Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9886 del 26/05/2020

Cassazione civile sez. III, 26/05/2020, (ud. 15/01/2020, dep. 26/05/2020), n.9886

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17267-2018 proposto da:

G.S., M.M., G.A., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA DEL TRITONE presso lo studio dell’avvocato

GIUSEPPE MINGIARDI, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

GENERALI ITALIA SPA, in persona dei procuratori speciali,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 28, presso lo

studio dell’avvocato GIUSEPPE CILIBERTI, che la rappresenta e

difende;

CENTRO CLINICO DIAGNOSTICO GB MORGAGNI SRL, in persona del

Consigliere Delegato in carica pro tempore, domiciliato ex lege in

ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato

e difeso dagli avvocati LEONARDO CASTORINA, LUCA ENRICO CASTORINA;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 2179/2017 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 23/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/01/2020 dal Consigliere Dott. OLIVIERI STEFANO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza in data 23.11.2017 n. 2179 la Corte d’appello di Catania ha rigettato l’appello principale proposto da G.A., G.S. e M.M., e confermato la decisione di prime cure che aveva ritenuto infondata la domanda risarcimento danni per responsabilità contrattuale medica proposta dai predetti nei confronti del Centro Clinico Diagnostico GB Morgagni s.r.l..

Il Giudice territoriale ha rilevato che nessun addebito poteva muoversi ai medici della struttura sanitaria che avevano eseguito in data 7.11.2000 l’esame radiografico ed in data 9.5.2001 l’ecografia dei tessuti molli, eseguiti con indicazione di insorta algia coxofemorale sinistra, per non avere tempestivamente diagnosticato la patologia di “epifisiolisi della metà craniale nella porzione cefalica del femore sinistro” emersa in un successivo esame RX in data 19.11.2001 (ritardo che avrebbe determinato l’aggravamento del danno biologico residuato dalle evoluzione della patologia), atteso che come emergeva dalla relazione dello specialista radiologo Dott. Magnano, di cui era stato autorizzato ad avvalersi il CTU Dott. Iannuzzi, non risultavano errori tecnici nella esecuzione dei radiogrammi, i quali non evidenziavano anomalie anatomiche deponenti per la diagnosi di epifisiolisi. Aggiungeva la Corte d’appello che anche il CTU aveva concluso per escludere alcuna responsabilità per errata lettura dei radiogrammi, e che le altre considerazioni svolte dall’ausiliario in ordine ad eventuali negligenze dei sanitari per avere omesso di consigliare al paziente di sottoporsi ad altro successivo controllo strumentale, non consideravano che il G. si era presentato ad esame su prescrizione del proprio medico curante e dunque era soltanto questi che avrebbe dovuto orientare la indagine del radiologo, mentre dalla risultanze istruttorie emergeva che era stata fornita soltanto una indicazione di “semplice strappo muscolare”, ciò che giustificava appunto l’ulteriore esame ecografico dei tessuti molli cui era stato sottoposto il G. presso il medesimo Centro. Pertanto non essendo posto neppure un semplice sospetto della patologia in questione, alcun ulteriore esame avrebbe potuto e dovuto essere consigliato dal radiologo in esito alla negatività delle evidenze radiologiche.

La sentenza di appello è stata ritualmente impugnata per cassazione da G.A. e dai genitori G.S. e M.M. con ricorso affidato a quattro motivi ai quali resistono con distinti controricorsi il Centro Clinico Diagnostico GB Morgagni s.r.l. e Generali Italia s.p.a. conferitaria del portafoglio assicurativo già di Assitalia s.p.a..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con i primi due motivi di ricorso la sentenza di appello viene impugnata per “illogicità della motivazione ed errore di fatto in ordine alla valutazione delle prove dei fatti decisivi” (primo e secondo motivo) ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Sostengono i ricorrenti: a) che le motivazioni dei due Giudici di merito erano diverse e dunque non trovava applicazione quindi la preclusione prevista dall’art. 348 ter c.p.c., comma 5; b) che la Corte d’appello non aveva correttamente valutato le conclusioni del CTU che aveva invece evidenziato come dai minimi segni desumibili dalle lastre e dalla condizione del paziente i medici avrebbero dovuto consigliare la ripetizione dell’esame RX o l’effettuazione di ulteriori esami (RM), sicchè la motivazione della sentenza appariva del tutto insufficiente, contraddittoria ed affetta da gravi vizi logici; c) che emergeva la certa responsabilità dei sanitari i quali non avevano predisposto la esecuzione di ulteriori controllo doverosi.

