Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 987 del 17/01/2020

Cassazione civile sez. lav., 17/01/2020, (ud. 31/10/2019, dep. 17/01/2020), n.987

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21857/2014 proposto

L.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA OTTORINO

LAZZARINI 19, presso lo studio degli avvocati ANDREA SGUEGLIA, UGO

SGUEGLIA, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i

cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1698/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 02/04/2014 R.G.N. 11642/2010.

Fatto

RILEVATO

1. Che L.P. adiva il Tribunale di Roma, nei confronti del Ministero degli affari Esteri (MAE), premettendo di aver stipulato con l’Istituto italiano di cultura a Pechino, in data 14 dicembre 1994, un contratto triennale, regolato dalla legge locale, per svolgere mansioni di concetto, prevalentemente di contabilità e biblioteca. Il contratto veniva approvato con decreto del 31 luglio 1995, e il rapporto di lavoro aveva inizio nel settembre 1995.

Tale contratto veniva rinnovato a tempo indeterminate con successivo contratto, approvato con decreto del 12 maggio 1998, con decorrenza dal 27 settembre 1998.

In data 31 ottobre 2000 essa lavoratrice optava per la sottoscrizione di un contratto a tempo indeterminato regolato dalla legge italiana, ai sensi del D.Lgs. n. 103 del 2000. In data 11 maggio 2001 stipulava il contratto individuale di lavoro a tempo indeterminato a decorrere dal 12 maggio 2001.

2. Tanto premesso, la L. chiedeva che il contratto a tempo indeterminato stipulato in ragione dell’opzione prevista dal D.Lgs. n. 103 del 2000, fosse inteso come conversione del contratto in precedenza stipulato secondo la legge cinese, sia ai fini del trattamento economico, sia ai fini del trattamento inerente la cessazione dal servizio, nonchè delle quote per aggiunta di famiglia nella misura del 15% sugli stipendi spettanti dal 14 maggio 2002 in poi.

La L. aveva dedotto, inoltre, di percepire una retribuzione inferiore a quella di altra dipendente che svolgeva analoghe mansioni, in violazione del D.P.R. n. 18 del 1967, art. 157, chiedendo, pertanto, la giusta retribuzione, con il trattamento di famiglia in quota percentuale.

3. Il Tribunale accoglieva solo la domanda relativa alla uniforme determinazione della retribuzione annua, facendo applicazione del D.P.R. n. 18 del 1967, art. 157, comma 3, che aveva contenute analogo al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45.

Rigettava, invece, le domande aventi ad oggetto a conversione del contratto, in quanto era intervenuta novazione, e la quota famiglia, perchè il D.P.R. n. 18 del 1967, art. 162, comma 5, era stato abrogato dal D.Lgs. n. 103 del 2000, art. 3.

4. la Corte d’Appello di Roma ha accolto (appello principale proposto dal MAE avverso la suddetta sentenza, e ha rispettato l’appello incidentale proposto dalla lavoratrice medesima.

La Corte d’Appello, pertanto, ha rigettato la domanda proposta con il ricorso introduttivo del giudizio dalla L..

5. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre la lavoratrice prospettando quattro motivi di impugnazione.

6. Resiste il MAE con controricorso.

7. In prossimità dell’adunanza camerale la lavoratrice ha depositato

memoria.

Diritto

CONSIDERATO

1. Che con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1239,1231,2120,2697 c.c., artt. 112 e 115 c.p.c., D.Lgs. n. 103 del 2000, art. 2, comma 5, tutti in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Assume la ricorrente che l’avvenuta assunzione con il contratto stipulato a tempo indeterminato regolato dalla legge italiana, senza immissione nei ruoli del Ministero, in particolare tenendo conto del D.Lgs. n. 103 del 2000, art. 2, comma 5, non dava luogo alla novazione del precedente contratto, come affermato dalla Corte d’Appello.

