Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9885 del 26/05/2020

Cassazione civile sez. III, 26/05/2020, (ud. 15/01/2020, dep. 26/05/2020), n.9885

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9438-2018 proposto da:

R.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA

MELORIA 52, presso lo studio dell’avvocato GENNARO IMPROTA, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUCIA MANCUSI;

– ricorrente –

contro

CASA DI CURA MARIA ROSARIA SPA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3870/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 22/09/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/01/2020 dal Consigliere Dott. OLIVIERI STEFANO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

In sede di giudizio di rinvio, a seguito della sentenza di questa Corte di legittimità in data 15.5.2012 n. 7549 – che aveva cassato, per errori nella attività di giudizio inerenti la applicazione della regola di causalità materiale ed il corretto riparto dell’onere probatorio, la sentenza di appello con la quale era stata rigettata la domanda risarcitoria, proposta da R.R., per responsabilità professionale “ex contractu”, nei confronti della Casa di cura Maria Rosaria s.p.a., avendo la danneggiata contratto la infezione del virus dell’epatite C in conseguenza di trasfusioni di sacche di sangue impiegate nel corso dell’intervento chirurgico di rimozione di calcoli renali eseguito in data 4.12.1987 -, la Corte d’appello di Napoli, con sentenza in data 22.9.2017 n. 3870, ha accolto l’appello principale proposto dalla Casa di cura e dichiarato assorbito l’appello incidentale proposto dalla R., rigettando la domanda di condanna al risarcimento dei danni proposta da quest’ultima, rilevando che alcun vincolo ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, derivava dalla pronuncia della Corte di legittimità in ordine all’accertamento della responsabilità nell'”an”, e ritenendo che la Casa di cura avesse assolto all’onere della prova del diligente adempimento della prestazione, avendo dimostrato di avere osservato tutte le prescrizioni di legge, vigenti al tempo, relative al controllo della tracciabilità delle sacche di sangue che le erano state fornite dal Centro AVIS di Pompei, corredate da “schede tecniche” relative alla individuazione dei donatori ed alle prove di compatibilità pretrasfusionali.

La Corte territoriale ha, inoltre, dichiarato inammissibile l’appello incidentale spiegato con intervento volontario da C.N., coniuge della R., essendosi formato il giudicato interno sulla statuizione di rigetto della domanda dell’interveniente contenuta nella sentenza di appello, dallo stesso non impugnata per cassazione, ed ha dichiarato assorbito l’appello incidentale proposto dalla R., atteso che i motivi di gravame investivano soltanto questioni relative al “quantum”.

La sentenza di appello, non notificata, è stata impugnata da R.R. con ricorso per cassazione affidato a tre motivi, notificato telematicamente, in data 20.3.2018, all’indirizzo PEC del difensore della Casa di cura Maria Rosaria s.p.a..

La intimata non ha svolto difese.

La ricorrente ha depositato anche memoria illustrativa ex art. 380 bis c.p.c., comma 1.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con i primi due motivi, che possono essere trattati congiuntamente, R.R. impugna la sentenza di appello deducendo violazione dell’art. 1176 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. (primo motivo), nonchè violazione degli artt. 1218,1225,2043, 2056 e 2697 c.c., dell’art. 115 c.p.c. (secondo motivo), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Deduce che il Giudice territoriale aveva errato a ritenere esente da responsabilità la Casa di cura per il solo fatto che le sacche di sangue fossero state rifornite dal Centro trasfusionale AVIS, in quanto, pur essendo al tempo ignoti i marcatori del virus C, tuttavia era già a conoscenza della comunità medica la esistenza di virus epatico “non A, non B” ed il rischio di contagio del virus per mezzo del sangue. Sostiene, quindi, che la Casa di cura avrebbe dovuto “autonomamente” eseguire ex novo, sulle singole sacche di sangue, tutti i controlli -con le migliori tecniche disponibili al tempo – volti ad accertare la presenza di valori alterati delle transaminasi, indipendentemente dalla circostanza se tali verifiche fossero state già eseguite dal Centro AVIS.

2. I motivi sono entrambi fondati, risultando violate dalla pronuncia della Corte territoriale le norme di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, ed all’art. 1218 c.c..

3. La prova liberatoria cui è tenuto il debitore, ai sensi dell’art. 1218 c.c., di avere prestato tutta la dovuta diligenza nell’esecuzione della obbligazione contrattuale, non può non essere inquadrata nell’ambito delle prescrizioni normative e dell’osservanza scrupolosa della prassi e dei protocolli medici vigenti al tempo dei fatti.

