Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9900 del 14/05/2015


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Civile Sent. Sez. L Num. 9900 Anno 2015
Presidente: LAMORGESE ANTONIO
Relatore: DORONZO ADRIANA

SENTENZA
sul ricorso 22075-2012 proposto da:
D’APPIO SAVERIO C.F. DPPSVR68C06H501D, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA DEL SUDARIO 18, presso lo
studio dell’avvocato ANTONIO PELAGGI, che lo
rappresenta e difende, giusta delega in atti;
– ricorrente –

2015
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contro

JAKALA MARKETING SOLUTIONS S.P.A., in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA CRESCENZIO 25, presso lo
studio dell’avvocato ETTORE PAPARAZZO,

che la

Data pubblicazione: 14/05/2015

rappresenta e difende, giusta delega in atti;
– controxicorrente –

avverso la sentenza n. 6166/2011 della CORTE D’APPELLO
di ROMA, depositata il 07/10/2011 R.G.N. 2557/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica

DORONZO;
udito l’Avvocato PELAGGI LUIGI per delega PELAGGI
ANTONIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. ALBERTO CELESTE che ha concluso per
l’accoglimento del secondo, settimo e ottavo motivo e
rigetto del resto.

udienza del 04/02/2015 dal Consigliere Dott. ADRIANA

Svolgimento del processo
1. Con sentenza depositata in data 7 ottobre 2011, la Corte d’appello di Roma
rigettava l’appello proposto da Saverio D’Appio contro la sentenza resa dal
Tribunale della stessa sede, che aveva rigettato la domanda dell’appellante
avente ad oggetto la condanna della Gir Promomarketing s.r.l. (poi
incorporata nella Jakala Marketing Solutions s.p.a.) al pagamento di
emolumenti collegati al rapporto di lavoro tra gli stessi intercorso, la
declaratoria dell’inefficacia o illegittimità del licenziamento intimato dalla
datrice di lavoro, con la condanna di quest’ultima alla reintegrazione del
lavoratore nel posto di lavoro, ovvero alla sua riassunzione in caso di non
applicabilità della tutela reale, nonché la condanna al risarcimento dei
danni conseguenti al mobbing di cui il D’Appio era stato vittima
2. La Corte territoriale statuiva (per quanto qui ancora di interesse) che non
erano stati provati: a) lo svolgimento da parte del lavoratore di mansioni
aggiuntive, quale quello di business development manager, sicché nulla
doveva essergli riconosciuto a titolo di “compenso aggiuntivo; b) lo
svolgimento di lavoro straordinario; c) il mobbing lamentato. Con riguardo
al licenziamento, ne affermava la legittimità sia sotto il profilo del rispetto
delle garanzie procedimentali sia sotto quello della sussistenza della giusta
causa, in quanto il fatto addebitato al lavoratore, e costituito dall’aver
cancellato tutti documenti di lavoro dal suo computer, era risultato
provato. Tale condotta, oltre ad essere astrattamente inquadrabile nella
fattispecie penale di cui all’art. 635 bis c.p., rientrava nella previsione degli
artt. 146, comma 2°, e 151 del C.C.N.L., in forza dei quali il lavoratore, in
caso di grave violazione dell’obbligo di conservare diligentemente le merci
e materiali dell’impresa, può essere licenziato.
3. Contro la sentenza, il D’Appio propone ricorso per cassazione, fondato su
nove motivi, illustrati da memoria, cui resiste con controricorso la Jakala
Marketing Solutions s.p.a.
Motivi della decisione
1. Va in primo luogo disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per
violazione degli artt. 360 e 360 bis c.p.c., sollevata dalla controricorrente: i
motivi di ricorso sono sufficientemente specifici, rientrano nelle ipotesi
previste dall’ari 360 c.p.c. e non risulta denunciata in modo
manifestamente infondato alcuna violazione dei principi regolatori del
giusto processo, sicché non sussistano i presupposti per la pronuncia ai
sensi del n. 2, dell’art. 360 bis c.p.e. (Cass., 15 maggio 2012, n. 7558).
2. Con i primi tre motivi, il ricorrente denuncia l’omessa, errata e
contraddittoria valutazione delle prove, nonché la violazione e/o falsa
applicazione dell’art. 437 c.p.c., in relazione alle domande volte ad
ottenere il compenso per le mansioni aggiuntive e per il lavoro