Inoltre, il contratto individuale di lavoro aveva previsto la liquidazione degli effetti economici del precedente rapporto di lavoro, ma “se e per quanto previsto”, nè l’Amministrazione aveva provato che era intervenuta la corresponsione dell’indennità di fine rapporto.

All’esito dell’esercizio del diritto di opzione, si era realizzata solo una mera conversione-trasformazione del contratto già stipulata in precedenza, senza alcuna soluzione di continuità.

1.1. Va premesso che la Corte d’Appello ha affermato che, dalla lettera della legge e dal testo contrattuale, emergeva che le parti avevano inteso stipulare un nuovo contratto, in soluzione di continuità con il precedente contratto.

Il giudice di secondo grado ha richiamato il testo del D.Lgs. n. 103 del 2000, art. 5 (recte: art. 2, comma 5) del ponendo in evidenza come, nello stesso, il contratto a tempo indeterminato, regolato dalla legge italiana, veniva indicato come nuovo contratto.

Rileva che nel contratto individuale si dava atto che il precedente contratto, del settembre 1995, era liquidato a tutti gli effetti giuridici ed economici.

1.2. Il motivo è fondato e va accolto in ragione dei principi già enunciati da questa Corte con l’ordinanza n. 30239 del 2017, alla quale si intende dare continuità, e la cui motivazione si richiama ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c., che ha affermato, in particolare:

“nell’art. 2, comma 5, non è contenuta alcuna espressione letterale che consenta di ritenere che il legislatore abbia inteso escludere in via generale la continuità giuridica del contratto stipulato in esito all’opzione rispetto a quelli stipulati in precedenza e che abbia inteso derogare al principio generale di infrazionabilità della anzianità di servizio ai fini della indennità di fine rapporto, principio che trova fondamento nell’art. 2120 c.c., disposizione questa che trova applicazione nella fattispecie in esame, essendo incontestato che i rapporti intercorsi tra la ricorrente ed il Ministero prima e dopo l’esercizio del diritto di opzione furono rapporti di lavoro subordinato” (…) “in assenza di disposizioni derogatorie del principio di infrazionabilità dell’anzianità di servizio contenuta del D.Lgs. n. 103 del 2000, richiamato art. 2, deve ritenersi che la sottoscrizione del contratto a tempo indeterminato, regolato dalla legge italiana, all’esito della opzione di cui all’art. 2, comma 5, del richiamato D.Lgs., non ha comportato alcuna interruzione giuridica tra il rapporto sorto in virtù di tale contratto e quelli nati dai contratti a termine stipulati in precedenza, perchè i rapporti, pur sottoposti a disciplina giuridica diversa (legge locale i contratti più remoti, legge italiana quello a tempo indeterminato stipulato a seguito della opzione), sono incontestatamente proseguiti senza soluzione fattuale nei confronti della medesima Amministrazione datrice di lavoro”.

1.3. Pertanto, la Corte d’Appello non ha fatto corretta applicazione dei principi innanzi affermati, in quanto ha interpretato erroneamente del D.Lgs. n. 103 del 2000, citato art. 2, comma 5 e ha ritenuto, conseguentemente, in modo errato, che il contratto sottoscritto in data 11 maggio 2001, nel prevedere “il precedente rapporto è liquidato a tutti gli effetti giuridici ed economici (…)”, avrebbe inteso in viE consensuale dare vita ad un rapporto giuridico nuovo e distinto rispetto a quelli sorti dai precedenti contratti sottoposti alla legge locale, benchè il rapporto di lavoro, in modo significativo, fosse proseguito senza soluzione fattuale nei confronti della medesima Amministrazione datrice di lavoro.

2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2934,2935 c.c., art. 2948 c.c., n. 4 e art. 2697 c.c., artt. 112 e 115 c.p.c., art. 111 Cost., tutti in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3.

E’ censurata la statuizione che ha ritenuto prescritti i crediti maturati a far data dal quinquennio precedente il deposito del tentativo di conciliazione.