Sul punto è chiarissimo il vincolo imposto ex art. 384 c.p.c., comma 2, al Giudice del rinvio dalla sentenza n. 7549/2012 di cassazione con rinvio, laddove al paragrafo 7.1 della motivazione, dopo aver definito il criterio di riparto dell’onere della prova nelle obbligazioni professionali, statuisce che ” Per quanto concerne, in particolare, l’ipotesi del contagio da emotrasfusione eseguita all’interno della struttura sanitaria, gli obblighi a carico della struttura ai fini della declaratoria della sua responsabilità, vanno posti in relazione sia agli obblighi normativi esistenti al tempo dell’intervento e relativi alle trasfusioni di sangue, quali quelli relativi alla identificabilità del donatore e del centro trasfusionale di provenienza (cd. tracciabilità del sangue) che agli obblighi più generali di cui all’art. 1176 c.c. nell’esecuzione delle prestazioni che il medico o la struttura possono aver violato nella singola fattispecie”.

Orbene la Corte d’appello ha chiaramente individuato gli obblighi normativi vigenti al tempo nella L. 14 luglio 1967 n. 592 che, all’art. 4, prevedeva che la raccolta e la distribuzione del sangue, per uso trasfusionale, fosse centralizzata presso alcune strutture a ciò espressamente autorizzate: a) centri di raccolta fissi e mobili; b) centri trasfusionali; c) centri di produzione degli emoderivati. Ed ha, quindi, ritenuto che, se a tali strutture sanitarie doveva sicuramente fare carico l’obbligo di procedere agli “screenings” ed ai “tests”, al tempo disponibili e raccomandati dai protocolli ovvero anche soltanto consigliati dalla esperienza maturata in relazione allo sviluppo dei dati statistici e delle ricerche scientifiche, in quanto indispensabili a verificare che il sangue raccolto non provenisse da soggetti affetti da patologie trasmissibili attraverso la trasfusione (come poi definitivamente prescritto dal DM Sanità del 21 luglio 1990 “Misure dirette ad escludere il rischio di infezioni epatiche da trasfusione di sangue”), non poteva invece addebitarsi ad imperizia o negligenza od imprudenza della Casa di cura la omessa reiterazione di quegli accertamenti chimici e strumentali ai quali era deputato il Centro trasfusionale esterno, essendo invece sufficiente che la Casa di cura avesse verificato la completezza delle “schede tecniche” trasmesse dal Centro AVIS -allegate alla cartella clinica in data 4.12.1987- che attestavano la individuazione dei donatori, la identificazione del gruppo sanguigno, la esecuzione delle “prove di compatibilità pretrasfusionali” e la “determinazione di gruppo sanguigno di ricevente”.

3.1 La sentenza della Corte territoriale ha dichiaratamente inteso conformarsi al principio di diritto, enunciato da questa Corte di legittimità, secondo cui, in materia di emotrasfusione e contagio da virus HBV, HIV, HCV, non risponde per inadempimento contrattuale la singola struttura ospedaliera, pubblica o privata, inserita nella rete del servizio sanitario nazionale, che abbia utilizzato sacche di sangue, provenienti dal servizio di immunoematologia trasfusionale della USL, preventivamente sottoposte ai controlli richiesti dalla normativa dell’epoca, esulando in tal caso dalla diligenza ad essa richiesta il dovere di conoscere e attuare le misure attestate dalla più alta scienza medica a livello mondiale per evitare la trasmissione del virus, almeno quando non provveda direttamente con un autonomo centro trasfusionale (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 3261 del 19/02/2016; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 7884 del 29/03/2018).

3.2 Orbene la ricorrente aggredisce tale statuizione con una duplice critica:

a) la Casa di cura doveva ritenersi sempre e comunque responsabile per il danno cagionato alla salute della paziente, in quanto la prova dell’esonero della responsabilità contrattuale non poteva che essere fornita attraverso la prova della impossibilità di adempiere per fatto imputabile ovvero la prova di avere osservato la piena diligenza e dunque di avere reiterato gli esami di controllo sulle sacche di sangue;

b) la Casa di cura non poteva sottrarsi, nella effettuazione di detti controlli, dall’eseguire le metodiche di indagine sul sangue che erano disponibili al tempo al più alto livello di conoscenza della comunità scientifica (verifica antigene Australia e delle transaminasi ALT), essendo pertanto errata la statuizione della sentenza di appello che limitava tale ulteriore indagine, alla stregua di ragioni meramente economicistiche (eccessiva spesa pubblica sanitaria), ritenendo sufficiente la semplice verifica della corretta tracciabilità del sangue prelevato e destinato ad uso umano per trasfusioni.