Udienza 4 febbraio 2015
Presidente Lamorgese
Relatore Doronzo
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straordinario svolti dall’1/4/2003 al 31/12/2004, nonché il risarcimento del
danno da mobbing. Assume che la Corte territoriale non avrebbe
considerato i consistenti elementi di prova, testimoniale e documentale, da
cui erano emersi i fatti costitutivi delle sue pretese.
Con il quarto motivo denuncia l’errata valutazione delle prove e la
violazione e falsa applicazione dell’art. 7 legge n. 300/1970 e dell’art. 2
legge n. 604/1966, con riferimento alla genericità della contestazione e
all’omesso esame dell’eccezione di invalidità del licenziamento per
mancata comunicazione dei motivi. In particolare, lamenta che, non
essendo stati indicati specificamente i documenti cancellati, gli era stato
impedito di valutare se effettivamente essi avessero un valore ed
un’importanza essenziale per lo svolgimento dell’attività lavorativa e,
quindi, per valutare la gravità della sua condotta e la proporzionalità della
sanzione.
Con il quinto motivo denuncia la violazione e la falsa applicazione
dell’art. 7 legge n. 300/1970, dell’art.. 2697 c.c., degli arti. 112, 416 e 437
c.p.c., con riferimento alla questione della mancata affissione del codice
disciplinare. In particolare, deduce che, fin dal ricorso introduttivo del
giudizio, egli aveva eccepito tale circostanza e la convenuta, dopo aver
dedotto che il codice era presente nella rete intranet della società, non
aveva ulteriormente contestato la sua eccezione, né aveva provato il suo
assunto. In ogni caso, tale modalità di affissione del codice era del tutto
inadeguata a soddisfare il requisito della pubblicità. Quanto alla seconda
affermazione della Corte, secondo cui l’affissione non era necessaria,
poiché la condotta ascrittagli costituiva una violazione del cosiddetto
“minimo etico”, il ricorrente rileva che tale questione non era mai stata
sollevata dalla convenuta e, sotto tale aspetto, la decisione si poneva in
violazione dell’art. 112 c.p.c. Aggiunge che, comunque, non essendosi in
presenza di un illecito penale, la condotta addebitatagli doveva essere
necessariamente prevista da un codice disciplinare, da rendere conoscibile
attraverso le modalità previste dall’art. 7 citato.
Con il sesto motivo denuncia la violazione e/o la falsa applicazione
dell’art. 7 legge n.300/1970 e dell’art.2 legge n.604/1966, in ragione della
violazione del principio di immutabilità dei motivi di licenziamento e della
conseguente sua illegittimità. Rileva, infatti, che nella memoria difensiva
la convenuta aveva allegato fatti mai contestati nella lettera di
licenziamento, ivi compresa la sua partecipazione ad una società svolgente
attività concorrenziale con la datrice di lavoro.
Con il settimo motivo denuncia l’errata, omessa e contraddittoria
motivazione in ordine all’accertamento dei fatti addebitati, nonché la
violazione dell’art. 437 c.p.c., per il mancato svolgimento di attività
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Relatore Doronzo
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istruttoria. Si duole della sentenza nella parte in cui a) ha ritenuto provata e
non contestata la cancellazione di tutti documenti di lavoro dal suo
computer; b) ha ritenuto non provata l’esistenza di un CD-ROM su cui egli
aveva riversato i dati cancellati dal computer aziendale, circostanza questa
confermata dal teste Canepa e specificamente dedotta nella lettera di
giustificazione prodotta in giudizio (doc. 38, pag. 2, punti 17-18); b) ha
ritenuto che il messaggio inviato al ricorrente di cancellare i dati
riguardasse esclusivamente le e-mail, non anche l’ulteriore
documentazione; c) non aveva valutato che, a seguito della cancellazione
dei dati, aveva ricevuto i complimenti del responsabile infonnatico;4he
inoltre tutti documenti erano stati archiviati nella banca dati aziendali
denominata “in touch” e che comunque erano stati recuperati; che,
pertanto, difettava la prova della gravità e irreparabilità del danno
cagionato.
7. Con l’ottavo motivo, denuncia l’omessa e contraddittoria motivazione
sulla giusta causa, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 e 2118
c.c., anche sotto il profilo del difetto di proporzionalità. Ribadisce quanto
già affermato nel precedente mezzo ed aggiunge, quanto al supposto
svolgimento da parte sua di un’attività concorrenziale con la datrice di
lavoro, che si trattava di una circostanza non provata e comunque mai fatta
oggetto di contestazione. Peraltro, egli aveva chiesto di provare la diversità
delle attività svolte dalla società di cui era socio rispetto a quelle della
Jakala Marketing. Infine, in merito, infine, all’utilizzo del computer per
finalità personali, il giudice non aveva tenuto conto del fatto che esso si
riduceva alla- mancata richiesta di autorizzazione per l’installazione di un
programma, dato che il regolamento aziendale prevedeva la possibilità di
utilizzo del computer per motivi personali.
8. Infine, con il nono motivo, denuncia la violazione e la falsa applicazione
degli artt. 146 e 151 ceni commercio e deduce che la sua condotta non
rientrava nel combinato disposto delle due norme.
9. I primi tre motivi, di cui appare opportuna la trattazione congiunta in
ragione della connessione che li lega, sono inammissibili. Con riguardo ai
dedotti vizi di violazione di legge, l’inammissibilità sta nel fatto che la
ricorrente non indica quale affermazione della Corte territoriale sia in
contrasto con le norme indicate, in particolare con gli artt. 416 e 437 c.p.c.
Per ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte, il vizio di violazione
o falsa applicazione di norme di diritto, ex art. 360, n. 3, c.p.c., deve essere
dedotto, a pena di inammissibilità, giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4,
c.p.c., non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma
anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed
esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate
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Presidente Laraorgese
Relatore Doronzo
RG. n. 22075/12
D’Appio ci Jaka1a Marketing Sohnions s.p.a.

affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi
in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con
l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità,
diversamente impedendo alla Corte regolatrice di adempiere il suo
istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata
violazione. Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di
“errori di diritto” individuati per mezzo della sola preliminare indicazione
delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di
una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le
questioni giuridiche poste dalla controversia, (cfr. Cass., 26 giugno 2013,
n. 16038; Cass., 8 marzo 2007, n. 5353; Cass., 19 gennaio 2005, n. 1063;
Cass., 6 aprile 2006, n. 8106).
10. In merito ai vizi motivazionali denunciati, la ragione dell’inammissibilità
sta nel difetto di autosufficienza delle censure, avendo la parte trascritto
solo per stralcio le deposizioni testimoniali che assume non valutate o mal
valutate, non indica dove le dette deposizioni sarebbero attualmente
rinvenibili, mediante la precisa indicazione del verbale di causa in cui
sarebbero state raccolte e della sua attuale allocazione nei fascicoli di parte
o d’ufficio delle pregresse fasi del giudizio, non riporta, neppure per
sintesi, il contenuto dei documenti della cui mancata o erronea valutazione
si duole. Tali omissioni violano il principio di autosufficienza del ricorso
per cassazione, in ossequio al quale il ricorrente che, in sede di legittimità,
denunci il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo
istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o
processuali, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto
della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente
interpretato dal giudice di merito, provvedendo alla loro trascrizione, al
fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei
fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell’
autosufficienza del ricorso per cassazione, la S.C. deve essere in grado di
compiere sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non
è consentito sopperire con indagini integrative. (Principio affermato ai
sensi dell’art. 360 bis, comma 1, cod. proc. civ.). (Cass., 30 luglio 2010, n.
17915). Infine, ciò vale anche con riguardo al mancato esercizio da parte
del giudice del merito dei suoi poteri istruttori, non avendo la parte
precisato quando, come e dove avrebbe sollecitato, ed in che termini, i
poteri istruttori ufficiosi del giudice del merito (Cass., 16 maggio 2002, n.
7119).
t/. Infine, i motivi sono inammissibili dal momento che con essi la parte
intende far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata
dal giudice di merito alla sua personale opinione e, in particolare, prospetta
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un soggettivo, migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati
acquisiti: tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di
valutazione degli elementi di prova e degli apprezzamenti del fatto,
attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del
percorso formativo rilevanti ai sensi dell’art. 360, comma 1°, n. 5 cod.
proc. civ. Diversamente il motivo del ricorso per cassazione si
risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni
effettuate e, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice di
merito, cui non può imputarsi di aver omesso l’esplicita confutazione delle
tesi non accolte e la disamina degli elementi di giudizio ritenuti non
significativi, giacché né l’una né l’altra gli sono richieste (ex plurimis,
Cass., 25 maggio 2006, n. 12446; Cass., 6 febbraio 2007, n. 2577).
12. Peraltro, nel caso in esame, la Corte ha svolto un ragionamento congruo ed
esaustivo, oltre che sorretto da precisi riferimenti alle evidenze istruttorie
acquisite nel corso del giudizio, escludendo che al ricorrente sia mai stata
