Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9876 del 19/04/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 19/04/2017, (ud. 11/01/2017, dep.19/04/2017),  n. 9876

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19426-2015 proposto da:

BENFIL S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, P.I. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

FLAMINIA VECCHIA 657, presso lo studio dell’avvocato GIULIO

PIGNATARO, rappresentata e difesa dagli avvocati GIOVANNA TUSSINO,

SEVERINO NAPPI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.C.M. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA SISTINA 121, presso lo studio dell’avvocato EMANUELE BIONDI, che

lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5367/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 22/06/2015 R.G.N. 1031/15;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/01/2017 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di Appello di Napoli ha respinto il reclamo ex lege n. 92 del 2012 proposto dalla Benfil srl in liquidazione avverso la sentenza pronunciata dal Tribunale di Benevento – confermativa dell’ordinanza resa nella fase sommaria – con cui era stata dichiarata l’illegittimità del licenziamento intimato a D.C.M. a seguito di procedura ex L. n. 223 del 1991, con condanna della società al pagamento di una indennità risarcitoria di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18 novellato.

La Corte territoriale ha accertato la violazione dell’obbligo, posto a carico del datore di lavoro, di comunicazione agli enti regionali per l’impiego ed alle associazioni di categoria dell’elenco dei lavoratori licenziati con tutte le altre notizie sull’attuazione delle procedure di mobilità, nel termine di sette giorni dalla comunicazione dell’atto di recesso di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, introdotto dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 44, termine ritenuto dal Collegio, conformemente al primo giudice, cogente ai fini della validità della procedura medesima.

2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società in liquidazione con tre motivi. Ha resistito il lavoratore intimato con controricorso.

3. Il Collegio ha autorizzato, come da decreto del Primo Presidente del 14.9.2016, la redazione della motivazione della sentenza in forma semplificata.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con la prima censura la società, deducendo violazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9 e art. 5, comma 3, sostiene che la Corte territoriale avrebbe errato nel non considerare che, in presenza nella specie di un licenziamento collettivo per cessazione totale dell’attività produttiva ed azzeramento dell’intero organico, il mero superamento del termine di sette giorni per l’inoltro delle comunicazioni previsto dall’art. 4, comma 9 Legge richiamata alle organizzazioni sindacali di categoria ed agli uffici regionali non è di per sè idonea ad inficiare la validità dei recessi comminati ai lavoratori.

Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, anche in relazione all’art. 152 c.p.c., in forza del principio generale evincibile dalla norma processuale in base al quale in assenza di una specifica disposizione di legge che espressamente qualifichi un termine come perentorio lo stesso si deve intendere come ordinatorio.

2. I motivi, esaminabili congiuntamente per connessione, sono infondati sulla scorta di principi già affermati da questa Corte e dai quali non vi è motivo di discostarsi.

Invero, con riferimento a licenziamento intimato all’esito della procedura di mobilità regolata dalla L. n. 223 del 1991, tale procedura trova applicazione – per espressa previsione dell’art. 24, comma 1 stessa Legge – anche ai licenziamenti conseguenti alla chiusura dell’insediamento produttivo, salvo che, per effetto di tale estensione, la tutela opera nei limiti della compatibilità di tale disciplina con i risultati in concreto perseguibili in relazione alla cessazione dell’attività aziendale e cioè al fine di consentire il controllo sindacale sulla effettività della scelta medesima. Così, ad esempio, il datore di lavoro non è obbligato a specificare, nella comunicazione di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4 cit., i motivi del mancato ricorso ad altre forme occupazionali, atteso che tale informazione si giustifica in relazione ad un possibile reimpiego dei lavoratori in alternativa al ricorso alla mobilità, ovvero nella prospettiva di una mera riduzione di personale, ipotesi che sono da escludersi nel caso di cessazione dell’attività aziendale (Cass. n. 13684 del 2015; conf. Cass. n. 25737 del 2016; v. pure: Cass. n. 7169 del 2003 e Cass. n. 14416 del 2000).

Nel caso di specie, invece, viene in rilievo – secondo la sentenza impugnata la tardività delle comunicazioni finali ai soggetti indicati dalla legge, e non già la sola questione della puntuale applicazione dei criteri di scelta, per cui va qui ribadito che “in ipotesi di licenziamento collettivo per cessazione di attività d’impresa, la violazione del termine di sette giorni per le comunicazioni di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, introdotto dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 44, determina l’illegittimità del licenziamento e la sanzione del pagamento dell’indennità risarcitoria, per effetto dell’espresso richiamo dell’art. 24 predetta legge all’art. 4 citato, operato al fine di consentire il controllo sindacale sull’effettività della scelta datoriale” (in termini ed in fattispecie analoga v. Cass. n. 23736 del 2016, cui si rinvia per ulteriori argomentazioni di supporto).

3. Con il terzo motivo si denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione alla presunta violazione dei criteri di scelta ed alla presunta discriminazione, in quanto la Corte napoletana non si sarebbe pronunciata su tale motivo di reclamo.

La doglianza è priva di pregio in quanto la Corte di Appello non ha omesso di pronunciarsi sul motivo di impugnazione bensì l’ha considerato assorbito, avendo comunque ritenuto per altro verso l’illegittimità del licenziamento, con autonoma ragione della pronuncia idonea a sorreggere il decisum e che ha superato il vaglio di legittimità.

4. Conclusivamente il ricorso va respinto.

Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo, con attribuzione all’Avv. Biondi dichiaratosi antistatario.

Occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori secondo legge e spese generali al 15%, con attribuzione.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Motivazione semplificata.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 19 aprile 2017

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