4. La prima censura non può essere condivisa, mentre è fondata la seconda, con le dovute precisazioni di seguito svolte.

4.1 L’affermazione di un generale o specifico obbligo di ripetizione degli esami ematochimici da parte della Casa di cura, estranea al circuito dei Centri e degli specificamente autorizzati e preposti, nell’ambito del sistema sanitario pubblico, alla raccolta e produzione, conservazione e distribuzione per uso umano di sangue e prodotti ematici, ed ai quali la struttura è tenuta a rivolgersi per rifornirsi di sacche di sangue, non trova riscontro normativo, nè può essere ricondotta alla specifica misura di diligenza richiesta dal tipo di prestazione professionale ex art. 1176 c.c., comma 2. Se la struttura sanitaria è certamente tenuta a non procurare alcun danno al paziente che ha in cura, anche in relazione alla attività medica di trasfusione del sangue che occorra, come nella specie, per la esecuzione dell’intervento chirurgico, ciò non comporta che – qualora si accerti che il contagio da infezione epatica è causalmente riconducibile alla trasfusione – il fatto dannoso della salute sia “automaticamente” imputabile a colpa della struttura sanitaria, laddove quest’ultima dimostri 1-di avere dovuto ricorrere ad acquisire le sacche di sangue da un Centro, regolarmente autorizzato, esterno alla propria organizzazione, 2-di avere fatto affidamento sulle informazioni trasmessele dal predetto Centro, concernenti la tracciabilità, la idoneità dei donatori, ed i controlli ematochimici sul sangue prelevato e conservato.

L’affermazione trova ragione nel fatto – oggetto di indagine dalle teorie di scienza della organizzazione – che maggiore è la complessità delle attività e delle conoscenze inerenti all’espletamento di determinate prestazioni maggiore è la specializzazione che viene richiesta ad i soggetti che intervengono nelle diverse procedure ed attività, con la conseguenza che salvo i casi in cui si realizzino appositi sistemi organizzativi o relazioni intersoggettive tali per cui il risultato dell’attività svolta da uno specialista “debba” essere sottoposta a vigilanza o ad integrale nuova revisione da parte di un altro soggetto, collocato in una posizione sovraordinata e dotato degli adeguati mezzi di controllo: soluzioni organizzative queste ultime che giustificano il meccanismo di imputazione, diretta od indiretta, al controllante della responsabilità per i fatti dannosi prodotti dal controllato – proprio tale sistema di atomizzazione delle singole specializzazioni (assicurato da sempre più rigorosi criteri selettivi della competenza e di accesso alla categoria professionale o delle imprese di settore) consente ed anzi impone necessitatamente ai singoli soggetti di fare affidamento sulla specifica competenza altrui, senza essere costretti quindi ad attrezzarsi -con notevoli dispendi economici in termini di mezzi e risorse umane- ad acquisire quelle medesime competenze specialistiche per sottoporre a nuova verifica il servizio o prodotto acquistato in funzione del suo impiego nella attività d’impresa o professionale di propria competenza.

L’aspetto organizzativo dei sistemi complessi è posto, appunto, alla base del principio di diritto enunciato nei precedenti di questa Corte, sopra richiamati, e ruota attorno all’ambito di “competenza” dei singoli enti inseriti nella complessa organizzazione del sistema sanitario nazionale e regionale, in considerazione del quale – salvo che non risulti scontata un certo grado di inaffidabilità o di incertezza dei metodi applicati nella ricerca e negli esami, essendo quindi buona prassi la rinnovazione della indagine chimica o strumentale a conferma dei risultati ottenuti dalla prima verifica -, la struttura sanitaria, pubblica o privata, competente ad eseguire l’intervento chirurgico cruento, deve necessariamente “affidarsi”, per la fornitura del sangue da impiegare nelle trasfusioni, alla distinta struttura sanitaria competente a raccogliere e conservare le sacche di sangue da distribuire agli enti richiedenti.

La misura della diligenza qualificata ex art. 1176 c.c., comma 2, esigibile nella esecuzione della prestazione non può, infatti, che essere parametrata all’ambito di competenza ed al livello di specializzazione richiesto al debitore al momento della conclusione del contratto: salvo che il debitore non abbia imprudentemente assunto l’obbligo di eseguire una prestazione che non era in grado di adempiere -non disponendo delle indispensabili competenze- già al tempo della stipula del contratto, non può imputarsi a responsabilità del debitore l’inadempimento della obbligazione determinato dal fatto altrui, riferibile a soggetto nei confronti del quale il debitore non possa o non debba esercitare alcuna ingerenza e la cui attività sfugga, pertanto, alla sua sfera di doveroso controllo.

