Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9901 del 27/05/2020

Cassazione civile sez. trib., 27/05/2020, (ud. 13/01/2020, dep. 27/05/2020), n.9901

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – rel. Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 20390/2012 R.G. proposto da:

LEMLO’ S.R.L., in persona del legale rappresentante, rappresentata e

difesa, come da procura in calce al ricorso, dagli avv.ti Valerio

Ficari e Stefano Parisi Presicce, con domicilio eletto presso lo

studio del secondo in Roma, Lungotevere Raffaele Sanzio, n. 9;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, alla via Portoghesi, n. 12,

presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e

difende come per legge;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 129/14/12 della Commissione Tributaria

regionale del Lazio depositata il 21 febbraio 2012

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 13 gennaio 2020

dal Consigliere Dott.ssa Condello Pasqualina Anna Piera;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale, Dott.ssa Mastroberardino Paola, che ha concluso chiedendo

il rigetto del ricorso;

udito il difensore della parte ricorrente, avv. Valerio Ficari;

udito il difensore della parte controricorrente, avv. Francesco

Meloncelli.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con avviso di accertamento l’Agenzia delle Entrate procedeva al recupero a tassazione di IRPEG, IRAP e IVA, in relazione all’anno d’imposta 2003, nei confronti della società Lemlò s.r.l. (già Lemalò s.r.l.), sulla base delle risultanze del processo verbale redatto in data 18 aprile 2005, contestando ricavi non dichiarati, pari a Euro 259.274,00, e costi non deducibili perchè non inerenti, pari a Euro 37.523,00.

In esito alla impugnazione dell’atto impositivo da parte della contribuente, la quale sosteneva l’inapplicabilità del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), in quanto le presunzioni utilizzate dall’Ufficio non presentavano i requisiti della concordanza, precisione e gravità, la Commissione provinciale adita, accogliendo parzialmente il ricorso, rideterminava i maggiori ricavi nella misura ridotta di Euro 36.159,00, ritenendo altresì legittimo i(secondo rilievo contestato dall’Ufficio.

Avverso la suddetta decisione proponeva appello principale l’Agenzia delle entrate, sostenendo che la società aveva tenuto un comportamento antieconomico, poichè, a fronte di utili di esercizio irrisori denunciati nelle annualità dal 2002 al 2007, aveva aperto sei punti vendita in zone prestigiose della città di Roma, dichiarando un ricarico sulle vendite del 24,88 per cento a fronte di un ricarico accertato del 120 per cento.

La contribuente resisteva spiegando anche appello incidentale.

La Commissione regionale del Lazio, con la sentenza in questa sede impugnata, accoglieva l’appello principale, respingendo quello incidentale, osservando che l’attività antieconomica, desumibile dal fatto che, a fronte di utili di esercizio irrisori, dichiarati per gli anni dal 2002 al 2007, la società aveva avviato sei nuovi punti vendita in zone della capitale di particolare pregio, lasciava presumere una sottostante evasione.

Rilevava, in particolare, che fosse ben possibile ricorrere alla determinazione induttiva del reddito imponibile, laddove fosse stata riscontrata una ingiustificabile incongruenza fra i componenti positivi dichiarati e quelli desumibili dall’attività svolta o dagli studi di settore, per cui correttamente l’Agenzia delle entrate aveva operato l’accertamento sulla base anche degli studi di settore e su un’oggettiva constatazione dell’antieconomicità dell’attività svolta dalla società, mentre la società aveva addotto giustificazioni astratte, aventi valore meramente assertivo, anche per quanto riguardava gli sconti asseritamente effettuati sulle vendite (fino al 50 per cento); l’Ufficio aveva al contrario potuto determinare, sulla base delle annotazioni apposte a matita sulle fatture di acquisto (acconto sul costo di ciascun articolo), il prezzo effettivo di vendita, con un ricarico del 120 per cento. Riteneva, quindi, che la situazione economica dell’azienda presentasse connotati tali da far presumere che i dati contabili esposti non fossero attendibili.

