Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9866 del 19/04/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 19/04/2017, (ud. 23/11/2016, dep.19/04/2017),  n. 9866

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. PATTI A. Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18680-2014 proposto da:

P.C., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

GIUSEPPE DONATI 32, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO MARINO,

rappresentato e difeso dagli avvocati FILOMENA PELLICANO’, GIUSEPPE

MORABITO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

COMPAGNIA PORTUALE TOMMASO GULLI S.R.L.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1546/2013 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 16/10/2013 R.G.N. 479/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/11/2016 dal Consigliere Dott. NEGRI DELLA TORRE PAOLO;

udito l’Avvocato PELLICANO’ FILOMENA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 1546/2013, depositata il 16 ottobre 2013, la Corte di appello di Reggio Calabria, in accoglimento del gravame della Compagnia Portuale Tommaso Gulli S.r.l. e in totale riforma della sentenza di primo grado del Tribunale di Reggio Calabria, rigettava le domande, con le quali P.C. aveva chiesto che venisse dichiarato illegittimo, con le pronunce conseguenti, il licenziamento allo stesso intimato, con lettera in data 10/1/2004, per giustificato motivo soggettivo, consistito in assenze ingiustificate nei giorni (OMISSIS).

La Corte territoriale riteneva provati i fatti contestati sulla base delle dichiarazioni rese da due testimoni, che avevano lavorato negli uffici della Compagnia in locali attigui a quello in cui operava il P., osservando come l’ammissione di tali mezzi di prova ammissione disposta nel giudizio di appello, pur a fronte di una tardiva costituzione della resistente in primo grado – dovesse considerarsi indispensabile, trattandosi dei soggetti che avevano firmato i “verbali di constatazione” delle assenze, già acquisiti al processo in quanto prodotti con il ricorso introduttivo dallo stesso P. (che ne aveva contestato il contenuto, negando di essere stato assente nei giorni riportati, ma non l’autenticità delle sottoscrizioni), e nel difetto di altre utili risultanze istruttorie. La Corte riteneva poi proporzionata la sanzione disciplinare applicata, posto che le assenze, che avevano dato luogo all’addebito e al successivo licenziamento, erano seguite, a breve distanza, ad altre già sanzionate con una misura conservativa, così da risultare caratterizzate da recidiva, e che l’intensificarsi delle prestazioni del P. per altra azienda, nel periodo in cui si erano verificate le assenze ingiustificate, era tale da compromettere la fiducia del datore di lavoro nell’esattezza dei futuri adempimenti. La Corte di appello, infine, riteneva infondato il rilievo di violazione della procedura disciplinare, non essendo stato indicato nella lettera di contestazione il termine entro il quale il lavoratore incolpato avrebbe potuto presentare le proprie giustificazioni, atteso che il P. aveva più volte risposto alle contestazioni datoriali e, da ultimo, anche il giorno precedente il recesso.

Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il lavoratore con quattro motivi; la società è rimasta intimata.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione all’art. 2697 c.c., e agli artt. 115, 116 e 416 c.c. e art. 437 c.p.c., comma 2, il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la Corte di appello erroneamente dato ingresso alle testimonianze di V.F. e C.V., a conferma dei “verbali di constatazione” delle assenze, nonostante che la Compagnia si fosse costituita tardivamente nel giudizio avanti al Tribunale e che tali documenti, in quanto contestati sin dalla proposizione del ricorso introduttivo, fossero privi di valore probatorio.

Con il secondo motivo, deducendo violazione di norme di diritto in relazione all’art. 111 Cost., art. 116 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4, (art. 360, n. 3) e omessa motivazione (art. 360, n. 5), il ricorrente si duole che la Corte abbia fondato il proprio convincimento su di una motivazione apodittica e, in particolare, su di un giudizio di attendibilità delle testimoni V. e C. che non teneva conto della presenza in atti di risultanze istruttorie di segno contrario.