La Corte d’Appello rilevava che i crediti in questione potevano essere fatti valere sin dal momento in cui ebbe effetto il contratto di lavoro regolato dalla legge italiana, a seguito dell’esercizio del diritto di opzione (12 maggio 2001).

Assume la ricorrente che la misura della retribuzione degli altri colleghi era rimasta sconosciuta fino alla data di presa visione del messaggio prot. n. 032/14013 dell’11 marzo 2033, pervenuto all’ambasciata di Pechino il 13 giugno 2003, di cui aveva appreso il contenuto solo poche settimane prima del deposito del tentativo di conciliazione. Spettava pertanto al Ministero dimostrare la ricezione di detta comunicazione da parte della lavoratrice.

2.1. Il motivo è inammissibile.

Come si può rilevare, il motivo di ricorso si incentra sul messaggio prot. n. 032/14013 dell’11 marzo 2003, atteso che la lavoratrice deduce che solo in ragione della conoscenza del contenuto de lo stesso, aveva rilevato di essere destinataria di un trattamento retributivo inferiore rispetto a quello dei colleghi, non essendo a ciò sufficiente il contratta individuale.

Tuttavia, tale documento non è nè riprodotto ne contenuto, nè allegato al ricorso indicandone la sede di rituale produzione nel giudizio.

Pertanto, la censura è inammissibile ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, novellato dal D.Lgs. n. 40 del 2006 (cfr., Cass., n. 19048 del 2016).

3. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 18 del 1967, art. 157, commi 1 e 3, D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45, commi 1, 2 e 5, dell’art. 7 dell’Accordo per il personale assunto a tempo indeterminato presso le rappresentanze italiane all’estero del 12 aprile 2001, dell’art. 2697 c.c., artt. 112 e 115 c.p.c., artt. 3,36 e 97, Cost., in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3.

E’ censurata la statuizione del giudice di appello che ha ravvisato nel D.P.R. n. 18 del 1967, art. 157, comma 1 e non nel comma 3, la norma di riferimento della fattispecie in esame, affermando di conseguenza che, in ragione del contenuto precettivo della stessa, sarebbe stato preciso onere della lavoratrice appellata allegare concreti elementi di fatto, e poi provarli, relativamente all’inadeguatezza della retribuzione erogatale in riferimento ai criteri previsti, onere che nella specie non sarebbe stato ottemperato.

Ed infatti, assume la ricorrente la norma richiamata dal giudice di appello attiene agli elementi accessori del personale MAE che presta temporaneamente servizio all’estero, mentre nella vicenda in esame viene in rilievo la retribuzione base del personale assunto in loco, con contratto di lavoro a tempo indeterminato, per svolgere servizio istituzionalmente, e soltanto, in una specifica sede diplomatica e consolare dell’Amministrazione.

Pertanto, occorreva far riferimento ai principi di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45, commi 1 e 2.

Inoltre, dagli atti di causa emergeva che, a parità di incarico e mansioni, la retribuzione base annua della ricorrente era inferiore a quella di altra collega, che costituiva parametro di riferimento, risultando così provato l’assunto di essa lavoratrice.

Dunque, doveva trovare applicazione il D.P.R. n. 18 del 1967, art. 157, comma 3, secondo cui la retribuzione annua è determinata in modo uniforme per Paese e per mansioni omogenee.

In base ai principi che regolano l’onere della prova, spettava al datore di lavoro dimostrare l’avvenuto adempimento della corresponsione del giusto trattamento economico.

D’altro canto, l’applicabilità al pubblico impiego del diritto a ricevere una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato è stata affermata con riguardo alle mansioni superiori, e trova riscontro in numerosi atti sovranazionali e internazionali, quali la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, la Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, il Patto Internazionale relativo ai Diritti economici, sociali e culturali, la Carta Sociale Europea.