attribuita la superiore qualifica di generai development manager — e,
conseguentemente, negandogli il diritto ai compensi aggiuntivi – , così
come ha ritenuto indimostrato lo svolgimento di lavoro straordinario, in
considerazione del dato accertato che il D’Appio non aveva l’obbligo della
doppia timbratura ed era pertanto libero di entrare in orari non
predeterminati, nonché della mancanza di prova di una durata della
prestazione lavorativa eccedente i limiti della ragionevolezza in rapporto
alla tutela, costituzionalmente garantita, del diritto alla salute. Anche in
ordine al mobbing, la motivazione è completa e priva di interne
contraddizioni, poiché i giudici del merito hanno accertato l’insussistenza
in concreto di una condotta vessatoria tenuta dalla datrice di lavoro ai
danni del ricorrente, avendo ritenuto insussistenti gli elementi sintomatici
del mobbing indicati dal ricorrente, come la disponibilità di una segretaria
personale che gli sarebbe stata poi inopinatamente sottratta; l’esclusione
dalla partecipazione a riunioni (giacché queste in realtà riguardavano i
dirigenti e non anche i quadri, come il ricorrente), la mancata stipulazione
di un con-tatto prmosso dal D’Appiò, essetdo ésSa cotisegiaa ad una
valutazione di convenienza della datrice di lavoro, e non già sorretta da
fini meramente ritorsivi.
13. Il quarto motivo è infondato. La Corte, anche qui con ragionamento
congruo ed esaustivo, ha ritenuto specifica la contestazione, non solo per
la ragione che il lavoratore è stato in grado di difendersi adeguatamente,
quanto piuttosto per il contenuto stesso della lettera di contestazione, con
cui si è addebitata al lavoratore la distruzione di tutti i documenti aziendali
presenti sul suo computer, ivi compresa la corrispondenza elettronica.
Ogni ulteriore specificazione sarebbe stata, pertanto, a giVidaio della
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Corte, superflua. Va poi rilevato che il canone della specificità, nella
contestazione dell’addebito, non richiede l’osservanza di schemi prestabiliti
e rigidi, come accade nella formulazione dell’accusa nel processo penale,
ma esso è rispettato ogniqualvolta assolva alla funzione di consentire al
lavoratore incolpato di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa
(Cass., 30 dicembre 2009, n. 27842; Cass., 3 marzo 2010, n. 5115). Diritto
di difesa che, nella specie, è stato compiutamente esercitato.
14. Anche il quinto motivo è infondato. Va ricordato che, secondo la
giurisprudenza costante di questa Corte, non è necessaria la previa
affissione codice disciplinare, in presenza della violazione di norme di
legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili
come tali senza necessità di specifica previsione (Cass., 3 ottobre 2013, n,
22626; Cass., 29 agosto 2014, n. 18462).
15. In applicazione del suddetto principio, il giudizio espresso dalla Corte
circa il disvalore sociale della condotta tenuta dal lavoratore, – poiché ha
ritenuto intrinseco ai doveri di fedeltà e diligenza del lavoratore quello di
non distruggere i beni aziendali, tu cui rientrano senz’altro i documenti
informatici, rimarcando che tale condotta costituisce reato ex art. 635 bis
c.p. -, appare congruo e motivato, rientrando nel potere del giudice di
merito di apprezzare i fatti e di inquadrarli nell’esatta cornice normativa,
senza che con ciò possa dirsi violato il principio di corrispondenza tra il
chiesto ed il pronunciato (cfr. sul potere del giudice di convertire il
lieerk2iWridito per giusta causa ih licenziainento per giustificató Motivo
soggettivo, senza violare il principio di corrispondenza tra il chiesto il
pronunciato v. Cass., 9 giugno 2014, n. 12884).
16. A fronte, invero, dell’immutabilità dei fatti oggetto di contestazione, la
qualificazione della condotta ascritta al lavoratore e la sua inclusione nel
