Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 989 del 20/01/2021

Cassazione civile sez. I, 20/01/2021, (ud. 06/11/2020, dep. 20/01/2021), n.989

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20029/2016 proposto da:

T.S., elettivamente domiciliato in Roma, Via Carlo

Felice 89, presso lo studio dell’avvocato Mariani Tiziana,

rappresentato e difeso dall’avvocato Pellegrini Andrea, giusta

procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

doBANK S.p.a., già Unicredit Credit Management Bank S.p.a., quale

mandataria di Arena Npl One S.r.l., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via

Fara Sabina 2, presso lo studio dell’avvocato De Mattia Massimo,

rappresentata e difesa dall’avvocato Picchioni Giuseppe, giusta

procura in calce al controricorso;

contro

M.M.G.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1168/2015 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

pubblicata il 22/06/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

06/11/2020 dal cons. Dott. FALABELLA MASSIMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – T.S. proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti per l’importo di Lire 30.795.856, oltre interessi e spese: il credito azionato monitoriamente aveva ad oggetto il saldo debitore di un’apertura di credito in conto corrente (n. (OMISSIS)) ed era stato quantificato operando la detrazione derivante dal ricavato della vendita di titoli costituiti in pegno, a garanzia dell’esposizione debitoria (ricavato pari alla somma di Lire 428.756.425).

T. deduceva di non aver mai convenuto con la banca alcuna apertura di credito e assumeva che la firma apposta sul relativo modulo prodotto da controparte risultava essere apocrifa; sosteneva, altresì, di non aver mai utilizzato alcuna somma depositata sul conto corrente e lamentava che la banca avesse provveduto illegittimamente alla vendita dei titoli senza ricevere alcuna autorizzazione in tal senso.

L’ingiungente, Carimonte Banca s.p.a., si costituiva in giudizio; assumeva: che i titoli venduti risultavano essere di proprietà della moglie dell’intimato, M.M.G., costituitasi fideiussore del marito; che l’opponente aveva regolarmente utilizzato il conto per addebiti e prelievi, ricevendo i relativi estratti conto, che non erano mai stati contestati; che M.M.G. aveva operato sul conto essendo stata a ciò delegata dal marito.

Con altro decreto ingiuntivo veniva ingiunto a Stavros T. il pagamento, in favore di Carimonte Banca s.p.a., della somma di Lire 100.000.000, oltre interessi e spese, con riferimento a un’apertura di credito in conto corrente accesa da M.M.G.: rapporto rispetto al quale l’intimato aveva prestato fideiussione.

Anche tale decreto era opposto da T., il quale contestava l’autenticità della firma apposta in calce al modulo di fideiussione.

Nel corso del giudizio veniva chiamata in causa M.M.G..

I due procedimenti venivano riuniti.

Espletata consulenza tecnica grafica, il Tribunale di Modena rendeva sentenza non definitiva con cui revocava il secondo decreto ingiuntivo, reputando apocrifa la sottoscrizione dell’atto di fideiussione; con riferimento al giudizio avente ad oggetto l’opposizione al primo decreto ingiuntivo, accoglieva l’eccezione di nullità della clausola anatocistica e rimetteva la causa in istruttoria al fine di rideterminare, a mezzo di consulenza tecnica d’ufficio, il credito della banca, siccome privato della capitalizzazione.

Con successiva sentenza lo stesso Tribunale, accertata la misura degli interessi anatocistici non dovuti, rideterminava il credito fatto valere col primo decreto ingiuntivo in ragione di Euro 11.042,07, onde revocava il detto provvedimento monitorio condannando l’opponente al pagamento dell’indicata somma.

2. – T.S. proponeva appello; resisteva al gravame Unicredit Credit Management Bank, subentrata all’originaria ingiungente.

Con sentenza del 22 giugno 2015, la Corte di appello di Bologna rigettava l’impugnazione: impugnazione integralmente vertente su quanto maturato con riferimento all’apertura di credito che accedeva al conto corrente n. (OMISSIS), e quindi sulla pretesa che era stata originariamente azionata con il primo ricorso per ingiunzione.