Ricorre per la cassazione della sentenza d’appello la società Lemlò s.r.l., con nove motivi, ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso la contribuente deduce la violazione dell’art. 115 c.p.c. e del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62 sexies, convertito dalla L. 29 ottobre 1993, n. 427, assumendo che i giudici di merito avrebbero erroneamente fondato la decisione su presunti scostamenti dei redditi dichiarati rispetto a quelli desumibili dagli studi di settore, pur trattandosi di questione che non aveva costituito oggetto della controversia, atteso che l’Agenzia delle entrate con l’atto di appello aveva incentrato la impugnazione sulla sola presunta antieconomicità del comportamento della contribuente, disinteressandosi di ogni altro profilo e soprattutto di eventuali scostamenti rispetto agli studi di settore, di cui non era stato neppure indicato il codice.

1.1. La censura è inammissibile in quanto non si confronta con la ratio decidendi.

1.2. Con la doglianza in esame la ricorrente censura la sentenza impugnata laddove statuisce: “Nella fattispecie in esame l’Agenzia delle Entrate appellante ha, dunque, correttamente operato l’accertamento sulla base anche degli studi di settore e su un’oggettiva constatazione dell’antieconomicità dell’attività svolta dalla società”.

In realtà, sebbene i giudici regionali abbiano utilizzato anche tale argomentazione, risulta evidente dal contenuto complessivo della motivazione della sentenza che la decisione, dopo avere dato atto che l’accertamento prende le mosse da un processo verbale di constatazione con il quale sono state rilevate irregolarità in merito alla corretta applicazione degli studi di settore, addiviene alla conferma dell’atto impositivo sulla base di una ricostruzione presuntiva del reddito d’impresa che non tiene conto dei parametri o degli studi di settore, ma che valorizza diverse ed assorbenti considerazioni che poggiano sull’antieconomicità dell’attività svolta dalla società e sulla palese incongruenza tra i valori contabili dichiarati e quelli presunti in ragione delle caratteristiche stesse dell’attività esercitata dalla ricorrente.

Peraltro, il fatto che l’accertamento sia “basato” sullo studio di settore non esclude che esso possa trovare giustificazioni diverse, quali la inattendibilità delle scritture contabili e la ritenuta antieconomicità della gestione aziendale.

2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 23, in quanto i giudici di secondo grado hanno accolto l’appello dell’Ufficio sulla base di un argomento – ossia l’antieconomicità della condotta della società – che era del tutto assente nella motivazione dell’atto impositivo e che era stato introdotto per la prima volta nelle controdeduzioni in primo grado ed era stato poi riproposto in sede di appello.

La contribuente osserva che la motivazione dell’avviso di accertamento costituisce strumento di garanzia del diritto di difesa del contribuente, il quale deve essere edotto dell’iter logico e giuridico su cui si fonda la pretesa azionata, e delimita l’ambito processuale della materia del contendere cristallizzando le ragioni che l’amministrazione finanziaria può far valere in giudizio, con la conseguenza che non può essere consentita all’Ufficio alcuna attività integrativa in corso di causa, nè al giudice di merito di introdurre nuovi motivi rispetto a quelli indicati nell’atto impositivo.

Ha, altresì, fatto presente di avere tempestivamente eccepito in primo grado la novità della questione dell’antieconomicità sollevata dall’Agenzia delle entrate solo con le memorie illustrative e di avere rinnovato tale eccezione in sede di appello e lamenta che la Commissione regionale, senza darne atto in sentenza, ha confermato la ripresa a tassazione proprio sulla base di tale eccezione.

