Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9866 del 26/05/2020

Cassazione civile sez. III, 26/05/2020, (ud. 09/01/2020, dep. 26/05/2020), n.9866

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15380-2018 proposto da:

C.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FRIGGERE

ATTILIO, 55, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE ORAZIO RUSSO,

che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO ECONOMIA FINANZE (OMISSIS), in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende;

– resistente –

avverso la sentenza n. 22720/2017 del TRIBUNALE di ROMA, depositata

il 01/12/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

09/01/2020 dal Consigliere Dott. OLIVIERI STEFANO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con provvedimento di ingiunzione emesso ai sensi del R.D. 14.4.1910 n. 639 il Ministero della Economia e delle Finanze richiedeva a C.R. la restituzione della somma di Euro 1060,66 (di cui Euro 60,66 per interessi e spese forfetarie di notifica) indebitamente erogata, in difetto dei requisiti reddituali familiari, a titolo di assegno una tantum, previsto dalla L. 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, commi 331 e 332 a sostegno delle famiglie con nuovi figli nati od adottati nell’anno 2005 e 2006, essendo emerso a seguito di verifiche fiscali che la beneficiaria nell’anno precedente la nascita aveva dichiarato un reddito annuo superiore ad Euro 50.000,00.

Il Giudice di Pace di Roma ha rigettato la opposizione proposta dalla R., con sentenza n. 36141/2014 confermata dal Tribunale di Roma, in grado di appello, con sentenza in data 1.12.2017 n. 22720.

Il Giudice di appello rilevava la inammissibilità della domanda nuova formulata con l’atto di impugnazione dalla R. avente ad oggetto l’accertamento negativo del credito in quanto il limite di reddito avrebbe dovuto essere considerato al netto e non al lordo; ha qualificato il giudizio di opposizione alla ingiunzione come azione di accertamento negativo del credito; ha ritenuto infondato il motivo di gravame volto a censurare la omessa pronuncia del primo Giudice in ordine alla sussistenza delle condizioni di ammissibilità dell’atto di ingiunzione, dovendo in ogni caso essere esaminato nel merito il rapporto sostanziale sottostante e comunque avendo sul punto implicitamente pronunciato il Giudice di Pace; ha ritenuto infondata l’azione della R. in quanto dalle dichiarazioni dei redditi dei coniugi risultava che il marito aveva dichiarato un reddito lordo di e 71.929,00 pari ad un reddito netto di Euro 59.823,00 comunque superiore al limite di Euro 50.000,00 previsto dalla legge per l’accesso al beneficio economico.

La sentenza di appello, non notificata, è stata ritualmente impugnata da C.R. con ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, illustrati da memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 1. Non ha svolto difese il Ministero intimato cui il ricorso è stato notificato in data 23.5.2018.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il primo motivo censura la sentenza di appello per “insanabile contraddittorietà”, violazione del principio del contraddittorio e del diritto difesa e delle norme del giusto processo ex art. 111 Cost., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Sostiene la ricorrente che il Tribunale dopo aver in via pregiudiziale ritenuto inammissibile in quanto nuova la domanda subordinata volta ad accertare insussistente il credito dell’Amministrazione statale in quanto il requisito reddituale avrebbe dovuto essere verificato al netto e non al lordo di quello dichiarato fiscalmente, ha poi esaminato egualmente nel merito i fatti costitutivi di detto diritto che ha ritenuto sussistenti.

La censura è inammissibile in quanto carente di interesse.

Premesso che la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da “error in procedendo”, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016) e premesso ancora che il vizio di contraddittorietà di motivazione presuppone un’insanabile inconciliabilità tra le varie ragioni ed argomentazioni poste dal giudice a giustificazione della soluzione adottata, sì da elidersi a vicenda e da rendere impossibile l’individuazione del procedimento logico-giuridico seguito per giungere alla decisione (Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 3286 del 11/06/1979; id. Sez. 2, Sentenza n. 7476 del 04/06/2001), occorre rilevare, da un lato, che la “ratio decidendi” della controversia, quanto all’accertamento dei fatti costitutivi del diritto, emerge chiaramente dallo svolgimento della motivazione della sentenza; dall’altro che la “doppia motivazione” di inammissibilità per novità della domanda e di rigetto nel merito della domanda stessa, se può rendere superflua la pronuncia di merito rispetto alla ritenuta preclusione del motivo di gravame all’accesso del sindacato del Giudice di appello, avuto riguardo all’ordine di esame delle questioni che il Giudice di merito è tenuto ad affrontare ex art. 276 c.p.c., tuttavia non inficia per ciò stesso la validità della pronuncia di merito in relazione al prospettato vizio di legittimità, tenuto conto che entrambe le pronunce convergono nell’affermazione della soccombenza dell’appellante sia in rito che nel merito.