Tale criterio discretivo fondato sul principio di specializzazione, non è affatto nuovo, ed è stato utilizzato, ai fini della verifica della diligenza in concreto esigibile da ciascun soggetto che intervenga nella esecuzione di obbligazioni plurisoggettive complesse, anche nel caso in cui tali soggetti appartengano tutti alla stessa struttura organizzativa, qualora questa si articoli in un sistema suddiviso per settori di aree operative o per servizi altamente specializzati, essendo indicativa al proposito l’affermazione secondo cui l’obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell’equipe medica concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali, sicchè rientra tra gli obblighi di ogni singolo componente di una equipe chirurgica, sia esso in posizione sovra o sotto ordinata, anche quello di prendere visione, prima dell’operazione, della cartella clinica contenente tutti i dati per verificare la necessità di adottare particolari precauzioni imposte dalla specifica condizione del paziente ed eventualmente segnalare, anche senza particolari formalità, il suo motivato dissenso rispetto alle scelte chirurgiche effettuate ed alla scelta stessa di procedere all’operazione (cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 2060 del 29/01/2018. Sul principio di competenza, esteso ai diversi Servizi all’interno della medesima struttura organizzativa: Corte cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 25764 del 14/10/2019).

Non è, a tal fine, pertinente il richiamo effettuato dalla ricorrente al precedente di questa Corte n. 5954/2014, che aveva ritenuto la responsabilità del Ministero della Salute – tenuto, al tempo, non soltanto a fornire gli indirizzi ed a coordinare l’attività delle strutture sanitarie operative, ma anche ad apprestare un efficiente vigilanza e effettuare il servizio ispettivo – per non avere fornito la prova della “adozione di condotte e misure necessarie ad evitare la contagiosità, a prescindere dalla conoscenza di strumenti di prevenzione specifica”: premesso, infatti, che detto accertamento si risolve in una questione di fatto da verificare in relazione al singolo caso specifico, la fattispecie è del tutto avulsa da quella sottoposta al presente esame, atteso che, in quel caso, vi era identità tra il soggetto responsabile del danno derivato dalla infezione trasfusionale e quello obbligato a prescrivere le misure necessarie a prevenire i contagi e dunque proprio il rischio specifico di quel danno.

Non coglie, dunque, nel segno il rilievo critico formulata dalla ricorrente quando assume in via generale ed astratta che ricadeva nel dovere di diligenza qualificata della Casa di cura, tenuta alla esecuzione della prestazione di cura, rinnovare tutti gli esami ematochimici e strumentali per verificare la qualità del sangue consegnato dal Centro AVIS, prima di eseguire la trasfusione.

4.2 Deve, invece, essere accolta la censura di “error juris” mossa alla sentenza impugnata in relazione all’altro profilo di critica concernente:

a) il livello di conoscenze scientifiche richiedibili al soggetto prestatore delle cure e l’applicazione delle metodiche riconosciute come più affidabili dalla scienza medica;

b) l’errore concettuale commesso dalla Corte territoriale nel ritenere limitata alla sola “tracciabilità” delle sacche di sangue e non anche alla verifica dei risultati degli esami chimici condotti dal Centro AVIS sul sangue distribuito in sacche.

4.2.1 Nella sentenza impugnata si evidenziano, invero, elementi di equivocità quanto alla applicazione dei principi di diritto richiamati dai precedenti di legittimità cui i Giudici di appello hanno inteso conformarsi.

Occorre premettere che nella sentenza di questa Corte, 19.6.2016 n. 3261, era stato accertato che il sangue era stato fornito alla Casa di cura privata dal Servizio di immunoematologia trasfusionale della Unità sanitaria locale e che la USL aveva eseguito “prima della fornitura…..tutti i controlli all’epoca (1989) imposti dalla legge per impedire la veicolazione di virus”. E’ stato quindi ritenuto che la Casa di cura non era tenuta ad effettuare “ulteriori controlli a fini preventivi, già conosciuti al più alto livello scientifico, ma non ancora richiesti e praticati dal servizio sanitario nazionale”.