Concetto di “minimo etico” – piuttosto che tra le violazioni di prassi
operative o disposizioni aziendali per le quali è necessaria l’inclusione nel
codice disciplinare e la sua pubblicità -, richiedono un’attività valutativa da;
parte dell’interprete tramite valorizzazione di fattori esterni relativi alla
coscienza generale, che non può essere censurata in sede di légittinaltà
allorquando detta applicazione rappresenti la risultante logica e motivata
della specificità dei fatti accertati e valutati nel loro globale contesto.
Rimane, invece, praticabile il sindacato di legittimità per vizio ex art. 360
n. 3 c.p.c. in quei casi in cui gli standards valutativi, sulla cui base è stata
definita la controversia, finiscano per collidere con i principi
costituzionali, con quelli generali dell’ordinamento, con precise norme
suscettibili di applicazione in via estensiva o analogica, ed, infine, anche in
quei casi in cui i suddetti standards valutativi si pongano in contrasto con
regola che si 013hfig~t), pot la Obsttihte e plidifiba applidaziohe
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giurisprudenziale e per il carattere di generalità assunta – come vero e
proprio “diritto vivente” (così, Cass., 17 agosto 2004, n. 16037). Nel caso
in esame, la decisione della Corte d’appello risulta pronunziata all’esito di
una attenta valutazione del materiale probatorio ed è la risultante di un iter
argomentativo sorretto da una esauriente e logica motivazione.
17. Il sesto motivo è infondato. 11 principio di immutabilità della contestazione
dell’addebito disciplinare mosso al lavoratore ai sensi dell’alt. 7 dello
statuto lavoratori preclude al datore di lavoro di licenziare per altri motivi,
diversi da quelli contestati, ma non vieta di considerare fatti non contestati
e situati a distanza di tempie dal recesso, quali circostanze confermative
della significatività di altri addebiti posti a base del licenziamento, al fine
della valutazione della complessiva gravità, sotto il profilo psicologico,
delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità o meno del
eòttèlàtivò pitvvedinientò sanzionàtòtiò del datòte di lavòit. (Cà:ss., 19
gennaio 2011, n. 1145). Nel caso in esame, la circostanza relativa alla
partecipazione del lavoratore ad altra società è stato valorizzato dalla Corte
non già come causa autonoma del licenziamento bensì come circostanza
sintomatica della inaffidabilità del dipendente e della lesione del vincolo
fiduciario. Risulta così assorbita la questione circa la mancanza di prova
dello svolgimento di una attività in concorrenza con la società, trattandosi
di circostanza non decisiva.
18. Gli ultimi tre motivi di ricorso sono, in parte, inammissibili e, in parte,
19. Va in primo luogo rilevato che la Corte territoriale ha accertato che
l’ordine di cancellare i dati riguardava solo i messaggi di posta elettronica
e non anche l’ulteriore documentazione presente nel computer del
lavoratore, mentre ha ritenuto non provate le giustificazioni addotte da
quest’ultimo, e, in particolare, il fatto “di aver riversato tutti i dati su un CDROM messo a disposizione della società. Quanto alla circostanza dedotta
dal ricorrente, secondo cui la società avrebbe comunque recuperato tutti
dati da lui cancellati, la Corte territoriale l’ha espressamente smentita,
dik
ili
àlle ansosi2imi t ifÌÒflili à élìi ètà «AMO éllé1 8Cita
aveva potuto recuperare solo parte dei files cancellati attraverso il sistema
back up.
20. Tali accertamenti, in quanto sorretti da precise risultanze processuali (in
particolare le deposizioni dei testi Bonelli, De Sano, Canepa), sono
insindacabili in questa sede. Nei motivi di ricorso, così come nella
memoria ex art. 378 c.p.c., il lavoratore insiste diffusamente (negandole)
sulle indicate circostanze, ritenendo che sul punto la Corte territoriale
sarebbe incorsa in un travisamento dei fatti, che invece sarebbero diversi