In ogni caso, venendo a soddisfare, comunque, alla esigenza -cui è preordinato il processo- di fornire alle parti in causa la regola di diritto del rapporto controverso, la pronuncia di merito non può ritenersi “tamquam non esset”, laddove come nel caso di specie risulti errata la pronuncia in rito. Ed infatti, come rilevato dallo stesso Tribunale, l’atto di ingiunzione, emesso ai sensi del R.D. n. 639 del 1910, art. 2, anche dopo il venir meno di tale forma di riscossione, in forza della abrogazione disposta dal D.P.R. n. 28 gennaio 1988, n. 43, art. 130, che ha privato la ingiunzione della funzione di precetto e di titolo esecutivo azionabile in forme diverse dalla procedura di riscossione a mezzo ruolo tramite il concessionario (D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, art. 17), rappresenta l’atto attraverso il quale l’Amministrazione mette in mora il contribuente, rendendolo edotto della pretesa avanzata nei suoi confronti ed invitandolo ad assolvere il proprio debito, conservando una precipua funzione accertativa (cristallizzandosi e divenendo incontestabile il credito nell'”an” e nel “quantum”, indicato nella ingiunzione, in mancanza di opposizione, così da costituire accertamento del diritto presupposto alla formazione del titolo esecutivo mediante iscrizione a ruolo del corrispondente importo: vedi Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 18490 del 21/09/2016) ed assolvendo quindi, nell’ambito del giudizio di opposizione, alla funzione di una domanda di accertamento del credito formulata dalla Amministrazione pubblica che, in quanto attore in senso sostanziale, è onerata della relativa prova dei fatti costitutivi del credito (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 14812 del 18/06/2010; id. Sez. 5, Sentenza n. 4510 del 21/03/2012; id. Sez. 5, Sentenza n. 27816 del 12/12/2013; id. Sez. 1, Sentenza n. 9989 del 16/05/2016; id. Sez. 1 -, Sentenza n. 24040 del 26/09/2019; id. Sez. 5 -, Ordinanza n. 25994 del 15/10/2019).

La questione è stata affrontata e risolta da questa Corte ritenendo che il giudizio di opposizione ad ingiunzione emessa ai sensi del R.D. 639/1910 comporta, in ogni caso, un accertamento sul merito del rapporto sostanziale (id est sui fatti costitutivi del credito), anche a prescindere da una specifica richiesta delle parti in tal senso, sicchè è da dichiarare priva di interesse -e dunque inammissibile- una opposizione volta a far valere soltanto vizi di regolarità formale od il difetto dei presupposti legali per il ricorso alla ingiunzione predetta, senza contestare anche il merito del diritto di credito (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 14812 del 18/06/2010; id. Sez. 1, Sentenza n. 22792 del 03/11/2011),venendo a spiegare rilevanza l’eventuale accertamento della illegittimità del ricorso alla ingiunzione, esclusivamente ai fini della liquidazione delle spese di lite (cfr. Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 3706 del 14/04/1987; id. Sez. L, Sentenza n. 12674 del 20/06/2016) o dell’utilizzo della ingiunzione quale atto presupposto della iscrizione a ruolo e della successiva esecuzione forzata (Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 9989 del 16/05/2016; id. Sez. 5 -, Ordinanza n. 25994 del 15/10/2019), bene potendo, pertanto, il Giudice di merito pervenire a dichiarare illegittima la ingiunzione ed accertare al contempo la fondatezza della pretesa creditoria (cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 2355 del 29/01/2019).

Pertanto nella specie, la “contraddizione” tra la rilevata preclusione in rito e la pronuncia sul merito, non assurge ad incomprensibilità della decisione, censurabile in relazione alla mancanza del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, per individuare la relazione logica istituita tra la premessa in fatto e la applicazione della regola di diritto, con conseguente invalidità della sentenza ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4) ma la pronuncia di merito viene a “correggere” l’errore in rito commesso dal Giudice di appello così deprivandolo degli effetti invalidanti della decisione che altrimenti avrebbe determinato- laddove, verosimilmente incorrendo in equivoco sulla espressione “domanda subordinata”, formulata dalla R. nell’atto di appello, ha ipotizzato di essere in presenza di una domanda nuova preclusa ex art. 345 c.p.c., non avvedendosi che la questione concernente il carattere lordo o netto del reddito, in quanto riferita ad un elemento della fattispecie costitutiva del diritto al beneficio economico ex L. n. 266 del 2005 in altro non si risolveva che nella richiesta -in negativo- di accertamento della inesistenza del fatto costitutivo del credito restitutorio azionato dalla Amministrazione statale, ossia -reciprocamente- nella richiesta di accertamento del rapporto sostanziale controverso avente ad oggetto il diritto al beneficio economico erogato, già appartenente all’oggetto del giudizio di opposizione e sulla quale il Tribunale, avuto riguardo ai principi giurisprudenziali sopra richiamati, era tenuto comunque a decidere nel merito.