Tale ultimo enunciato è stato tralatiziamente ripetuto anche dalla Corte d’appello nella sentenza impugnata, senza però che la questione del “tipo” di controllo eseguito dal Centro AVIS, abbia costituito oggetto di discussione, atteso che la controversia di merito risulta essere stata incentrata interamente sulla questione dell’obbligo o meno di sottoposizione del sangue a nuovi ed ulteriori controlli da parte della Casa di cura che aveva ricevuto le sacche dal Centro AVIS, avendo poi concluso la Corte d’appello, in modo del tutto equivoco, che alla Casa di cura non era imputabile alcuna responsabilità in quanto aveva osservato gli obblighi di legge vigenti al tempo dell’intervento chirurgico “concernenti l’identificabilità del donatore e del centro trasfusionale di provenienza”, ed avendo assolto tale prova mediante la produzione in giudizio della “documentazione obbligatoria sulla tracciabilità del sangue trasfuso al singolo paziente”.

In relazione a tale aspetto, pertanto, la censura non assume diretta rilevanza sulla “ratio decidendi”, tanto più che neppure viene evidenziato nella sentenza di appello quale “tipo di controlli” erano – al tempo – previsti “al più alto livello scientifico”.

Sulla questione tuttavia appare egualmente soffermarsi in quanto presenta indubbia incidenza sulla misura della diligenza esigibile dal debitore.

4.2.2 Al riguardo occorre premettere che le Sezioni Unite di questa Corte nelle storiche sentenze del 2008 evidenziando come al tempo non fossero disponibili i markers identificativi del virus HCV ed HIV, ritennero egualmente colpevole la omissione della esecuzione dei controlli per l’accertamento degli altri virus (A e B) in quanto “già a partire dalla data di conoscenza dell’epatite B – la cui individuazione spetta all’esclusiva competenza del giudice di merito, costituendo un accertamento di fatto – sussiste la responsabilità del Ministero della salute, sia pure col limite dei danni prevedibili, anche per il contagio degli altri due virus, che non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo”, sul presupposto che la esclusione dalla distribuzione del sangue risultato infetto dal virus B, avrebbe ridotto in misura probabilisticamente elevata, tale da fondare un giudizio causale controfattuale, anche la trasmissione della infezione epatica da HCV. Da ciò la enunciazione del principio per cui “Premesso che sul Ministero gravava un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di impiego di sangue umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazione di emoderivati) anche strumentale alle funzioni di programmazione e coordinamento in materia sanitaria, affinchè fosse utilizzato sangue non infetto e proveniente da donatori conformi agli standards di esclusione di rischi, il Giudice, accertata l’omissione di tali attività, accertata, altresì, con riferimento all’epoca di produzione del preparato, la conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto ed accertata – infine – l’esistenza di una patologia da virus HIV o HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell’insorgenza della malattia, e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la verificazione dell’evento” (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 576 del 11/01/2008).

Le Sezioni Unite si pongono nel solco di un criterio di adeguatezza delle condotte diligenti cui sono tenuti i medici e le strutture sanitarie che utilizza quale metro di valutazione della pratica professionale quello della conformità ai protocolli sanitari vigenti (dai quali si può e si deve derogare laddove insorgano circostanze particolari tali da imporre scelte terapeutiche e soluzioni tecniche difformi o comunque non contemplate), in quanto gli operatori del settore, se debbono certamente informare le propri condotte ai più elevati parametri prestazionali dettati dal massimo livello delle conoscenze scientifiche dell’epoca (in ciò sostanziandosi il dovere di costante aggiornamento culturale attraverso l’acquisizione delle nuove conoscenze determinate dai risultati ottenuti dalle ricerca scientifica e dalla evoluzione tecnologica, che identifica il carattere “professionalmente qualificato” della diligenza che deve essere da essi profusa nella esecuzione della prestazione di cura: Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 2466 del 03/03/1995; id. Sez. 3, Sentenza n. 5945 del 10/05/2000; id. Sez. 3, Sentenza n. 583 del 13/01/2005), non possono, invece, essere tenuti – in relazione alla valutazione di doverosità della condotta come adempimento diligente -ad applicare metodologie e tecniche di indagine che siano in fase sperimentale o consistano in mere ipotesi di studio e che non siano ancora accreditate presso la comunità degli esperti: ciò comporta che la struttura sanitaria ed il professionista adempiono correttamente alla stregua della diligenza ad essi richiesta ove si attengano, non soltanto alle prescrizioni imposte da norme di legge e regolamentari, ma anche a quelle che vengono indicate come le corrette prassi mediche definite dalle “leges artis”, da cui esulano criteri di indagini diagnostiche e metodiche fondati su mere ipotesi di ricerca, pure avanzate dagli studiosi e resi note attraverso la letteratura scientifica specialistica, ma che non hanno ancora ricevuto alcuna verifica a livello sperimentale od i cui risultati appaiano ancora incerti o non del tutto coerenti e dunque risultino privi del grado di “affidabilità scientifica” idoneo a consentirne una diffusione sotto forma di elaborazione della procedura da praticare per lo svolgimento di esami o per il trattamento terapeutico.