seconde qualtt desumibile dalle depogizioni dei testi e al ~tenuto della
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secondo quanto desumibile dalle deposizioni dei testi e dal contenuto della
sua lettera di giustificazione (doc. 38, pag. 2, punto 18). I motivi, tuttavia,
difettano di autosufficienza, dal momento che la parte riporta solo stralci
delle deposizioni che ritiene fondanti le sue censure, mentre non trascrive
il contenuto della lettera di giustificazione, dal cui dovrebbe emergere la
messa a disposizione del CD-ROM contenente tutti i dati cancellati.
21. Si richiamano qui i principi già espressi nei punti che precedono (sub 10 e
11), in tema di autosufficienza (cui adde, ex plurimis, Cass., 28 febbraio
2006, n. 4405; Cass., 28 giugno 2006, n. 14973; Cass., 21 luglio 2010, n.
17097).
22. A fronte della su descritta ricostruzione del quadro fattuale da parte dei
giudici del merito, la valutazione della gravità degli addebiti e della loro
idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento si risolve in un
apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, il quale per stabilire
in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, tale da
comportare una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di
lavoro ed in particolare di quello fiduciario, deve valutare da un lato la
gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva
e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi
ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra i
fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario
su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale
da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare, definitivamente
espulsiva (cfr. ex plurimis Cass. 4 giugno 2002 n. 8107; Cass., 8 settembre
2006, n. 19270; Cass., 26 aprile 2012, n. 6498; Cass., 25 maggio 2012, n.
8293).
23. Anche sotto tale profilo, il giudizio della corte appare congruo ed
esaustivo; esso inoltre è sorretto dalle specifiche previsioni del C.C.N.L. il
quale prevede la sanzione del licenziamento in caso di “grave violazione
degli obblighi di cui all’art. 146, 1° e 20 comma, seconda parte” (art. 151)
tra cui rientra “l’obbligo di conservare diligentemente le merci e i
materiali dell’impresa” (artt. 146, comma secondo). Tale valutazioni in
termini di gravità non può essere disgiunta dalla considerazione, pure
rinvenibile in sentenza, del rilievo penale della condotta ascritta al
lavoratore, sotto la specie del reato di danneggiamento di dati informatici
previsto dall’alt 635 bis cod. pen., il quale deve ritenersi integrato anche
quando la manomissione ed alterazione dello stato di un computer sono
rimediabili soltanto attraverso un intervento recuperatorio postumo
comunque non reintegrativo dell’originaria configurazione dell’ambiente di
lavoro. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto la sussistenza del reato in un
caso in cui era stato cancellato, mediante l’apposito comando e dunque
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Presidente Lamorgese
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senza determinare la definitiva rimozione dei dati, un rilevante numero di
file, poi recuperati grazie all’intervento di un tecnico informatico
specializzato) (Cass. pen., ud. 18 novembre 2011, n. 8555, dep. 5 marzo
2012).
24. In definitiva, il ricorso deve essere rigettato, con la condanna del ricorrente
al pagamento delle spese del presente giudizio, nella misura indicata in
dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore
della controricorrente, delle spese del presente giudizio, che liquida in €
100,00 per esborsi e € 3500,00 per compensi professionali, oltre spese
generali e oneri accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2015
Il Presidente

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