Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9896 del 14/05/2015


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Civile Sent. Sez. L Num. 9896 Anno 2015
Presidente: VIDIRI GUIDO
Relatore: LORITO MATILDE

SENTENZA

sul ricorso 14238-2009 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio
dell’avvocato ROBERTO PESSI, che la rappresenta e
difende giusta delega in atti;
– ricorrente –

2015
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contro

ANTONINI IRMA C.F. NTNRMI57C52E975A, già elettivamente
domiciliata in ROMA, VIALE LIBIA 58, presso lo studio
dell’avvocato DOMENICO FERRI, rappresentata e difesa

Data pubblicazione: 14/05/2015

dall’avvocato VANTA MOLINI, giusta delega in atti e da
ultimo domiciliato presso la CANCELLERIA DELLA CORTE
SUPREMA DI CASSAZIONE;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 387/2008 della CORTE D’APPELLO

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 15/01/2015 dal Consigliere Dott. MATILDE
LORITO;
udito l’Avvocato MICELI MARIO per delega verbale PESSI
ROBERTO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. CARMELO CELENTANO, che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

di PERUGIA, depositata il 07/06/2008 R.G.N. 367/2007;

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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte d’appello di Perugia, con sentenza in data 7/6/08
confermava la pronuncia del giudice di primo grado con la quale
era stata accolta la domanda proposta da Antonini Irma nei
confronti della s.p.a. Poste Italiane, diretta ad ottenere la
declaratoria di nullità del termine apposto al contratto di
lavoro intercorso tra le parti dal 1/4/99 al 31/5/99 per
“esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione
degli assetti occupazionali in corso e in ragione della
graduale introduzione di nuovi processi produttivi ed in attesa
dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul
territorio delle risorse umane”. Confermava altresì la
statuizione di condanna della società alla riammissione in
servizio della lavoratrice oltre al risarcimento del danno con
decorrenza dall’epoca di messa in mora.
Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto
ricorso affidato a quattro motivi illustrati da memoria.
Resiste con controricorso la Antonini.
Infine la Corte ha autorizzato la stesura di motivazione
semplificata.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la società ricorrente deduce la violazione
e la falsa applicazione di norme di diritto, in relazione agli
artt. 1372, I comma, c. c., ai sensi dell’art. 360 n.3 c.p.c.,
nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione
circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai
sensi dell’art.360 n.5 c.p.c. assumendo l’erroneità della
decisione in ordine all’eccezione di risoluzione del rapporto
per mutuo consenso.
Deve rilevarsi come questa Corte abbia più volte affermato che
“nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della
sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo
indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al
contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa
configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso,
è necessario che sia accertata — sulla base del lasso di tempo
trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine,
nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali
circostanze significative — una chiara e certa comune volontà
delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni
rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della
portata del complesso di tali elementi di fatto compete al
giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in
sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di

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diritto” (v. Cass. 13-8-14 n.17940, Cass. 10-11-2008 n. 26935,
Cass. 28-9-2007 n. 20390).
Tale principio va enunciato anche in questa sede, rilevando,
inoltre che, come pure è stato precisato, “grava sul datore di
lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso,
l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi
la volontà chiara e certa delle parti di volere porre
definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 212-2002 n. 17070).
Nella specie la Corte d’Appello ha osservato, con motivazione
immune da vizi logico giuridici, che nella specie non vi era
stato alcun comportamento della lavoratrice che potesse far
presumere una sua acquiescenza alla risoluzione del rapporto e
che il solo decorrere del tempo tra la cessazione di
quest’ultimo e la contestazione e messa in mora (peraltro non
particolarmente significativo), non potesse essere in alcun
modo interpretato come volontà di accettazione della
risoluzione per mutuo consenso.
Con il secondo motivo la società censura (per violazione di
legge e vizio di motivazione) la sentenza impugnata nella parte
in cui ha ritenuto la nullità del termine apposto al contratto
de quo in quanto stipulato oltre la scadenza ultima fissata
dagli accordi collettivi attuativi dell’acc. az. 25-9-1997 ed
all’uopo sostiene la insussistenza di tale scadenza e la natura
meramente ricognitiva dei detti accordi.
Il motivo è infondato in base all’indirizzo ormai consolidato
in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema
vigente anteriormente al coni del 2001 ed al d.lgs. n. 368 del
2001).
Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato
precisato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva,
ex art. 23 della legge n. 56 del 1987, del potere di definire
nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti
dalla legge n.230 del 1962, discende dall’intento del
legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti
sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia
per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti
(con l’unico limite della predeterminazione della percentuale
di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati
a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità
di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti
ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di
lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare
contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al
datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo

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determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v. anche Cass. 20-42006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n.
14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a
favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono
destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione
di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma
dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale
in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato.”
(v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n.
18378).
In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite
temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con
accordi integrativi del contratto collettivo) la sua
inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione
del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass.
14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).
In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente
affermato e come va anche qui ribadito, “in materia di
assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo
sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del
c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo
attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno
convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione
straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente
ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione
degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla
data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la
legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30
aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio,
con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi
contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art.1 della
legge 18 aprile 1962 n. 230” (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007
n. 20608; Cass. 28-11-2008 n. 28450; Cass. 4-8-2008 n.21062;
Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).
In applicazione di tale principio va quindi respinto il detto
secondo motivo.
Con il terzo mezzo di impugnazione la ricorrente deduce
violazione e falsa applicazione dell’art.2697 c.c. nonché
omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un
fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi
dell’art.360 n.5 c.p.c. assumendo l’erroneità della decisione
laddove aveva posto a carico della società l’onere di
dimostrare il rispetto della quota percentuale dei lavoratori
assumibili con contratto a tempo determinato, rispetto ai
dipendenti a tempo indeterminato.