I motivi sono inammissibili in relazione a molteplici profili.

Diversamente da quanto opinato dai ricorrenti, la valutazione probatoria dei fatti compiuta dal primo e dal secondo Giudice coincide pienamente. L’elemento differenziale cui si riferiscono i ricorrenti, non attiene alle “ragioni inerenti le questioni di fatto”, quanto alle conclusioni che su tali questioni prospetta il CTU, conclusioni -secondo i ricorrenti- disattese dal Tribunale in quanto incompatibili con quelle dello specialista, ed invece ritenute compatibili con la relazione dello specialista dalla Corte d’appello. Tale differenza tuttavia oltre a non attenere alla valutazione dei fatti storici- non sussiste affatto, laddove come è dato evincere dalla trascrizione nel ricorso (pag. 6-7) della motivazione della decisione del Tribunale, il primo Giudice si è discostato da tali conclusioni, così come identicamente la Corte d’appello, non in relazione all’errore od omissione diagnostica, ma accertando invece che non sussisteva, in relazione alle circostanze concrete, alcun doveroso intervento da parte dei sanitari volto a sollecitare ulteriori esami strumentali, in quanto non risultava che il paziente fosse “in cura” presso il Centro, ma era stato ivi soltanto indirizzato dal proprio medico curante per eseguire l’RX con indicazione di presunto “strappo muscolare”.

In sostanza i percorsi motivazionali e valutativi delle risultanze probatorie compiuti dai due Giudice sono del tutto sovrapponibili, e dunque le censure ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, rimangono precluse all’accesso al sindacato di legittimità ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., comma 5.

Le censure sarebbero, comunque, inammissibili in quanto le argomentazioni critiche svolte vengono a richiedere una differente valutazione del materiale probatorio ed una diversa valutazione delle indagini svolte dall’ausiliario, in evidente difformità dai limiti imposti dal dedotto vizio di legittimità, come configurato dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, a seguito della novella dei cui al D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. in L. n. 1134 del 2012, art. 54, norma che, nella interpretazione ormai affermatasi di questa Corte, consente di contestare esclusivamente l'”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”: l’ambito in cui opera il vizio motivazionale deve individuarsi, pertanto, nella omessa rilevazione e considerazione da parte del Giudice di merito di un “fatto storico”, principale o secondario, ritualmente verificato in giudizio e di carattere “decisivo” in quanto idoneo ad immutare l’esito della decisione (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014; id. Sez. U, Sentenza n. 19881 del 22/09/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016), non accedendo alla verifica di legittimità la critica alla inadeguatezza del percorso logico posto a fondamento della decisione condotta alla stregua di elementi istruttori extratestuali, e residuando, oltre alla ipotesi omissiva indicata, soltanto la verifica della esistenza del requisito essenziale di validità della sentenza ex art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), inteso nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6.

Nella specie i ricorrenti si limitano a perorare la soluzione prospettata dal CTU, senza tuttavia incidere sulle argomentazioni svolte dal Giudice di merito per disattendere motivatamente la ipotesi di responsabilità prospettata dall’ausiliario: la Corte d’appello ha infatti evidenziato come lo stesso CTU avesse ammesso che la diagnosi radiografica della patologia “risultava francamente molto poco agevole, facendo così scemare ogni eventuale ipotesi di responsabilità professionale” (cfr. motivazione sentenza pag. 7 in cui è trascritta la relazione del CTU) e da ciò ha concluso, supportata anche dalla relazione dello specialista che alcun addebito colposo fosse formulabile a carico dei sanitari del Centro per la omessa diagnosi, rilevando come il distinto profilo di responsabilità ipotizzato dal consulente non trovava riscontro nelle circostanze concrete, atteso che: a) il G. non era in cura presso il Centro; b) il radiologo era stato investito soltanto dell’esame e della diagnosi, peraltro su mera indicazione, da parte del medico curante, di un presunto “strappo muscolare”; c) neppure era stato dimostrato che il G. avesse riferito al radiologo altre notizie anamnestiche rilevanti.