Con il secondo motivo (nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione ex art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) la ricorrente impugna la sentenza di appello in quanto si sarebbe limitata a reiterare le conclusioni raggiunte dal primo Giudice sulla scorta esclusivamente della “comunicazione” prodotta dal Ministero attestante il superamento del limite reddituale familiare di Euro 50.000,00 richiesto dalla legge per la erogazione dell’assegno, omettendo di esaminare la questione prospettata con il motivo di gravame secondo cui il limite predetto doveva interpretarsi come riferito al reddito netto e non a quello lordo.

Il motivo è inammissibile e comunque infondato.

Il Tribunale ha, infatti, esaminato la questione del limite reddituale, sia per escludere la illegittimità del ricorso all’atto ingiuntivo di cui al R.D. n. 639 del 1910, ritenendo comprovati i requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità del credito, alla stregua della “predeterminazione normativa sia della entità della somma sia dei presupposti per la configurabilità del diritto….” (tanto in considerazione della previsione dell’importo dell’assegno definita in Euro 1.000,00 dalla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 331, quanto del superamento del limite reddituale di Euro 50.000,00 previsto dal comma 332 del medesimo articolo), sia per ritenere infondata la critica svolta dalla appellante in quanto “dai modelli 730 offerti in comunicazione da parte attrice nel giudizio di I grado” risultava un reddito familiare complessivo superiore anche al netto di tutte le imposte (Euro 59.823,00) superiore al limite prescritto dalla legge.

Risulta dunque inconferente la censura mossa alla sentenza impugnata secondo cui il Tribunale avrebbe escluso il beneficio economico optando irragionevolmente nel considerare quale parametro di accesso all’assegna il reddito lordo anzichè il reddito netto.

Con il terzo motivo si censura la sentenza di appello per violazione dell’art. 1, commi 331-334 (e non degli artt. 331-334 come indicato in rubrica) della L. n. 266 del 2005, nonchè dell’art. 115 c.p.c., (principio di non contestazione), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, in quanto il Tribunale non avrebbe tenuto conto della allegazione della R. a verbale di udienza di primo grado in data 30.5.2014 secondo cui il reddito da considerare era soltanto quello del marito “che ascendeva ad Euro 47.000,00” avendo l’altro coniuge dichiarato redditi inferiori a quelli soggetti a tassazione IRPEF e dunque irrilevanti ai fini del computo.

Il motivo è inammissibile.

Premesso che il motivo di ricorso per cassazione con il quale si intenda denunciare l’errata od omessa rilevazione, nella sentenza impugnata, delle specifiche contestazioni formulate dalla parte processuale su una determinata circostanza, deve indicare puntualmente il contenuto degli atti difensivi o dei verbali di udienza dai quali emerga in modo evidente la genericità delle allegazioni in fatto, in quanto tali non bisognevoli di una puntuale contestazione od, invece, la specifica contestazione di quei fatti che per il loro carattere circostanziato e preciso, se non puntualmente contestati, appaiono definitivamente esclusi dal “thema probandum” (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 15961 del 18/07/2007; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 20637 del 13/10/2016 -il ricorrente affermava che i fatti erano stati contestati -; Corte cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 12840 del 22/05/2017 -il ricorrente affermava che i fatti non erano contestati-), osserva il Collegio che la ricorrente non ha adempiuto a tale onere, non essendo dato verificare dall’estratto del verbale di udienza trascritto nel ricorso se e quali difese abbia eventualmente svolto alla stessa udienza la Amministrazione statale. Peraltro la anapodittica affermazione di una non contestazione del Ministero in ordine alla allegazione della produzione nel 2004 di un reddito inferiore ad Euro 50.000,00 risulta smentita per tabulas dalla circostanza, riferita dalla stessa ricorrente, secondo cui l’Amministrazione statale aveva posto a fondamento della pretesa recuperatoria dell’assegno gli accertamenti fiscali eseguiti in base alla Anagrafe tributaria da cui risultava il superamento del limite reddituale familiare.

