Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9868 del 05/05/2011

Cassazione civile sez. trib., 05/05/2011, (ud. 17/02/2011, dep. 05/05/2011), n.9868

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ALONZO Michele – Presidente –

Dott. MERONE Antonio – rel. Consigliere –

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna Concetta – Consigliere –

Dott. COSENTINO Giuseppe Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrente –

contro

G.V., elettivamente domiciliata in ROMA VIA

ALESSANDRIA 128-130, presso lo studio dell’avvocato PIRO ANTONINO,

rappresentata e difesa dall’avvocato MARTORELLI MARIO;

– resistente con procura di costituzione –

avverso la sentenza n. 72/2005 della COMM. TRIB. REG. di ANCONA,

depositata il 24/05/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/02/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO MERONE;

udito per il ricorrente l’Avvocato MADDALO, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

La sig.ra G.V. ha impugnato un avviso di accertamento IRPEF con il quale il competente ufficio della Agenzia delle Entrate recuperava a tassazione i redditi percepiti, e non dichiarati, dalla So.gest. s.r.l nel corso dell’anno 1997, con irrogazione delle relative sanzioni.

I pagamenti effettuati “a nero” dalla società risultavano dalle ricevute autografe della G., rinvenute ed acquisite in occasione di una verifica fiscale effettuata a carico della stessa società.

La Commissione tributaria regionale, confermando la decisione di primo grado, ha accolto il ricorso della contribuente, rilevando che – non risultava che datore di lavoro e lavoratore avessero stretto un accordo per non dichiarare gli emolumenti in questione;

– la G. non era obbligata a controllare le scritture contabili del datore di lavoro e quindi non poteva sapere che la società non aveva operato le ritenute alla fonte;

– comunque, la G. aveva agito in buona fede, ritenendo di non dover presentare la dichiarazione di redditi derivanti dal suo unico rapporto di lavoro.

L’Agenzia delle Entrate ricorre per la cassazione di quest’ultima sentenza, meglio indicata in epigrafe, sulla base di un unico complesso motivo. La parte intimata non ha svolto attività difensiva.

Diritto

Il ricorso appare fondato.

Con l’unico complesso motivo di ricorso, l’Agenzia delle Entrate, denunciando violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 41 e 64, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 51 (ex art. 48), L. n. 212 del 2000, art. 10 e art. 214 c.p.c., unitamente al vizio idi insufficiente motivazione, chiede la cassazione della sentenza impugnata, osservando che la materia del contendere è costituita:

a) in punto di fatto, dalla sussistenza dei pagamenti “a nero” effettuati dalla società alla G.;

b) in punto di diritto, dalla sussistenza, in capo alla contribuente/lavoratrice, dell’obbligo di dichiarare al fisco tali pagamenti.

Tutte le altre circostanze di fatto evidenziate dalla CTR (mancanza di un accordo tra datore di lavoro e lavoratrice per occultare al fisco le retribuzioni, buona fede, unicità del rapporto di lavoro), osserva la ricorrente, sono del tutto irrilevanti; così come è errata in diritto la conclusione che la contribuente fosse esonerata da ogni obbligo fiscale, per il solo fatto che vi era l’obbligo primario del sostituito.

Osserva il Collegio che, in punto di fatto, è pacifico che la G. ha percepito, dalla società datrice di lavoro, compensi non dichiarati. In punto di diritto, l’assunto della CTR, secondo il quale gli obblighi del sostituto assorbivano ogni altro obbligo del sostituito è del tutto errato. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, alla quale aderisce il Collegio (anche in considerazione del fatto che non sono state prospettate valide ed argomentate tesi alternative), “in caso di mancato versamento della ritenuta d’acconto da parte del datore di lavoro, il soggetto obbligato al pagamento del tributo è comunque anche lavoratore contribuente” (Cass. 8504/2009).

In presenza dell’obbligo di effettuare “la ritenuta di acconto (diretta, in sè, ad agevolare non solo la riscossione ma anche l’accertamento degli obblighi del percettore del reddito), l’intervento del “sostituto” lascia inalterata la posizione del “sostituito”, il quale è specificamente gravato dell’obbligo di dichiarare i redditi assoggettati a ritenuta, poichè essi concorrono a formare la base imponibile sulla quale, secondo il criterio di progressività, sarà calcolata l’imposta dovuta, detraendosi da essa la ritenuta subita come anticipazione de prelievo. Da ciò consegue che, quando la ritenuta non sia stata operata su emolumenti che pur costituiscono componente di reddito, alla omissione il percettore dovrà ovviare, dichiarando i relativi proventi e calcolando l’imposta sull’imponibile alla cui formazione quei proventi hanno concorso” (Cass. 2212/2000; conf. 16092/2000, 10057/2000, 1081/2003).

Conseguentemente, il ricorso deve essere accolto, la sentenza impugnata deve essere cassata e la causa deve essere rinviata al giudice “a quo” per il giudizio di merito da celebrarsi nel rispetto del principio di diritto affermato.

Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale delle Marche.

Così deciso in Roma, 17 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 5 maggio 2011

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