La Corte di merito si occupava, anzitutto, della questione relativa all’estensione dell’affidamento bancario fino alla concorrenza di Lire 350.000.000, prendendo in esame la deduzione dell’appellante incentrata sul rilievo per cui nel corso del giudizio era stata accertata la falsità della firma apposta sul modulo contrattuale che contemplava detta estensione. Osservava, al riguardo, che il correntista aveva operato sul conto emettendo assegni e utilizzando l’affidamento, sicchè nella fattispecie doveva ritenersi essersi perfezionato, per fatti concludenti, un contratto di aumento del fido; aggiungeva che in tal senso assumeva rilievo anche “il regolare inoltro degli estratti conto al correntista dallo stesso mai contestati”. Il giudice distrettuale disattendeva, inoltre, la censura dell’appellante basata sulla validità della procura conferita dallo stesso alla moglie (quanto al potere di effettuare operazioni sul conto corrente: osservava che era stata accertata l’autenticità della sottoscrizione apposta sull’atto di conferimento del potere rappresentativo e rilevava che T. era tenuto a verificare il comportamento del rappresentante e l’andamento del conto corrente, dovendo rispondere, nei confronti dell’istituto di credito, delle somme utilizzate e dello scoperto di conto prodottosi. Infine, per quanto qui rileva, la Corte di appello respingeva il motivo di gravame con cui era stata denunciata l’omessa pronuncia sulla questione relativa alla proprietà dei titoli venduti dalla banca: al riguardo, il giudice dell’impugnazione precisava sussistere prova documentale che i titoli appartenevano a M.M.G., la quale ne aveva autorizzato la vendita.

3. – T.S. ricorre per cassazione contro tale sentenza: lo fa svolgendo quattro motivi. Resiste con controricorso doBank s.p.a., già denominata Unicredit Credit Management Bank, quale rappresentante di Arena NPL One s.r.l., attuale titolare del credito in contestazione.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo di ricorso oppone la violazione degli artt. 1325,1418 e 1423 c.c. con riguardo al capo della sentenza in cui viene affermato che, a prescindere dalla falsità della firma apposta in calce al contratto di aumento del fido concluso datato 29 aprile 1993, “l’intesa doveva ritenersi valida e vincolante tra le parti per effetto della presunta condotta concludente che sarebbe stata successivamente tenuta” dallo stesso istante. Rileva il ricorrente che non poteva ritenersi confermato o convalidato per fatti concludenti un contratto viziato dall’assenza della volontà del suo contraente, e quindi mancante dell’elemento essenziale costituito dall’accordo delle parti; deduce, in proposito, che tale questione risultava essere assorbente rispetto a quella circa il valore da conferirsi alla condotta tenuta dal correntista a seguito della conclusione del contratto nullo.

Il motivo è inammissibile, in quanto non coglie il senso della decisione impugnata.

La Corte di merito non ha punto affermato che il contratto di estensione dell’apertura di credito a lire 350.000.000 fu oggetto di tacita convalida da parte dell’odierno ricorrente; ha rilevato, invece, che tale negozio doveva ritenersi concluso per fatti concludenti. Il ricorrente non fa del resto questione della validità del detto negozio sotto il profilo della sua forma: e ciò, all’evidenza, in quanto le disposizioni contenute nel D.M. 24 aprile 1992 e nelle istruzioni della Banca d’Italia, al pari delle prescrizioni di cui alla Delib. C.I.C.R. 4 marzo 2003, emanata in attuazione dell’art. 117, comma 2 t.u.b., escludono che il contratto di apertura di credito, qualora risulti già previsto e disciplinato da un contratto di conto corrente stipulato per iscritto, debba essere documentato a sua volta, a pena di nullità (Cass. 9 luglio 2005, n. 14470; più di recente: Cass. 27 marzo 2017, n. 7763; Cass. 22 novembre 2017, n. 27836).

2. – Col secondo motivo viene lamentata la violazione degli artt. 1335,1832,1842,2697 c.c. e 119t.u.b., oltre che degli artt. 1325,1326 e 1327 c.c., nonchè vizio di omessa motivazione su fatti decisivi per il giudizio “nel capo della sentenza in cui la Corte di appello ha ravvisato una condotta di tacita accettazione del contratto di estensione del fido nella mancata contestazione”, da parte del ricorrente, “degli estratti conto e nel compimento di operazioni in conto corrente”. Viene rilevato che tanto nel corso del giudizio di primo grado, quanto in quello di appello, l’istante aveva fermamente contestato di aver ricevuto gli estratti conto: fatto, questo, della cui prova era onerata la banca. Assume il ricorrente che il fatto storico dell’avvenuta ricezione dei detti documenti – evenienza ritenuta decisiva in sede di merito per affermare la sussistenza di una conferma, da parte dello stesso T., dell’estensione del fido da Lire 200.000.000 a Lire 350.000.000 – aveva formato oggetto di ampio dibattito processuale e che, ciononostante, la Corte di appello aveva omesso di pronunciarsi al riguardo: per il che doveva ritenersi integrato il vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5. Osserva inoltre l’istante che la decisione risultava affetta anche dalla violazione degli artt. 1335,2697,1832,1842 c.c. e art. 119 t.u.b., avendo il giudice distrettuale esonerato la banca dalla prova circa la comunicazione degli estratti conto. Lamenta infine il ricorrente che la sentenza impugnata aveva attribuito rilievo a una propria operatività sul conto corrente, senza indicare l’ammontare delle operazioni compiute e senza riscontrare se vi fosse stato un concreto utilizzo dell’apertura di credito per l’importo eccedente la somma di Lire 200.000.000.