Qualora poi la ricorrente avesse inteso criticare la sentenza per la omessa valutazione della predetta circostanza allegata a verbale di udienza, il motivo si paleserebbe comunque inammissibile, sia in quanto non avrebbe dovuto allora dedurre la censura per errore di diritto; sia in quanto anche a riqualificare la censura come vizio di omessa considerazione di un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, difetterebbe la indicazione del fatto storico decisivo, oggetto di verifica istruttoria, attestante il diverso importo reddituale, avendo del tutto omesso la ricorrente di indicare se e quali documenti siano stati prodotti a supporto della allegazione formulata a verbale di udienza in primo grado.

Con il quarto motivo la sentenza di appello viene impugnata per violazione dell’art. 113 c.p.c., comma 2 e per difetto assoluto di motivazione, in quanto il Tribunale così come il Giudice di Pace avrebbero disatteso “la domanda subordinata di decidere il merito secondo equità”.

Il motivo è inammissibile in quanto non consente di verificare quale sarebbe l’errore commesso dai Giudici di merito.

L’art. 113 c.p.c., comma 2 -a differenza dell’art. 114 c.p.c. – prevede che le causa di valore inferiore ad Euro 1.100,00 debbano essere sempre decise dal Giudice di Pace secondo equità.

Indipendentemente dal tenore della decisione di prime cure, della quale la ricorrente non fornisce indicazioni a supporto della censura, è appena il caso di osservare come il Tribunale abbia, invece, tenuto conto della norma in questione, verificando compiutamente l’ammissibilità dell’appello, giusti i limiti alla proposizione dei motivi di gravame avverso le pronunce secondo equità prescritti dall’art. 339 c.p.c., comma 3, rilevando che l’appellante aveva ritualmente dedotto motivi attinenti a vizi processuali ed a violazione dei principi regolatori della materia (Corte cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 5287 del 03/04/2012).

Qualora poi la ricorrente ritenesse che il giudizio d’equità, possa essere deciso prescindendo dal quadro normativo della fattispecie costitutiva del diritto al beneficio economico, è appena il caso di ribadire che spetta in via insindacabile al Giudice di Pace stabilire se fare o meno ricorso ad una specifica norma di diritto per risolvere la controversia ex art. 113 c.p.c., comma 2, dovendo ribadirsi i principi consolidati secondo cui:

a) il giudice di pace, quando pronunzia in controversie di valore non superiore ai due milioni non deve procedere alla individuazione della norma di diritto sostanziale astrattamente applicabile alla fattispecie (dovendo attenersi esclusivamente alle norme sul procedimento, alle norme costituzionali e comunitarie, nonchè ai principi regolatori della materia, come si evince dall’art. 339 c.p.c., comma 3, come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 1) giacchè, in tali controversie, egli deve giudicare facendo immediata applicazione di un’equità cosiddetta formativa o sostitutiva (e non della cosiddetta equità correttiva o integrativa) e deve perciò fondarsi su di un giudizio di tipo intuitivo e non sillogistico (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 716 del 15/10/1999), sicchè quando sceglie di allontanarsi dallo stretto diritto, non può limitarsi ad affermare che ciò gli sembra equo, ma deve dar conto delle ragioni per cui, in conformità ai principi informatori della materia, un determinato comportamento gli appare meritevole di tutela più o meno ampia rispetto alla valutazione data dall’ordinamento positivo, evidenziando come questo apprezzamento sia obiettivamente giusto in base a quei particolari di fatto che rilevano specificamente nel giudizio di equità (Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 2281 del 02/02/2006; id. Sez. 2, Sentenza n. 17122 del 27/07/2006).

b) Le sentenze del giudice di pace rese in controversie di valore non

superiore a Euro 1.100,00 (in precedenza due milioni di lire) sono da considerare sempre pronunciate secondo equità per testuale disposizione normativa anche se il giudicante abbia applicato una norma di legge ritenuta corrispondente all’equità, ovvero abbia espressamente menzionato norme di diritto senza alcun riferimento all’equità, dovendosi, in tale ultima ipotesi, presumere implicita la corrispondenza, “sic et simpliciter”, della norma giuridica applicata alla regola di equità (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 716 del 15/10/1999; id. Sez. 2, Sentenza n. 4326 del 06/04/2000; id. Sez. 3, Sentenza n. 7515 del 04/06/2001; id. Sez. 3, Sentenza n. 4079 del 25/02/2005).

La censura mossa dalla ricorrente si palesa dunque del tutto generica e non rispondente al requisito di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, neppure essendo indicata la ragione per la quale la decisione impugnata contrasterebbe con le norme asseritamente violate.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato, non occorrendo provvedere sulle spese di lite in difetto di difese svolte dalla Amministrazione pubblica intimata.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il versamento, se e nella misura dovuto, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 9 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2020

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