Con il terzo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione alla L. n. 300 del 1970, e omessa applicazione del CCNL dei lavoratori portuali nonchè insussistenza del requisito di proporzionalità tra infrazione e sanzione (art. 360, n. 3), il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere considerato determinante, ai fini di tale requisito, la circostanza che le assenze contestate fossero caratterizzate (quantomeno in fatto) da recidiva, nonostante che quest’ultima, secondo le previsioni di fonte collettiva applicabili al rapporto, potesse rilevare, in materia di licenziamento disciplinare, soltanto nel caso in cui risultassero già applicati tre provvedimenti di sospensione; e inoltre per aver considerato legittima la sanzione espulsiva, nonostante la non riconducibilità della fattispecie concreta alle medesime previsioni.

Con il quarto e ultimo motivo di ricorso (violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione L. n. 300 del 1970, art. 7, e art. 112 c.p.c.: art. 360, nn. 3 e 4, la sentenza di appello viene censurata nella parte in cui la Corte territoriale, omettendo di esaminare i molteplici e specifici rilievi mossi dal ricorrente e trascurando le previsioni collettive in materia, ha disatteso il motivo di gravame relativo alla mancata fissazione, con la lettera di comunicazione dell’addebito, di un termine entro cui il lavoratore potesse presentare le proprie giustificazioni e al divieto di procedere alla irrogazione della sanzione prima che il predetto termine fosse decorso. Con lo stesso motivo viene altresì censurata la sentenza per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360, n. 5), individuato nella nullità anche di uno solo dei provvedimenti prodromici al licenziamento in quanto idoneo a inficiare di nullità l’intero procedimento disciplinare.

Il primo motivo è infondato.

Come precisato da questa Corte, “nel rito del lavoro, il verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti non osta all’ammissione d’ufficio delle prove, trattandosi di potere diretto a vincere i dubbi residuati dalle risultanze istruttorie, ritualmente acquisite agli atti del giudizio di primo grado. Ne consegue che, essendo la prova nuova disposta d’ufficio funzionale al solo indispensabile approfondimento degli elementi già obbiettivamente presenti nel processo, non si pone una questione di preclusione o decadenza processale a carico della parte”: Cass. n. 18924/2012; conforme Cass. n. 2379/2007.

Nella specie, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione di tale principio, avendo rilevato, in primo luogo, come i “verbali di constatazione delle assenze” (anche di quelle verificatesi nei giorni (OMISSIS), poste a base del licenziamento) fossero stati prodotti, con l’atto introduttivo del giudizio di primo grado, dallo stesso P. e, pertanto, in virtù del principio di acquisizione processuale, potessero essere utilizzati anche a suo sfavore; ed inoltre rilevato come fosse da considerarsi pacifica, alla stregua delle produzioni di entrambe le parti, l’esistenza di soggetti disposti a mettere per iscritto di avere riscontrato l’assenza del ricorrente in determinati giorni, non risultando contestata da quest’ultimo la provenienza delle firme sui documenti in questione ma soltanto la veridicità del loro contenuto: ciò che, nel difetto di qualsiasi utile risultanza probatoria (circa le assenze contestate) desumibile dalle dichiarazioni dei testimoni indicati dal ricorrente, costituiva elemento, già acquisito al processo, tale da offrire lo spunto per integrare un quadro probatorio già tempestivamente delineato. Nè rileva in senso contrario il fatto che le scritture private provenienti da terzi, al cui novero appartengono i prodotti “verbali di constatazione”, integrano prove atipiche ed hanno “un valore meramente indiziario”, così da non poter costituire “di per sè l’unica fonte di convincimento per il giudice del merito, pur essendo suscettibili di integrare il fondamento della decisione nel concorso di altri elementi che ne confortino la credibilità e l’attendibilità” (Sezioni Unite, 23 giugno 2010, n. 15169), ben potendo il potere istruttorio ex artt. 421 e 437 c.p.c., il quale è volto al contemperamento del principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, in attuazione degli interessi sostanziali tutelati con il rito speciale del lavoro, essere esercitato dal giudice del merito non solo in presenza di un contrasto di risultanze sull’esistenza o meno del fatto contestato ma anche ad integrazione di elementi, purchè già acquisiti al giudizio, caratterizzati da un contenuto livello di attitudine probatoria, ove l’iniziativa di ufficio sia diretta a determinare l’apporto di ulteriori e specifici elementi in grado di comporre il (parziale) quadro esistente.