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Il motivo si palesa inammissibile, trattandosi di questione non
affrontata dalla pronuncia impugnata, che nessuna statuizione
ha emesso in ordine alla ripartizione dell’onere probatorio in
tema di rispetto delle quote percentuali di assunzione di
lavoratori a tempo determinato.
La Corte distrettuale si è infatti limitata a rimarcare come la
pattuizione contenuta nell’accordo del 25/9/97 non poteva
ritenersi nulla per una pretesa mancata indicazione della quota
percentuale rispetto ai lavoratori assunti a tempo
indeterminato, secondo quanto sostenuto in primo grado da parte
appellata. Ad avviso della Corte, invero, nessuna necessità di
previsione di detta quota era configurabile in relazione
all’accordo del settembre 1997, atteso che la stessa era già
stata stabilita dal c.c.n.l. del 26/11/94.
Con il quarto motivo la ricorrente censura poi la sentenza per
non avere tenuto conto che “l’aliunde perceptum_ non può che
essere genericamente dedotto dall’istante. Dovrebbe essere
invece onere del lavoratore dimostrare di non essere stato
occupato nel periodo in questione, per esempio a mezzo delle
dichiarazioni dei redditi relative ai periodi successivi alla
scadenza del contratto a termine eventualmente dichiarato
illegittimo e di altra eventuale documentazione (libretti di
lavoro, buste paga)”.
Il motivo, così riassunto, conclude poi con la formulazione di
un quesito più volte ritenuto inidoneo ed inammissibile da
questa Corte (v. fra le numerose altre Cass. 10-1-2011 n. 325).
Del resto anche la relativa censura risulta assolutamente
generica e priva di autosufficienza.
La ricorrente, infatti, non specifica come e in quali termini
aliunde
abbia allegato davanti ai giudici di merito un
perceptum (in relazione al quale è pur sempre necessaria una
rituale acquisizione della allegazione e della prova, pur non
necessariamente proveniente dal datore di lavoro in quanto
oggetto di eccezione in senso lato – cfr. Cass. 16-5-2005 n.
10155, Cass. 20-6-2006 n. 14131, Cass. 10-8-2007 n. 17606,
Cass. S.U. 3-2-1998 n. 1099).
Né è censurabile in questa sede il mancato accoglimento della
richiesta di esibizione di documentazione (libretti di lavoro
e buste paga) che (peraltro in tempo e in modo non precisato)
sarebbe stata avanzata dalla società.
Come questa Corte ha più volte chiarito, “il rigetto da parte
del giudice di merito dell’istanza di disporre l’ordine di
esibizione al fine di acquisire al giudizio documenti ritenuti
indispensabili dalla parte non è sindacabile in cassazione,
perché, trattandosi di strumento istruttorio residuale,

utilizzabile soltanto quando la prova del fatto non sia
acquisibile
allunde e l’iniziativa non presenti finalità
esplorative, la valutazione della relativa indispensabilità è
rimessa al potere discrezionale del giudice di merito e non
necessita neppure di essere esplicitata nella motivazione, il
mancato esercizio di tale potere non essendo sindacabile
neppure sotto il profilo del difetto di motivazione” (v. fra le
altre Cass. 14-7-.2004 n. 12997, Cass. sez. I 17-5-2005 n.
10357, Cass. sez. III 2-2-2006 n. 2262). D’altra parte
“l’esibizione di documenti non può essere chiesta a fini
meramente esplorativi, allorquando neppure la parte istante
deduca elementi sulla effettiva esistenza del documento e sul
suo contenuto per verificarne la rilevanza in giudizio” (v. fra
le altre Cass. 20-12-2007 n. 26943).
Così risultato inammissibile, in specie, l’ultimo motivo,
riguardante le conseguenze economiche della nullità del
termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente
giudizio lo ius superveniens, rappresentato dall’art. 32, commi
5 0 , 6 ° e 7 ° della legge 4 novembre 2010 n. 183.
Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato,
in via di principio, costituisce condizione necessaria per
poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens
che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova
disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima
sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto
di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo
di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici
motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 272-2004 n. 4070).
In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso
che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla
disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia
altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra
le altre Cass. 4-1-2011 n. 80).
Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.
Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente, in ragione
della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese in
favore della Antonini nella misura in dispositivo liquidata.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare le
spese del presente giudizio liquidate in euro 100,00 per esborsi e
euro 3.500,00 per compensi, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma il 15 gennaio 2015.

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