Il motivo è nel complesso infondato.

Poichè la Corte di appello ha ritenuto che la volontà del ricorrente di operare l’estensione dell’apertura di credito poggiasse, tra l’altro, sulla mancata contestazione degli estratti conto inoltrati dalla banca, non può farsi questione di una errata applicazione delle regole dell’onere probatorio. Il giudice distrettuale non ha infatti affermato che competeva al correntista dar prova della ricezione degli estratti conto, ma, nell’assumere che essi erano stati inoltrati e non contestati, ha evidentemente reputato che essi fossero stati regolarmente recapitati allo stesso T. (così come aveva del resto ritenuto, in primo grado, il Tribunale: cfr. ricorso, pag. 14). Ciò detto, occorre ricordare che una violazione della disciplina normativa in tema di onere probatorio è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito il detto onere ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. 29 maggio 2018, n. 13395; Cass. 17 giugno 2013, n. 15107; cfr. pure Cass. 12 febbraio 2004, n. 2707).

D’altro canto, la denuncia dell’omesso esame del fatto storico consistente nella mancata ricezione, da parte sua, degli estratti conto non appare fondata: ciò per due ordini di ragioni.

Anzitutto la mancata consegna degli estratti conto è circostanza che risulta non già trascurata, ma negata (ancorchè implicitamente) dalla Corte di merito, la quale ha dato atto, come si è visto, che i detti documenti erano stati inoltrati e non contestati; all’evidenza, il giudice di legittimità ha ritenuto che dall’invio degli estratti conto potesse desumersene il recapito (perchè, diversamente, non avrebbe conferito rilievo all’approvazione tacita dei medesimi). Va aggiunto, in proposito, che al giudice del gravame non era affatto inibito di basare la prova della consegna degli estratti conto su presunzioni (cfr., infatti, Cass. 13 gennaio 1988, n. 178) e che non sono state formulate specifiche censure sul punto dell’inferenza probatoria correlata all’inoltro dei documenti in questione.

In secondo luogo, la Corte di merito mostra di basare il proprio convincimento circa l’estensione dell’apertura di credito per fatti concludenti pure sull’emissione di assegni (per importi eccedenti il fido), come pure su di un utilizzo del conto, “in modo del tutto analogo ai periodi precedenti” da parte proprio di T. (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata).

E’ vero, a quest’ultimo proposito, che l’istante deduce di aver contestato, in appello, detta circostanza, assumendo che gli assegni esorbitanti la linea di credito di Lire 200.000.000 sarebbero stati tratti da sua moglie. Ma, contrariamente a quanto ritenuto nel ricorso, sul punto non può ravvisarsi un vizio motivazionale della sentenza impugnata. Il giudice distrettuale ha dato conto delle ragioni per cui, sulla base delle risultanze documentali sottoposte al suo esame, doveva ritenersi che T. fosse consapevole di utilizzare una linea di credito più ampia rispetto a quella di cui aveva goduto in precedenza; ora, l’istante non spiega quali operazioni oltre il fido concesso e poste in essere, a sua insaputa, dalla moglie, egli avesse indicato (e documentato) al giudice di appello per sostenere che l’operatività del conto oltre il limite dell’apertura di credito fosse da imputare solo a M.M.G.. Ciò detto, l’affermazione della Corte distrettuale circa l’evidenza di un rilascio di assegni e di un utilizzo della apertura di credito – oltre il limite sopra indicato – da parte dell’odierno ricorrente, riflette un apprezzamento del giudice del merito, in sè non sindacabile nella presente sede; poichè, poi, in questa sede non risulta chiarito quali deduzioni siano state svolte, in appello, per sostenere che le operazioni oltre l’ammontare di Lire 200.000.000 furono poste in atto dalla moglie di T., non può dirsi che la sentenza impugnata sia affetta dal denunciato vizio motivazionale; di tale vizio si sarebbe infatti potuto parlare solo a fronte di puntali rilievi dell’appellante, riferiti a operazioni bancarie specificamente individuate, poste in essere da M.M.G. ed eccedenti la linea di credito accordata.