2.1. Occorre preliminarmente rilevare che la censura prospettata, sebbene sia volta a denunciare non un vizio di violazione di legge, ma piuttosto un error in procedendo, che avrebbe dovuto essere contestato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 anzichè ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, è comunque ammissibile, dovendosi dare seguito all’orientamento giurisprudenziale meno formalista secondo cui, ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione, non costituisce condizione necessaria la corretta menzione dell’ipotesi appropriata, tra quelle in cui è consentito adire il giudice di legittimità, purchè si faccia valere un vizio della decisione astrattamente idoneo a inficiare la pronuncia; ne consegue che è ammissibile il ricorso per cassazione che lamenti la violazione di una norma processuale, ancorchè la censura sia prospettata sotto il profilo della violazione di norma sostanziale ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, anzichè sotto il profilo dell’error in procedendo, di cui al numero 4 del citato art. 360 c.p.c. (Cass., sez. 2, n. 1370 del 21/01/2013; Cass. 24 marzo 2006, n. 6671; Cass. n. 19882 del 29/8/2013).

2.2. Tanto premesso, il mezzo in esame è infondato.

Il processo tributario, in quanto diretto a sollecitare il sindacato giurisdizionale sulla legittimità del provvedimento impositivo, è strutturato come un giudizio di impugnazione del provvedimento stesso e tale caratteristica circoscrive il dibattito alla pretesa effettivamente avanzata con l’atto impugnato, sicchè il giudice tributario non può estendere la propria indagine all’esame di circostanze nuove ed estranee a quelle originariamente invocate dall’ufficio (Cass., sez. 5, n. 7927 del 20/04/2016; Cass. n. 10972 del 5/5/2017).

L’esame dell’atto impositivo, prodotto unitamente al ricorso per cassazione, evidenzia che lo stesso riporta tutte le circostanze di fatto rilevanti ai fini del recupero fiscale, poichè indica il reddito dichiarato nell’anno 2003 (pari a Euro 5.426,00), gli utili risultanti dai bilanci approvati dall’anno 2001 (pari a circa Euro 6.000,00 per ciascun anno) e la circostanza che la società, nonostante gli esigui ricavi dichiarati, avesse aperto sei nuovi punti vendita in zone prestigiose della città di Roma.

Gli stessi elementi di fatto riportati nell’atto impositivo sono stati richiamati dall’Ufficio nel giudizio di merito, come emerge dalle controdeduzioni e dall’atto di appello dell’Agenzia delle Entrate – pure prodotti dalla società ricorrente unitamente al ricorso per cassazione – sicchè non è ravvisabile nè la dedotta violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, atteso che dalla motivazione dell’avviso di accertamento emerge una chiara ricostruzione di tutti gli elementi costitutivi della pretesa tributaria, così da consentire una piena ed efficace difesa da parte del contribuente (Cass. n. 30039 del 21/11/2018), nè la presunta violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 23, avendo l’Amministrazione in sede di impugnazione giudiziale allegato elementi di prova già compiutamente richiamati nell’atto impositivo, non introducendo in tal modo questioni o eccezioni nuove e non allargando il thema decidendum.

La Commissione regionale, pertanto, non ha fondato la decisione su rilievi diversi da quelli indicati nell’avviso di accertamento e non è, dunque, incorsa nei vizi denunciati.

3. Con il terzo motivo la contribuente denuncia nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, per non essersi la Commissione regionale pronunciata sul motivo dell’appello incidentale della società con il quale era stata impugnata la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva rideterminato i maggiori ricavi nella misura ridotta di Euro 36.159,00.

4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia nullità della sentenza per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67 e art. 109 t.u.i.r., nonchè dell’art. 112 c.p.c. e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, per avere i giudici regionali omesso di pronunciarsi anche in ordine al motivo di gravame relativo alla deducibilità del costo di Euro 15.523,00 per prestazioni occasionali rese da I.F. in favore della società nell’anno 2003, ribadendo che tali costi, inerenti all’attività d’impresa, sono stati imputati, ai sensi dell’art. 109 del t.u.i.r., al conto economico di competenza e costituiscono compenso assoggettato a ritenuta d’acconto del 20 per cento, dichiarato dalla percipente nel modello Unico 2004, con la conseguenza che il recupero a tassazione di compensi integra violazione del divieto di doppia imposizione, vizio di cui la Commissione regionale ha omesso l’esame.

4.1. Il terzo ed il quarto motivo sono infondati.

4.2. I giudici d’appello accogliendo integralmente l’impugnazione principale e confermando l’atto impositivo hanno implicitamente respinto ogni altra doglianza fatta valere dalla contribuente, pur non contenendo la sentenza una specifica statuizione al riguardo.

Va, quindi, data continuità al consolidato orientamento di questa Corte secondo cui ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (Cass., sez. 1, ordinanza n. 24155 del 13/10/2017; Cass., sez. 2, ordinanza n. 20718 del 13/8/2018).

5. Con il quinto motivo la ricorrente deduce omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione della sentenza nella parte in cui i giudici regionali attribuiscono rilevanza alla presenza di perdite ai fini della prova dell’antieconomicità della condotta della società, nonchè violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1 e art. 36, n. 4, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), art. 2697 c.c. e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 2, e della L. n. 212 del 2000, art. 7.

Si duole che la sentenza, nell’accogliere l’impugnazione dell’Ufficio, non esplicita in modo chiaro le ragioni per le quali ritiene corretta l’applicazione della percentuale di ricarico del 120 per cento e sussistenti comportamenti antieconomici e viola le disposizioni che impongono la presenza di presunzioni tra loro concordanti, precise e gravi.

Assume, in particolare, che: a) la valutazione dell’antieconomicità del comportamento della contribuente poggia su dati relativi a periodi di imposta diversi da quello oggetto di accertamento e trascura di considerare che il reddito imponibile consegue all’applicazione delle variazioni in aumento e in diminuzione che si devono apportare all’utile civilistico per addivenire al reddito tassabile; b) le percentuali di ricarico adottate dall’Ufficio e condivise dai giudici di merito sono del tutto insignificanti, considerato che gli indici elaborati per un determinato settore merceologico non integrano un fatto noto e certo, ma restano sul piano dei meri indizi, privi, come tali, di un autonomo rilievo probatorio.

5.1. I motivi dedotti sono infondati.

5.2. Secondo il costante e condivisibile orientamento di questa Corte, l’Amministrazione finanziaria, in presenza di contabilità formalmente regolare ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, può desumere, in via induttiva, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, commi 2 e 3,, sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni (Cass. n. 26036 del 30/12/2015).

Si è altresì affermato che, una volta contestata dall’Erario l’antieconomicità di un’operazione posta in essere dal contribuente che sia imprenditore commerciale, perchè basata su contabilità complessivamente inattendibile, in quanto contrastante con i criteri di ragionevolezza, diviene onere del contribuente stesso dimostrare la liceità fiscale dell’operazione, ben potendo il fisco dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere minori costi, utilizzando presunzioni semplici, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente, che deve dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate a fronte della contestata antieconomicità (Cass. n. 14941 del 14/6/2013; Cass. n. 25257 del 25/10/2017).

5.3. Nel caso di specie, la Commissione regionale, aderendo alla ricostruzione operata dall’Amministrazione, ha considerato antieconomica la condotta della società contribuente sulla base del rilievo che questa, pur a fronte di “utili di esercizio irrisori” dichiarati negli anni d’imposta dal 2002 al 2007, aveva aperto sei nuovi punti vendita in zone di particolare pregio della città di Roma, svolgendo in tal modo la propria attività, anche in ragione della qualità della merce venduta, in favore di una clientela facoltosa ed ha al contempo escluso che la società avesse offerto dimostrazione concreta della regolarità dei dati contabili esposti, affermando che la società si era limitata ad indicare “giustificazioni astratte, che hanno valore meramente assertivo”.

Tale argomentazione del giudice di merito non risulta idoneamente censurata nè in diritto, nè, tanto meno, in fatto, considerato che il vizio motivazionale della sentenza viene individuato esclusivamente nell’avere dato rilevanza, ai fini della valutazione dell’antieconomicità del comportamento della società, a dati contabili relativi a periodi di imposta diversi dall’anno 2003 oggetto di accertamento e nell’avere ritenuto, erroneamente, che la società avesse dichiarato rilevanti perdite.

Con il mezzo in esame non si individuano specificamente fatti storici decisivi il cui esame da parte della Commissione regionale sarebbe stato insufficiente, ma si tende piuttosto, richiamando dati contabili esposti nei modelli Unici 2002, 2003 e 2004 – prodotti unitamente al ricorso per cassazione, ma di cui non viene dimostrata la produzione in giudizio – ad ottenere una diversa ricostruzione in fatto rispetto a quella operata dalla Commissione regionale, deducendo che la società negli anni 2001, 2002 e 2003 non ha riportato perdite civilistiche e che la sola perdita fiscale di Euro 14.429,00, emergente per l’anno 2002, è mera conseguenza dell’applicazione delle disposizioni del t.u.i.r che apportano variazioni (in aumento o in diminuzione) all’utile o alla perdita di origine civilistica.

Trattasi di argomentazioni inidonee a scalfire il ragionamento presuntivo svolto dai giudici di appello, i quali hanno, al contrario, ritenuto l’inattendibilità della contabilità e, di conseguenza, la legittimità dell’accertamento induttivo operato dall’amministrazione ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), per il fatto che in un periodo in cui la società ha conseguito, secondo quanto emerge dalla contabilità dalla stessa tenuta, utili estremamente esigui ha comunque implementato la sua attività commerciale mediante l’allestimento di nuovi punti vendita che hanno inevitabilmente comportato l’assunzione di ulteriori costi.

Ne consegue che non può dirsi sussistente il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione o della insufficienza della motivazione, che ricorre solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione (Cass. n. 19547 del 4/8/2017).

5.4. Relativamente, poi, alla doglianza afferente la statuizione della sentenza che conferma la legittimità della pretesa fiscale determinata sulla base dell’applicazione della percentuale di ricarico del 120 per cento, va, in primo luogo, escluso il denunciato vizio di motivazione meramente apparente della sentenza che sussiste solo quando il giudice, in violazione di un preciso obbligo di legge, omette di esporre i motivi in fatto e diritto della decisione e di specificare le ragioni che lo hanno condotto alla decisione assunta, di chiarire le prove sulla base delle quali ha fondato il proprio convincimento e le argomentazioni sulla base delle quali è pervenuto alla propria determinazione, potendo la sanzione di nullità della sentenza colpire solo la sentenza che sia priva di motivazione da punto di vista grafico (Cass. Sez. U, n. 8053 del 7/4/2014; Cass. n. 21257 del 8/10/2014) o quella la cui motivazione è tale da non consentire “di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato” (Cass. n. 4448 del 25/2/2014; Cass. Sez. U, n. 22232 del 3/11/2016).

I giudici di merito hanno osservato che l’Ufficio “ha potuto determinare, sulla base delle annotazioni apposte a matita sulle fatture di acquisto, il prezzo effettivo di vendita, con un ricarico del 120%”; tale motivazione non rientra nelle anomalie argomentative che concretizzano un’ipotesi di motivazione apparente, poichè non si pone al di sotto del “minimo costituzionale” (Cass. Sez. U, n. 8053 del 7/4/2014).

Inammissibili sono, invece, gli ulteriori vizi denunciati con il mezzo in esame (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), art. 2697 c.c., D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 2 e L. n. 212 del 2000, art. 7), posto che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate, ma soprattutto mediante specifiche argomentazioni intese a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, non potendo in caso contrario questa Corte adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione (Cass. n. 24298 del 29/11/2016).

La ricorrente, pur avendo indicato le norme asseritamente violate, non ha adeguatamente specificato le ragioni per le quali le statuizioni della sentenza impugnata, laddove confermano la pretesa fiscale sulla scorta dell’applicazione della percentuale di ricarico del 120 per cento, sarebbero in contrasto con dette disposizioni di legge, considerato che, nel caso di specie, la rideterminazione di maggiori ricavi trae origine dagli stessi dati contabili esposti dalla società e non si fonda, invece, come sostenuto dalla ricorrente, sulla difformità dei dati dichiarati con le medie del settore merceologico di appartenenza.

6. Con il sesto motivo la contribuente deduce nullità della sentenza per insufficienza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, per avere i giudici regionali desunto l’antieconomicità della condotta da rilevanti perdite, in realtà inesistenti.

Ribadisce che nel giudizio di merito l’esistenza di perdite non è mai stata oggetto del thema decidendum, atteso che i rilievi mossi dall’Ufficio si erano incentrati sul mero scostamento tra la percentuale di ricarico praticata dalla società e quella mediamente riscontrata nel settore di appartenenza e che la società aveva sempre chiuso in utile gli esercizi dal 2002 al 2006.

7. Con il settimo motivo denuncia nullità della sentenza per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, nella parte in cui la sentenza assume fondato un maggior ricarico del 120 per cento, facendo rilevare che i giudici di merito non hanno considerato che l’annotazione a matita di tale ricarico era stata riscontrata su un campione limitato di fatture di acquisto, pari al 2,96 per cento del totale ed al 23,89 per cento del totale degli acquisti, come posto in evidenza nelle controdeduzioni e nell’appello incidentale, oltre che nel prospetto indicato nella memoria depositata in primo grado.

Evidenzia, altresì, che l’avviso di accertamento non può basarsi sul mero dato quantitativo riportato su alcune fatture qualora non trovi riscontro nelle risultanze di un inventario fisico generale dei beni e censura, sotto tale profilo, la sentenza anche per violazione dell’art. 112 c.p.c. e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1.

7.1. In ordine al secondo profilo di censura del settimo motivo va richiamato il principio, del tutto condivisibile, secondo cui “ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di una espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia” (Cass. n. 20311 del 4/10/2011).

7.2. Risulta, invece, fondato il primo profilo di censura (omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione).

Il riscontro di incongrue percentuali di ricarico sulla merce venduta costituisce, sia in tema di imposte dirette, sia in tema di I.V.A., legittimo presupposto dell’accertamento induttivo, sempre che la determinazione della percentuale di ricarico sia coerente con la natura e le caratteristiche dei beni venduti; ne consegue che, qualora il contribuente contesti in giudizio il criterio di determinazione della percentuale di ricarico, il giudice di merito è tenuto a verificare la scelta dell’Amministrazione in relazione alle critiche proposte (Cass. n. 673 del 16/1/2015; Cass. n. 30276 del 15/12/2017).

Nella specie, i giudici di appello, prendendo le mosse dalle risultanze dell’avviso di accertamento – di cui è stato trascritto uno stralcio in controricorso – nel quale si legge che il ricarico realmente applicato non era quello dichiarato del 24,88 per cento, ma piuttosto quello attestato dalla stessa società, mediante apposizione a matita sulle fatture di acquisto, del 120 per cento (comprensivo della maggiorazione del 100 per cento e dell’I.V.A. del 20 per cento)- hanno affermato che il prezzo effettivo di vendita fosse quello determinato dall’Ufficio, confermando integralmente la ripresa a tassazione.