Infine, non poteva condividersi l’affermazione della Corte d’Appello circa la non adeguatezza della retribuzione base di altra collega a fungere anche solo da argomento meramente sintomatico di una disparità di trattamento, poichè sarebbe stata indicativa di un diverso contesto giuridico ed economico, in cui vi era il riferimento del trattamento economico dei contrattisti all’estero alla percentuale minima del 68% dell’indennità di servizio all’estero corrisposta all’omologo personale di ruolo in servizio nella stessa sede, stabilito dall’allora vigente del D.P.R. n. 18 del 1967, art. 162.

Tale circostanza, infatti, era stata contestata da essa lavoratrice e non era stata provata dall’Amministrazione.

3.1. Il motivo non è fondato.

3.2. E’ corretta la statuizione della sentenza di appello che ha rigettato la domanda della lavoratrice, ma va integrata la motivazione ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..

Occorre ricordare che il D.Lgs. n. 103 del 2000, art. 2, comma 5, ha stabilito: “Il personale di cittadinanza italiana, in servizio con contratto a tempo indeterminato, o che ha già avuto almeno un rinnovo contrattuale, presso gli Istituti italiani di cultura alla data di entrata in vigore del presente decreto, ha la possibilità di optare, entro sei mesi dalla stessa data, fra la sottoscrizione di un nuovo contratto a tempo indeterminato regolato dalla legge italiana e pertanto sottoposto alla disciplina di cui ai commi 2 e 3, ovvero di un contratto a tempo indeterminato regolato dalla legge locale e pertanto sottoposto integralmente alle disposizioni di cui al titolo VI del D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18, come modificato dal presente decreto”.

Il D.Lgs. n. 103 del 2000, citato art. 2, comma 2, prevede: “I rapporti di impiego del personale di nazionalità italiana che, alla data di entrata in vigore del presente decreto, è in servizio con contratto a tempo indeterminato regolato dalla legge italiana continuano ad essere disciplinati dalle norme contenute nell’Accordo successivo per il personale di cui all’art. 1, comma 4, terzo alinea, del c.c.n.l. comparto Ministeri del 22 ottobre 1997 e nella successiva contrattazione collettiva applicabile agli impiegati a contratto”.

Come già affermato dalla sentenza di questa Corte n. 30239 del 2017, il rapporto di lavoro del personale che, come la ricorrente, ha optato ai sensi del D.Lgs. n. 103 del 2000, art. 2, comma 5, per la sottoscrizione di un nuovo contratto a tempo indeterminato regolato dalla legge italiana e, pertanto, sottoposto alla disciplina di cui dello stesso art. 2, commi 2 e 3, è regolato dalle norme dell’Accordo successivo relativo al personale de Ministero degli Affari Esteri di cui all’art. 1, comma 2, del c.c.n.l. del Comparto ministeri del 16 febbraio 1999, Accordo sottoscritto il 16 aprile 2001.

Dunque la fattispecie in esame non è regolata dal D.P.R. n. 18 del 1967, art. 157, come erroneamente affermato dal a Corte d’Appello, e come prospettato dalla ricorrente, invocando oltre alla disciplina del comma 3, le fonti internazionali e sovranazionali a sostegno dell’applicazione del principio di uniformità, ma dalla disciplina contrattuale.

Occorre rilevare, inoltre, che con riguardo all’applicazione sia del D.P.R. n. 18 del 1967, art. 157, che del D.Lgs. n. 103 del 2000, art. 2, comma 5, questa Corte, con la sentenza n. 16755 del 2019, la cui motivazione si richiama ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c., ha affermato che “il personale assunto a contratto dalle rappresentanze diplomatiche, dagli uffici consolari e dagli istituti di cultura, può pretendere una retribuzione diversa e superiore rispetto a quella pattuita nel contratto individuale solo qualora quest’ultima non sia conforme ai parametri indicati dal D.P.R. n. 18 del 1967, art. 157, attuativi del precetto di cui all’art. 36 Cost., o, per i rapporti assoggettati alla legge italiana, alla contrattazior e collettiva, che in parte a detti parametri rinvia”.