3. – Il terzo motivo di ricorso censura la sentenza impugnata per violazione del combinato disposto degli artt. 1269 e 1852 c.c. nel capo in cui viene affermato che la procura rilasciata a M.M.G. autorizzava questa ad operare sul conto corrente senza alcuna limitazione, anche oltre la provvista disponibile. Viene rilevato che “il conto corrente è un contratto stipulato dal correntista e non dal delegato”, sicchè l’autorizzazione concessa a quest’ultimo “non può che rimanere circoscritta nel perimetro del contratto principale di cui la delega è un atto negoziale accessorio”.

Il motivo non è fondato.

E’ certamente vero che l’accordo tra il cliente e la banca, in base al quale anche altro soggetto a ciò delegato è autorizzato a compiere operazioni sul conto corrente, spiega unicamente l’effetto, per le operazioni e nei limiti di importo stabiliti, di vincolare la medesima banca a considerare alla stessa stregua di quella del delegante la firma di tale delegato, ma non comporta il conferimento a quest’ultimo di un potere generale di agire in rappresentanza del detto delegante per il compimento di qualsiasi tipo di atto negoziale riferibile al conto in esame (Cass. 17 gennaio 2020, n. 859; Cass. 22 maggio 2007, n. 11866): ma è altrettanto vero che tale principio non può trovare applicazione nella fattispecie in esame, in cui è rimasto accertato che il ricorrente ebbe, per fatti concludenti, ad estendere l’apertura di credito fino alla concorrenza della somma di Lire 350.000.000; ricorrendo tale stato di fatto, deve riconoscersi che le ipotetiche movimentazioni poste in essere da M.M.G. – la quale, secondo l’istante, avrebbe disposto della provvista eccedendo il limite dell’affidamento precedentemente concesso (Lire 200.000.000) – non possono considerarsi espressione di un abuso del potere rappresentativo a questa conferito; l’ambito dell’operatività della medesima va infatti commisurato alla più ampia linea di credito tacitamente accordata dalla banca al ricorrente.

4. – Col quarto mezzo è dedotta la violazione degli artt. 2733 c.c., 116, 228 e 229 c.p.c. con riguardo al capo della sentenza in cui è affermato che M.M.G. era proprietaria dei titoli portati in compensazione della banca, nonostante quest’ultima “ne avesse confessoriamente riconosciuto la proprietà” in capo al ricorrente. Questo evidenzia come solamente in sede di opposizione a decreto ingiuntivo l’istituto di credito aveva modificato la propria linea difensiva, sostenendo che i valori mobiliari che aveva inizialmente affermato essere di proprietà del ricorrente appartenevano alla di lui moglie ed erano depositati in un dossier a questa intestato.

Il motivo deve essere disatteso.

Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, il ricorso per ingiunzione non contiene alcun preciso riconoscimento della proprietà, in capo a lui, dei titoli concessi in pegno. Peraltro, la doglianza è formulata pure in modo generico, in quanto l’istante si limita ad affermare che il ricorso per ingiunzione recherebbe la sottoscrizione del legale rappresentante della banca, senza nemmeno chiarire se con tale sottoscrizione il predetto abbia assunto la paternità della procura ad litem o della domanda monitoria. Tale vaghezza non è priva di rilievo, ma si riflette sulla stessa decisività della censura (o meglio, si rifletterebbe su tale decisività se non fosse già risolutivo quanto osservato in precedenza): infatti, le ammissioni contenute negli scritti difensivi, sottoscritti unicamente dal procuratore ad litem, costituiscono elementi indiziari liberamente valutabili dal giudice per la formazione del suo convincimento, mentre esse possono assumere anche il carattere proprio della confessione giudiziale spontanea, alla stregua di quanto previsto dagli artt. 228 e 229 c.p.c., qualora l’atto sia stato sottoscritto dalla parte personalmente, con modalità tali che rivelino inequivocabilmente la consapevolezza delle specifiche dichiarazioni dei fatti sfavorevoli in esso contenute (Cass. 28 settembre 2018, n. 23634).

5. – In conclusione, il ricorso è respinto.

6. – Le spese del giudizio seguono la soccombenza.

PQM

La Corte

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, , dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 6 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2021

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