In questi termini, e soltanto in questi, può e deve, dunque, essere meglio precisata l’affermazione, contenuta nel precedente di questa Corte n. 3261/2016, secondo cui, nella determinazione del grado di diligenza esigibile, alla struttura sanitaria privata non può ascriversi anche “il dovere di conoscere, e di attuare, le misure di prevenzione attestate dalla più alta scienza medica a livello mondiale per scongiurare la trasmissione di virus, almeno quando non provveda direttamente con un autonomo centro trasfusionale”, essendo proporzionato invece il rispetto delle regole che l’ordinamento predispone per prevenire il rischio di trasmissione di virus, e cioè l’utilizzo dei centri preposti alla fornitura, la tracciabilità, la verifica della effettuazione da parte del fornitore dei tests prescritti.

Pertanto se, le nuove acquisizioni della comunità scientifica mondiale consentono di pervenire a livelli di conoscenza maggiori e di individuare metodologie e tecnologie che assicurano risultati in precedenza non conseguibili, o garantiscono gradi di certezza nella scoperta e prevenzione delle patologie finora ignote, non vi è alcun dubbio che tali nuove acquisizioni, venendo ad integrare le “leges artis”, non possano essere disconosciute dall’esercente -struttura organizzativa o singolo professionista- la professione sanitaria, il quale -diversamente- verrebbe ad incorrere in un palese difetto di diligenza ex art. 1176 c.c., comma 2. E’ bene vero che non può escludersi in astratto la ipotesi di una discrasia tra nuovo livello di conoscenza scientifica, raggiunto dalla ricerca specialistica, e difetto di disponibilità degli strumenti tecnologici per l’applicazione delle nuove conoscenze, con conseguenti riflessi sul dovere della struttura sanitaria di procurarsene la disponibilità: ma tale squilibrio tra “sapere e fare” oltre ad essere un’ ipotesi remota (di regola alla nuova conoscenza si perviene attraverso l’impiego innovativo – non considerato in precedenza – di un mezzo tecnico di ricerca già noto), potrebbe venire in rilievo soltanto i quei casi estremi non vi sia concreta possibilità di disporre del mezzo tecnico o per difficoltà di approvvigionamento dovuta a scarsità di offerta del prodotto sul mercato, o ancora nel caso in cui l’onere economico per l’acquisto dello strumento tecnico risulti totalmente sproporzionato alle capacità patrimoniali del professionista o della struttura sanitaria.

In tali casi l’accertamento di un difetto di diligenza esigibile dall’obbligato, in conseguenza del mancato impiego dello strumento tecnologicamente avanzato, dovrà essere fatta caso per caso, avuto riguardo al carattere urgente o meno delle cure da somministrare al paziente, e tenendo conto della correlazione “esclusiva” che deve sussistere tra il risultato dell’accertamento sanitario (richiesto dalle nuove conoscenze scientifiche) e l’utilizzo di quel particolare strumento tecnico, non potendo venire in questione un difetto di diligenza nel caso in cui la nuova tecnologia sia diretta soltanto a rendere più agevole o più rapida la indagine diretta alla verifica di elementi od alla acquisizione di dati.

4.2.3 Tanto premesso, l’equivoco evidenziato dalla statuizione della Corte d’appello, emerge evidente laddove, per un verso, si sostiene che la Casa di cura va esente da responsabilità, essendosi procurata le sacche di sangue da un soggetto “esterno” preposto alla fornitura il quale aveva effettuato la tracciabilità delle sacche ed i tests all’epoca obbligatoria; e poi, subito appresso, individua il comportamento diligente, oggetto della prova liberatoria ex art. 1218 c.c., nel mero dovere della Casa di cura di verificare la identificabilità del donatore e del centro trasfusionale di provenienza, senza più alcun riferimento alla verifica anche della effettuazione dei “tests” sul sangue che al tempo dei fatti erano stati obbligatoriamente prescritti (in particolare i “tests” volti ad escludere il virus HBV, mediante la ricerca dell'”antigene Australia”: Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 582 del 11/01/2008).