Il secondo motivo è inammissibile.

Esso, infatti, dolendosi il ricorrente di una motivazione carente del giudice di merito, non si conforma allo schema normativo del nuovo vizio “motivazionale”, quale risultante a seguito delle modifiche introdotte con il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134, pur a fronte di sentenza depositata il 16 ottobre 2013 e, pertanto, in epoca successiva all’entrata in vigore (11 settembre 2012) della novella legislativa.

Al riguardo, le Sezioni Unite di questa Corte, con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014, hanno precisato che l’art. 360 c.p.c., n. 5, come riformulato a seguito dei recenti interventi, “introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia)”; con la conseguenza che “nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”.

D’altra parte, nel vigore della norma, di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, nella formulazione anteriore alla novella del 2012, era consolidato il principio di diritto, secondo il quale “spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllare l’attendibilità e la concludenza delle prove, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova. Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità” (Cass. n. 25608/2013); con la precisazione che “il vizio di motivazione che giustifica la cassazione della sentenza sussiste solo qualora il tessuto argomentativo presenti lacune, incoerenze e incongruenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione impugnata, restando escluso che la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice di merito e l’attribuzione agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi rispetto alle aspettative e deduzioni delle parti” (Cass. n. 1754/2007).

Il terzo motivo è improcedibile, laddove richiama previsioni del CCNL di categoria, posto che, nell’inosservanza dell’onere di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente non risulta aver prodotto tale documento, nè specificato in quale sede di merito lo stesso fosse eventualmente rinvenibile (Sezioni Unite, 7 novembre 2013, n. 25038); ed è poi inammissibile, nella parte in cui denuncia la violazione del principio di proporzionalità tra condotta del lavoratore e sanzione inflitta, non avendo il ricorrente formulato specifiche censure, con riferimento all’art. 2106 c.c., nei confronti della sentenza impugnata, la quale ha posto soprattutto in evidenza lo stretto rapporto di vicinanza temporale, se non di immediatezza, tra le assenze che hanno condotto al licenziamento, e le assenze verificatesi, e già sanzionate, nel mese di dicembre 2003, oltre alla concomitanza delle assenze ingiustificate con l’intensificarsi delle prestazioni del P. per altra azienda, secondo una valutazione della fattispecie che risulta attenta, in conformità a costante orientamento di questa Corte, alla molteplicità delle circostanze oggettive e soggettive che individuano il caso concreto.

Anche il quarto motivo risulta improcedibile, e per i rilievi già svolti a proposito del terzo, laddove richiama nuovamente una disposizione (art. 33) del CCNL di categoria, e comunque inammissibile, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., non contenendo nè una precisa indicazione degli errori di diritto che sarebbero presenti nella sentenza di appello, nella parte in cui la Corte ha rilevato che il lavoratore era stato comunque posto nella condizione di difendersi dagli addebiti disciplinari, nè un riferimento chiaro e completo ai motivi di gravame, così da non consentire, sotto ogni profilo, l’identificazione delle critiche rivolte alla decisione impugnata.

Quanto infine al vizio di cui all’art. 360, n. 5, anch’esso dedotto nell’ambito del motivo in esame, si richiamano le considerazioni già svolte nella trattazione del secondo, dovendosi sottolineare come, alla stregua della citata giurisprudenza di legittimità, il fatto, di cui possa denunciarsi l’omesso esame, sia quello “storico”, principale o anche secondario, purchè decisivo ai fini della ricostruzione fattuale.

Il ricorso deve, pertanto, essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

PQM

la Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 100,00 per esborsi e in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi, del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, del comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 23 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 19 aprile 2017

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