La motivazione resa dalla Commissione regionale risulta lacunosa poichè omette di verificare se, come dedotto dalla contribuente, l’annotazione a matita del ricarico del 120 per cento fosse stata rilevata su tutte le fatture di acquisto o piuttosto su una parte esigua di esse, considerato che nello stesso avviso di accertamento si dà atto che il ricarico del 120 per cento “è avvenuto su gran parte delle fatture acquisti”, ma non si specifica il numero di fatture sulle quali risultava concretamente apposta la relativa annotazione.

Trattasi di fatto, rilevante e decisivo ai fini del giudizio, che avrebbe potuto condurre i giudici di merito ad una diversa decisione, considerato che il recupero a tassazione di maggiori ricavi si fonda proprio sulla annotazione a matita del prezzo effettivo di vendita riscontrato dai verificatori sulle fatture di acquisto.

L’accoglimento del settimo motivo consente di dichiarare assorbito il sesto motivo.

8. Con l’ottavo motivo la ricorrente denuncia nullità della sentenza per violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., art. 2697 c.c. e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), laddove i giudici di merito affermano che la rettifica operata dall’Ufficio è legittima “sulla base anche degli studi di settore”, in quanto dagli atti del giudizio non risultava che l’accertamento fosse fondato sugli studi di settore, nè erano stati allegati lo studio di settore in concreto applicato e il cluster di riferimento.

L’ottavo motivo, con il quale si ripropone la doglianza già svolta con il primo motivo di ricorso, è inammissibile per le ragioni già esposte al p. 1.2.

9. Con il nono motivo la società contribuente denuncia nullità della sentenza per violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., nonchè dell’art. 2697 c.c., nella parte in cui si afferma che non è stato fornito idoneo riscontro probatorio circa la percentuale di sconto sulle vendite.

Sostiene che, in ordine alla percentuale di sconto sulle vendite riconosciuta applicabile dalla Commissione provinciale nella misura del 15 per cento, in luogo del 10 per cento (per i clienti abituali) e del 30 per cento (per il periodo dei saldi), come ipotizzato nell’avviso di accertamento, l’Ufficio aveva prestato acquiescenza omettendo di sollevare sul punto specifiche contestazioni in sede di appello, cosicchè doveva ritenersi che l’applicazione dello sconto sulle vendite nella misura del 15 per cento non fosse più contestabile.

Il motivo è infondato.

Nell’atto di appello – di cui è stato trascritto uno stralcio in controricorso in ossequio al principio di autosufficienza – l’Amministrazione ha integralmente censurato la decisione di primo grado, contestando ai giudici di primo grado di non avere esposto le ragioni che li avevano condotti a ritenere provato lo sconto sulle vendite nella misura del 15 per cento, anzichè nella misura del 10 per cento accertata in sede di verifica, ed ha pure contestato che la società contribuente avesse fornito, sia in sede amministrativa che in sede processuale, prova documentale dello sconto praticato. Le difese svolte dall’Agenzia delle entrate in sede di appello fanno, dunque, escludere che essa abbia prestato acquiescenza alla statuizione della sentenza di primo grado che riconosceva applicabile sulle vendite uno sconto nella misura del 15 per cento e che la Commissione regionale abbia violato le disposizioni di legge richiamate nella rubrica del motivo.

I giudici regionali, svolgendo un accertamento in fatto, hanno rilevato che la società non aveva assolto l’onere di provare che lo sconto effettivamente praticato sulle vendite fosse diverso da quello accertato e tale apprezzamento non può essere sindacato in questa sede con la mera riproposizione di affermazioni di contenuto meramente assertivo, prive di validi riscontri.

10. In conclusione, va accolto il settimo motivo del ricorso nei termini di cui in motivazione, con assorbimento del sesto motivo, e vanno respinti i restanti motivi; la sentenza va dunque cassata con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, che provvederà a nuovo esame in relazione alla censura accolta, oltre che alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il settimo motivo nei termini di cui in motivazione, dichiara assorbito il sesto motivo e rigetta i restanti motivi; cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 13 gennaio 2020.

Depositato in cancelleria il 27 maggio 2020

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