Tale equivoco trova ulteriore conferma nell’assenza della indagine in fatto, compiuta dal Giudice di appello, in ordine all’effettivo assolvimento da parte del Centro AVIS dei predetti controlli sul sangue, essendosi limitata la Corte territoriale a fondare l’esonero da responsabilità sul rilievo che la Casa di cura aveva fornito prova documentale della tracciabilità delle sacche di sangue (le schede tecniche trasmesse dall’AVIS unitamente alle sacche di sangue, ed allegate alla cartella clinica concernono infatti, oltre alla tracciabilità del donatore, soltanto la individuazione del gruppo sanguigno ORH positivo, e della compatibilità con quello della paziente ricevente, mentre non risulta alcuna indicazione da tali schede tecniche, della effettuazione dei controlli per la esclusione della epatite B).

4.2.4 Errata in diritto deve, pertanto, ritenersi la statuizione della sentenza impugnata secondo cui la verifica della mera tracciabilità dei donatori, esonerava la Casa di cura dalla “ripetizione” delle verifiche sulle sacche sangue rifornite, in quanto in contrasto con i seguenti principi di diritto:

” In relazione al danno da contagio di epatite C determinato da trasfusione di sangue infetto, richiesta per la esecuzione di intervento chirurgico, la mancata conoscenza, al tempo dei fatti (1987), del virus HCV, non essendo stati ancora predisposti i markers idonei ad accertare preventivamente il virus, non esonera la Casa di cura privata, che abbia utilizzato sacche di sangue, sebbene consegnate dalla struttura autorizzata prevista dalla L. 14 luglio 1967, n. 592, da responsabilità per inadempimento della prestazione di cura, qualora abbia omesso di verificare, attraverso la documentazione ricevuta, che il fornitore avesse ottemperato agli obblighi di legge, al tempo vigenti, consistenti: a) nella tracciabilità del sangue, mediante identificazione del donatore; b) nella effettuazione degli esami ematochimici -ricerca antigene Australia- diretti ad escludere nel sangue raccolto il virus HBV.

Ove, invece, risulti la prova che tale verifica documentale sia stata compiuta, deve ritenersi che la Casa di cura privata abbia assolto all’onere di diligenza qualificata esigibile ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, in quanto la relazione che, nell’ambito del più generale sistema complesso del servizio sanitario pubblico, si instaura tra i predetti soggetti – qualora non sia ravvisabile uno schema organizzativo riconducibile alla sovraordinazione gerarchica, al controllo o vigilanza, od alla “ausiliarietà” ex art. 1228 c.c., – è regolata dal principio di specializzazione e competenza, in base al quale l’accertamento della esecuzione da parte del fornitore (cui la Casa di cura è tenuta esclusivamente a rivolgersi) dei controlli prescritti dalle legge vigenti, esonera la Casa di cura dalla rinnovazione di tali esami sulle sacche ricevute, dovendo considerarsi conforme alla misura di diligenza richiesta, detta verifica documentale”.

5. La sentenza impugnata va quindi cassata con rinvio al Giudice di appello, onde accertare, alla stregua di tutte le risultanze istruttorie ritualmente acquisite, se il Centro AVIS avesse o meno eseguito sul sangue rifornito i tests relativi all’accertamento della epatite B.

6. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 1176 c.c., in relazione alla interpretazione fornita alla norma dalla Corte d’appello in contrasto con gli artt. 24 e 32 Cost., con gli artt. 35 e 52 della CDFUE e con gli artt. 6 e 13 CEDU.

Assume la ricorrente che il precedente di questa Corte di legittimità n. 3261/2016 cui si è richiamato il Giudice di appello, subordinando il diritto alla salute ad esigenze di economicità della organizzazione sanitaria, e ritenendo non esigibile dalla Casa di cura “il dovere di conoscere e attuare le misure di prevenzione attestate dalla più alta scienza medica…. in quanto ciò non sarebbe stato esigibile a causa delle necessarie conseguenti complesse scelte gestionali comportanti un notevole impatto economico”, stravolgerebbe il sistema di gerarchia dei diritti fondamentali violando i principi indicati dalle norme costituzionali, comunitarie e convenzionali internazionali che richiedono che venga garantito un livello elevato di protezione della salute umana, sortendo altresì l’effetto di privare il danneggiato della effettività della tutela giurisdizionale dei propri diritti. La ricorrente chiede che venga eventualmente sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 1176 c.c., nel significato precettivo attribuito dalla norma dalla predetta interpretazione.