La sentenza da ultimo richiamata (si. v. anche Cass., n. 18407 del 2019) ha, altresì, statuito che la pretesa del lavoratore non può, invece, essere fondata sulla circostanza che ad altro dipendente assegnato alla stessa sede con le medesime mansioni sia stato riconosciute un trattamento di miglior favore, perchè quest’ultima attribuzione potrebbe essere, in ipotesi, non giustificata, alla luce delle previsioni della legge e della contrattazione collettiva, ed in tal caso la stessa, in quanto priva di fondamento normativo, non potrebbe mai essere assunta a parametro ai fini della quantificazione della “giusta” retribuzione.

3.3. Nella specie, la ricorrente, oltre a non aver posto a fondamento della domanda la errata applicazione delle disposizioni contrattuali, non ha comunque considerato che il D.P.R. n. 18 del 1967, art. 157, comma 3, indica un criterio tendenziale di omogeneità per le diverse istituzioni operanti nella medesima realtà territoriale, ossia rappresentanza diplomatica, uffici consolari, istituti di cultura, e detta finalità, si riferisce principalmente agli uffici e solo in via indiretta al persona e, come è reso evidente dalla seconda parte della disposizione, applicabile nell’ipotesi in cui nel medesimo Paese si riscontrino diversità significative, quanto al costo della vita, nelle diverse zone territoriali (citata Cass., n. 16755 del 2019).

Ciò, anche tenuto conto che “il principio di pari trattamento di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45, vieta trattamenti individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli previsti dalla contrattazione collettiva, ma non costituisce parametro per giudicare le differenziazioni sperate in quella sede, dato che il legislatore ha lasciato piena autonomia alle parti sociali di prevedere trattamenti differenziati in funzione dei diversi percorsi formativi, delle specifiche esperienze maturate e delle diverse carriere professionali” (in tal senso Cass. n. 6553 del 2019, e la giurisprudenza ivi richiamata).

Pertanto è priva di fondamento la pretesa della ricorrente di vedere parificato il trattamento retributivo a quello riservato ad altri) dipendente, di pari qualifica e mansioni, assegnata alla stessa sede di servizio.

3.4. Infine – in relazione alla censura relativa al rilievo che, nel richiamare il raccordo del trattamento retributivo con le percentuali riferite all’indennità ISE, sarebbe stato attribuito dalla Corte d’Appello al D.P.R. n. 18 del 1967, art. 162, quale disciplina che ratione temporis avrebbe escluso disparità di trattamento – rileva il collegio che (si v., Cass., n. 11416 del 2017) gli automatismi retributivi previsti dal D.P.R. n. 18 del 1967, art. 162, sono stati eliminati a seguito dell’intervento del D.Lgs. n. 103 del 2000, art. 3, atteso che la prima di tali norme non è stata riprodotta nella novella introdotta dal predetto D.Lgs..

4. Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 18 del 1967, art. 157, comma 3 e dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4.

La sentenza di Appello è sottoposta a censura per non avere applicato il D.P.R. n. 18 del 1967, art. 157, comma 3, norma applicata dal Tribunale.

Benchè la mancata applicazione di tale norma aveva costituito oggetto dei motivi di gravame, la Corte d’Appello aveva omesso di pronunciarsi in merito.

4.1. Il motivo non è fondato, in ragione delle considerazioni già svolte nella trattazione del terzo motivo di ricorso in riferimento alla disciplina applicabile alla fattispecie in esame.

5. La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara inammissibile il secondo motivo di ricorso, rigetta il terzo ed il quarto motivo di ricorso. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.

6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del citato art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara inammissibile il secondo motivo di ricorso, rigetta il terzo ed il quarto motivo di ricorso. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 31 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2020

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA