data 10 aprile 2002 in favore della Topfrutta di G.P. e C. s.n.c.

Avverso l’avviso di accertamento proponeva ricorso il contribuente, deducendo che i maggiori ricavi rilevati in via presuntiva si fondavano su una percentuale di ricarico desunta da una media di settore e che la maggiore plusvalenza da cessione di azienda non teneva conto del valore di avviamento resosi ormai definitivo ai fini dell’imposta di registro e vincolante anche ai fini delle imposte dirette.

La Commissione provinciale adita accoglieva integralmente il ricorso con sentenza che veniva impugnata dall’Amministrazione finanziaria dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Liguria che confermava la decisione di primo grado.

Osservava, in particolare, che in materia tributaria operava il principio dell’onere della prova sancito dall’art. 2697 c.c., in forza del quale spettava all’ente impositore dimostrare il fatto costitutivo della pretesa; disattendeva, pertanto, le censure mosse dall’Ufficio alla sentenza impugnata, sottolineando che la Corte di Cassazione era costante nel ritenere che l’accertamento induttivo operato sulla base di percentuali di ricarico non era consentito laddove non fosse stata previamente fornita dall’Ufficio la prova di un significativo e ingiustificato scostamento tra quanto dichiarato dal contribuente e quanto risultante dalle medie di settore.

Rilevava, pure, con riguardo alla plusvalenza da cessione di azienda, che la presunzione di valore determinata ai fini dell’imposta di registro poteva essere superata solo attraverso una rigorosa prova di un diverso valore; nella fattispecie il valore dichiarato era stato ritenuto congruo ai valori di mercato da parte dell’ufficio di registro.

Ricorre per la cassazione della sentenza di appello l’Agenzia delle entrate, con tre motivi, cui resiste il contribuente mediante controricorso.

Il contribuente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso la difesa erariale deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.P.R. 26 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, artt. 2697 e 2729 c.c.

Precisa che l’Ufficio ha presunto l’occultamento di componenti positivi di reddito sulla base dei seguenti elementi noti:

a) utile dichiarato dal contribuente pari ad Euro 26.949,00 che, depurato dell’importo della plusvalenza da cessione dichiarata in Euro 33.319,48, rivelava una perdita di gestione ingiustificata rispetto ai parametri contabili aziendali;

b) la percentuale di ricarico applicata nel periodo immediatamente precedente alla cessione (1 gennaio 2002 – 30 aprile 2002) risultava dimezzata (13,18 per cento a fronte del 25 per cento) rispetto a quella normalmente applicata nel triennio precedente (1999- 2001);

c) la presenza di rimanenze iniziali di importo eccessivo e ingiustificato in relazione alla tipologia di merce oggetto di vendita, costituita in massima parte da generi alimentari altamente deperibili, ed ai quantitativi compravenduti;

d) la costante operatività dell’azienda che non aveva subito sospensioni in occasione della cessione, avendo il cedente assicurato la propria collaborazione al cessionario per assicurare continuità nella vendita;

e) il prezzo di cessione non risultava congruo rispetto al valore di mercato;

f) la consistente spesa per dipendenti e l’elevato costo del venduto a fronte di un risultato di gestione negativo.

I fatti noti sopra indicati, ad avviso della ricorrente, integrano elementi indiziari gravi, precisi e concordanti per procedere ad accertamento analitico-induttivo, per cui la Commissione regionale aveva errato laddove aveva ritenuto che l’Ufficio non avesse allegato fatti idonei a dimostrare l’inattendibilità della percentuale di ricarico applicata dal contribuente.

2. Con il secondo motivo censura la decisione impugnata per insufficiente motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, lamentando che i giudici regionali in ordine all’accertamento di maggiori ricavi si limitano ad enunciare le regole giuridiche da applicare senza spiegare le ragioni per le quali si è ritenuto che le critiche mosse dall’Ufficio alla sentenza di primo grado fossero prive di fondamento.

3. Con il terzo motivo la Agenzia delle entrate denuncia violazione degli artt. 2697,2727,2729 c.c., in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 e al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54. Sostiene di avere fornito una serie di elementi di prova specifici per dimostrare la maggiore plusvalenza da cessione dell’azienda rispetto a quella dichiarata dal contribuente e che la sentenza impugnata è viziata perchè ha deciso come se il valore definitivamente accertato per l’imposta di registro costituisse presunzione del valore della cessione aziendale anche ai fini della determinazione della plusvalenza ai fini Irpef.

4. Il secondo ed il terzo motivo, strettamente connessi, possono essere trattati congiuntamente e sono fondati.

4.1. Occorre preliminarmente ribadire che questa Corte, in caso di accertamento di maggiori ricavi derivanti dall’attività d’impresa e sottratti al reddito imponibile, ha chiarito che, qualora l’esame delle scritture contabili evidenzi un difetto di veridicità, è legittimo il ricorso al metodo analitico-induttivo da parte dell’Amministrazione finanziaria, la quale può utilizzare “i dati e le notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, tra i quali sono compresi il volume di affari dichiarato dallo stesso contribuente e la redditività media del settore specifico in cui opera l’impresa sottoposta ad accertamento” (Cass. n. 11813 del 6/8/2002; Cass. n. 10344 del 7/5/2007). Si è anche avuto modo di precisare che “la rideterminazione del ricarico, operata in base a dati non privi di concretezza – quali i prezzi unitari di acquisto e di vendita, l’incidenza di ciascun prodotto sul costo del venduto, il ricarico medio riscontrato nel settore di appartenenza sulla scorta di un’analisi a campione per gruppi merceologici omogenei e il raffronto con i prezzi di vendita – costituisce operazione senz’altro legittima in quanto finalizzata alla ricostruzione del volume d’affari, salva l’eventuale riduzione da parte del giudice tributario del maggior reddito accertato in caso di insufficienza o inadeguatezza del campione” (Cass., sez. 5, n. 13816 del 18/9/2003).

Tanto premesso, le censure che vengono mosse alla decisione impugnata sono in primo luogo incentrate sul rilievo che la Commissione regionale, con una motivazione estremamente generica e laconica, si limita ad affermare che l’accertamento induttivo fondato sulle percentuali di ricarico non è consentito quando non venga fornita dall’Ufficio la prova di un significativo scostamento tra quanto dichiarato dal contribuente e quanto risultante dalle medie di settore e addiviene all’annullamento dell’atto impositivo sul presupposto che l’Amministrazione non abbia fornito idonei elementi presuntivi a supporto della pretesa fiscale.

Le argomentazioni poste dai giudici di appello a fondamento del decisum non forniscono alcuna spiegazione in ordine alla ritenuta inattendibilità della percentuale media di ricarico assunta dall’Amministrazione come parametro di comparazione per stabilire la congruità dei ricavi dichiarati e non prendono in considerazione i molteplici elementi presuntivi emersi dalla verifica ed evidenziati dall’Ufficio.

Infatti, la decisione impugnata non ha tenuto presente che la redditività relativa all’anno 2002 oggetto di contestazione era praticamente nulla, considerato che l’utile dichiarato dal contribuente, pari ad Euro 26.949,00, se depurato dalla plusvalenza da cessione dell’azienda dichiarata, pari ad Euro 33.319,48, evidenziava una perdita del tutto ingiustificata se rapportata ai parametri contabili aziendali.

Ha, inoltre, tralasciato di considerare che l’accertamento svolto dall’Ufficio si è basato su una verifica concreta della gestione dell’attività che evidenziava una grave distonia tra il ricavo dichiarato dal contribuente e quello emerso dalla applicazione della stessa percentuale di ricarico utilizzata dall’impresa negli anni antecedenti alla cessione dell’azienda. A tale riguardo, l’Agenzia delle Entrate ha puntualizzato che la percentuale di ricarico applicata dal contribuente nel periodo immediatamente precedente la cessione – 1 gennaio 2002 – 30 aprile 2002 – risultava praticamente dimezzata (13,18 per cento contro 25 per cento) rispetto a quella normalmente e mediamente praticata nel triennio precedente la cessione (1999 – 2001).

Sulla possibilità da parte del Fisco di utilizzare la percentuale di ricarico valorizzata per una data annualità in una annualità differente questa Corte, già con la sentenza n. 1286 del 26 gennaio 2004, ha osservato in motivazione che “….Le circostanze di fatto, comprese quelle relative alle percentuali di ricarico, accertate con riferimento ad un determinato anno fiscale non possono essere estese acriticamente ad ogni altro esercizio precedente (o successivo), anche perchè ogni periodo impositivo è autonomo rispetto agli altri, ma costituiscono pur sempre validi elementi indiziari, da utilizzare secondo criteri di razionalità e di prudenza, per ricostruire i dati corrispondenti relativi agli anni precedenti (o a quelli successivi). Costituisce, infatti, una regola d’esperienza che l’entità dei vari ricarichi non è una variabile indipendente di carattere occasionale, ma è condizionata da una serie di fattori che costituiscono nel loro insieme le condizioni di mercato (ad esempio la situazione di concorrenza esistente in concreto, il settore merceologico, la località, la posizione dell’esercizio con l’eventuale rendita di posizione, ecc.)…” (Cass. n. 27330 del 29/12/2016; Cass. n. 5049 del 2011; Cass., sez. 5, ord. n. 7108 del 13/3/2019; in senso analogo, in tema di I.V.A., Cass. n. 2940 del 1984; Cass. n. 12774 del 1998 e n. 1647 del 2010).

Pertanto, in presenza, come nella specie, dell’individuazione in concreto di percentuali di ricarico applicate dal contribuente negli anni dal 1999 al 2001, i giudici di appello, anzichè porre a carico dell’Amministrazione un onere probatorio che non le competeva, avrebbero dovuto verificare se fosse stata fornita la prova, incombente sullo stesso contribuente, gravato del relativo onere anche in virtù del principio di vicinanza della prova, di fattori rappresentativi di un mutamento del mercato o della attività d’impresa esercitata che potessero giustificare nell’anno oggetto di accertamento l’applicazione di percentuali di ricarico diverse.

Di tale valutazione di fatto, da effettuarsi con adeguata motivazione, la sentenza impugnata non dà conto alcuno, posto che non spiega perchè la percentuale media di ricarico utilizzata per gli anni dal 1999 al 2001 non potesse valere quale elemento indiziario per ritenere la sua invarianza anche per l’anno 2002 oggetto di accertamento, nè evidenzia ragioni apprezzabili per ritenere che nel medesimo esercizio e nella stessa località, a distanza di poco tempo, fossero sensibilmente variate le condizioni di mercato.

I giudici di merito hanno pure trascurato di considerare che l’Amministrazione aveva rilevato la presenza di rimanenze iniziali di importo eccessivo e ingiustificato, trattandosi di generi alimentari di facile deperibilità, e l’esercizio continuativo dell’attività d’impresa, che non aveva subito interruzioni neanche in prossimità della cessione dell’azienda; trattasi di ulteriori elementi indiziari – che denotano che l’impresa non aveva sofferto fenomeni di contingenza economica determinati da calo di domanda rilevanti e decisivi ai fini della verifica della legittimità dell’accertamento analitico-induttivo perchè costituenti elementi di riscontro della ingiustificata drastica riduzione della percentuale di ricarico applicata rispetto al periodo immediatamente precedente la cessione dell’azienda e della inaffidabilità dei dati inerenti i ricavi emergenti dalla contabilità.

4.2. Gli elementi presuntivi posti in evidenza dall’Ufficio al fine di giustificare la rettifica del reddito d’impresa consentono al contempo di ritenere che la decisione impugnata sia anche viziata laddove afferma che non è stata fornita prova della maggiore plusvalenza da cessione d’azienda rispetto a quella dichiarata, sul presupposto che il valore della cessione dichiarato ai fini dell’imposta di registro è stato ritenuto congruo dall’ufficio di registro ed è ormai divenuto definitivo.

Le conclusioni a cui perviene il giudice di appello poggiano sull’orientamento interpretativo anteriore alla introduzione del D.Lgs. n. 147 del 2015, art. 5, comma 3, che recita: “3. Del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 58, 68, 85 e 86 e del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, artt. 5,5-bis, 6 e 7, si interpretano nel senso che per le cessioni di immobili o di aziende nonchè per la costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro di cui al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, ovvero delle imposte ipotecaria e catastale di cui al D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347”.

Questa Corte ha, infatti, affermato che “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, il D.Lgs. n. 147 del 2015, art. 5, comma 3 – che, quale norma di interpretazione autentica, ha efficacia retroattiva – esclude che l’Amministrazione finanziaria possa ancora procedere ad accertare, in via induttiva, la plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione di immobile o di azienda solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro” (Csss. n. 12265 del 17/5/2017; Cass. n. 11543 del 6/6/2016; Cass. n. 19227 del 2/8/2017; Cass. n. 12131 del 8/5/2019).

Alla luce della norma interpretativa richiamata non residua, dunque, alcuno spazio per presumere ai fini fiscali l’esistenza di un maggior corrispettivo soltanto sulla base del valore, essendo la ratio della norma incentrata sulla non assimilabilità della differente base impositiva (valore) rispetto a quella prevista per l’Irpef (corrispettivo).

Ciò comporta che, in sede di valutazione della prova, non è più consentita l’automatica trasposizione del valore dato all’azienda ai fini dell’imposta del registro in sede di accertamento della plusvalenza per la tassazione Irpef, nel senso che non è possibile ricondurre a quel solo dato il fondamento dell’accertamento (Cass. n. 2610 del 30/1/2019), ma devono essere presi in esame gli ulteriori indizi, dotati dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, offerti dall’Ufficio al fine di verificare la loro idoneità a supportare il diverso valore della cessione rispetto a quello dichiarato dal contribuente; spetterà poi al contribuente contrastare, con prove di segno contrario, le risultanze probatorie raccolte dall’Amministrazione finanziaria.

I giudici regionali non si sono attenuti ai superiori principi richiamati e, pertanto, la sentenza va cassata anche sotto tale profilo.

L’accoglimento dei mezzi in esame consente di ritenere assorbito il primo motivo di ricorso.

5. In conclusione, vanno accolti il secondo ed il terzo motivo, assorbito il primo motivo, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Commissione tributaria regionale, in diversa composizione, perchè provveda a nuovo esame in ordine alle censure accolte, oltre che alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie il secondo ed il terzo motivo; dichiara assorbito il primo motivo; cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Liguria, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 13 gennaio 2020.

Depositato in cancelleria il 27 maggio 2020

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