6.1 Il motivo è inammissibile, per difetto di specificità e non cogliendo la “ratio decidendi”.

Premesso che la ricorrente tralascia di individuare quali “ulteriori metodologie di indagine del virus” avrebbero dovuto essere impiegate oltre a quelle, al tempo, disponibili per la ricerca del virus HBV, tanto in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, osserva il Collegio che, come è stato precedentemente già rilevato, la Corte di appello ha definito la controversia fondandosi sul riparto di competenze specialistiche nell’ambito delle strutture inserite nella complessa organizzazione del servizio sanitario pubblico, evidenziando come la struttura sanitaria che utilizza sacche di sangue per le trasfusioni è tenuta ad eseguire “autonomamente e direttamente” i controlli e gli esami ematochimici, ritenuti necessari secondo la migliore scienza ed esperienza del tempo, e ad ottemperare ad analoghi obblighi di condotta prescritti dalle norme di legge e regolamentari, laddove disponga nella propria organizzazione di un proprio Servizio trasfusionale ed immunoematologico; diversamente, come nel caso della Casa di cura Maria Rosaria s.p.a., qualora non disponga di tali servizi e debba quindi rivolgersi all’esterno (id est ai centri appositamente autorizzati per la raccolta, conservazione e distribuzione del sangue), l’ente sanitario richiedente esaurisce il proprio impegno diligente nel riscontrare, in base alle attestazioni ed alla documentazione trasmessagli a corredo delle sacche ematiche, che tali verifiche ed esami siano stati svolti e sia stata assicurata la tracciabilità del prodotto.

6.2 La questione sollevata dalla ricorrente, che trova un indiretto aggancio nella motivazione del precedente di legittimità n. 3261/2016 (“…..Tanto comporterebbe complesse scelte gestionali, anche di notevole impatto economico non certamente esigibili come contenuto della diligenza qualificata….”), non risulta pertanto conferente alla “ratio decidendi” della – sentenza impugnata e neppure al principio di diritto affermato nel precedente di legittimità, come meglio precisato nel corso dell’esame dei precedenti due motivi di ricorso per cassazione, laddove la proposizione sopra riportata, estratta dalla motivazione della sentenza, deve essere letta, non come affermazione di un generale limite alla responsabilità civile per danni, individuabile nella onerosità della predisposizione dei mezzi necessari all’adempimento della prestazione, sibbene come affermazione della superfluità e dunque irrilevanza – ai fini della determinazione del contenuto del comportamento dovuto dal debitore – della reiterazione di controlli ed esami già eseguiti da un organismo accreditato, inserito nel sistema della organizzazione sanitaria pubblica e specificamente autorizzato alla raccolta, conservazione e distribuzione del sangue da utilizzare per le trasfusioni. Nè vale rilevare in contrario che in tal modo si assolverebbero le strutture sanitarie pubbliche o private, dall’osservanza, nella esecuzione delle prestazioni di cura, dei più alti livelli di conoscenza e metodica scientifica e tecnica, riducendo il parametro di misura della diligenza esigibile ex art. 1176 c.c., comma 2: altro è, infatti, commisurare la diligenza in ordine alla affidabilità riposta dalla struttura sanitaria nella attività di controllo espletata e documentata dal Centro trasfusionale specializzato e rispondente alla conoscenza scientifica disponibile al tempo, al massimo livello scientifico; altro invece verificare se -in assenza di tale documentata attività di controllo- la struttura sanitaria abbia essa stessa direttamente ed autonomamente osservato i protocolli richiesti attestandosi al massimo livello della scienza medica (al riguardo il precedente di legittimità n. 3261/2016, non consente equivoci: la singola struttura ospedaliera, quando provvede direttamente con proprio centra trasfusionale alla raccolta ed impiego del sangue ad uso trasfusionale è tenuta a “conoscere ed attuare, le misure di prevenzione attestate dalla più alta scienza medica a livello mondiale, per scongiurare la trasmissione del virus”: in motiv. paragr. 5.5, pag. 12).

7. In conclusione il ricorso deve essere accolto quanto ai primi due motivi, – inammissibile il terzo; la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli che procederà agli accertamenti indicati conformandosi al principio di diritto enunciato e liquidando all’esito anche le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il primo ed il secondo motivo di ricorso; dichiara inammissibile il terzo motivo di ricorso; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti; rinvia alla Corte di appello di Napoli in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa la indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi di R.R. riportati nella sentenza.

Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2020

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