Trattasi di accertamento in fatto che non è sottoponibile a verifica in sede di legittimità attesa la mancata indicazione del “fatto storico omesso” (i ricorrenti, infatti, riportano la vicenda fattuale negli stessi termini in cui è stata rilevata ed esaminata dal Giudice di merito, lamentando -non la carenza di una o più circostanze di fatto ossia la incompletezza della fattispecie concreta- quanto piuttosto la qualificazione valoriale attribuita a tali fatti -della cui esistenza storica non sussiste, pertanto, alcun dubbio- in funzione del giudizio di responsabilità), confina la censura nella inammissibilità, rimanendo estranea al sindacato di legittimità la mera contestazione volta a criticare il “convincimento” che il Giudice si è formato, ex art. 116 c.p.c., comma 1 e 2, in esito all’esame del materiale probatorio (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016), così come la contestazione di errori attinenti alla individuazione di “questioni” od “argomentazioni” relative all’esercizio del potere discrezionale di apprezzamento delle prove (cfr. Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 21152 del 08/10/2014), e risultando in ogni caso precluso nel giudizio di cassazione l’accertamento dei fatti ovvero la loro valutazione a fini istruttori (cfr. Corte Cass. Sez. L, Sentenza n. 21439 del 21/10/2015).

Nè viene in questione, nella specie, la nullità della sentenza per carenza dell’elemento motivazionale, vizio anch’esso dedotto con i motivi di ricorso in esame.

Premesso che la motivazione è solo “apparente”, ovvero “perplessa” o “incomprensibile”, e la sentenza è quindi nulla perchè affetta da “error in procedendo”, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, e premesso ancora che il vizio di contraddittorietà di motivazione presuppone un’insanabile inconciliabilità tra le varie ragioni ed argomentazioni poste dal giudice a giustificazione della soluzione adottata, sì da elidersi a vicenda e da rendere impossibile l’individuazione del procedimento logico-giuridico seguito per giungere alla decisione (Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 3286 del 11/06/1979; id. Sez. 2, Sentenza n. 7476 del 04/06/2001), occorre rilevare che, quanto al vizio di contraddittorietà insanabile, la censura non rispetta il canone di specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, essendo stata omessa la trascrizione delle proposizioni testuali tratte dalla sentenza impugnata e tali per cui non potrebbe in alcun modo individuarsi la “ratio decidendi” su cui è fondata la decisione di rigetto della domanda risarcitoria (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 3248 del 02/03/2012).

Con il terzo motivo si censura la sentenza di appello per violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 1228 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

I ricorrenti riproducono gli stessi argomenti svolti nei precedenti motivi, limitandosi ad affermare di avere fornito prova del “contatto sociale” e dell’errore diagnostico e dunque era errata la statuizione della Corte territoriale secondo il G. non era in cura presso il Centro.

Il motivo è inammissibile in quanto non coglie la “ratio decidendi”.

La Corte d’appello non ha affatto inteso escludere il contatto sociale tra il medico del Centro ed il paziente: ma se da un lato tale “contatto” non riveste alcuna rilevanza nel caso di specie in cui viene in questione la responsabilità ex contractu della struttura sanitaria, dall’altro lato è appena il caso di evidenziare come il Giudice di merito, proprio sul presupposto della esistenza di un rapporto contrattuale è venuto ad accertare le condotte professionali dei sanitari di cui il Centro si avvaleva per verificare eventuali errori nella applicazione delle “leges artis” e quindi difetti di diligenza ex art. 1176 c.c., comma 1, nella esecuzione della prestazione medica: non vi è dunque una violazione delle norme in tema di responsabilità di contrattuale, ma i ricorrenti, anche in reazione al diverso profilo dell'”error juris” vengono di fatto a richiedere, inammissibilmente, una differente valutazione di merito rispetto a quella compiuta dal Giudice di appello.

Con il quarto motivo si deduce la violazione dell’art. 91 c.p.c., in relazione al capo della sentenza di appello che ha posto le spese del grado a carico degli appellanti principali, in quanto secondo la tesi dei ricorrenti, il Giudice di merito avrebbe dovuto invece accogliere l’appello avverso la sentenza di primo grado.

La doglianza rimane assorbita nella infondatezza ed inammissibilità dei precedenti motivi di ricorso, non essendo peraltro in essa ravvisabili neppure i requisiti minimi prescritti per l’ammissibilità del motivo di ricorso per cassazione ex art. 366 c.p.c..

In conclusione il ricorso deve essere rigettato.

La soccombenza dei ricorrenti obbliga gli stessi alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Condanna i ricorrenti al pagamento in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, in favore di ciascuno di essi, in Euro 3.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il versamento, se e nella misura dovuto, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2020

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