Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9864 del 19/04/2017


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Cassazione civile, sez. lav., 19/04/2017, (ud. 17/11/2016, dep.19/04/2017),  n. 9864

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17135-2014 proposto da:

ISPA ISTITUTO STUDI PROBLEMI ARTIGIANATO C.F. (OMISSIS), in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEI VALERI 1, presso lo studio dell’avvocato CARMINE

PELLEGRINO, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

P.E.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 10962/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 09/01/2014 R.G.N. 11593/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/11/2016 dal Consigliere Dott. DE GREGORIO FEDERICO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per inammissibilità in

subordine rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO del PROCESSO

L’Istituto di Studi sui Problemi dell’Artigianato (ISPA) appellava la sentenza n. 7018 in data 11 aprile 2007, con la quale il giudice del lavoro di Roma, previo accertamento del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato intercorso con P.E., era stato condannato al pagamento della somma di Euro 6978,04 oltre accessori. L’interposto gravame veniva accolto soltanto con riferimento alla quantificazione delle somme dovute alla lavoratrice per i titoli già riconosciuti dal tribunale.

Le mansioni svolte dall’attrice venivano, quindi, considerate pienamente rientranti nel 2^ livello del contratto collettivo nazionale di lavoro degli studi professionali dalla Corte di Appello di Roma, che con la sentenza n. 10962 del 19 dicembre 2012, 9 gennaio 2014, in parziale accoglimento dell’interposto gravame, confermando nel resto l’impugnata sentenza, condannava l’Istituto al pagamento, in favore della P., della somma di Euro 6.186,69 in luogo di quella liquidata dal primo giudicante. Fermo restando il regolamento delle spese di primo grado, quelle di secondo grado erano compensate per 1/4, per l’effetto con la condanna dell’appellata al pagamento dei residui tre quarti, liquidate in Euro 1.500,00 oltre I.v.a. e c.p.a., ponendo inoltre definitivamente a carico dell’appellante le spese di c.t.u., liquidate separatamente.

Avverso la suddetta pronuncia l’istituto studi problemi dell’artigianato proponeva ricorso per cassazione con atto in data 1/2 luglio 2014, affidato a due motivi.

P.E. è rimasta intimata.

Non risultano memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI della DECISIONE

Il primo motivo di ricorso è stato formulato per asserita violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 416 e 167 c.p.c., nonchè degli artt. 2697 e 2909 c.c., (l’ultrapetizione deriverebbe dal fatto che non era stata allegata la violazione dell’obbligo formativo, invece ritenuta del giudice di merito).

La P. nel ricorso introduttivo del giudizio aveva chiesto l’accertamento di un rapporto a tempo indeterminato a far data 1 ottobre 1998, perciò “la nullità del contratto di formazione lavoro del 7 marzo 1999, stante la reale data di assunzione della ricorrente alle dipendenze della convenuta”, come da conclusioni rassegnate con l’atto introduttivo, instando altresì per il riconoscimento delle mansioni di 20 livello. L’Istituto, invece, aveva dedotto che il rapporto era iniziato il 7 marzo del 1999 con il contratto di formazione lavoro (3 livello iniziale e 2 finale). Il giudice di primo grado aveva accertato l’esistenza del rapporto dal 7 marzo 1999, ma aveva ritenuto lo stesso fino al 7 marzo 2001 a tempo indeterminato, dichiarando nullo il contratto di formazione lavoro per violazione dell’obbligo formativo, riconoscendo il 20 livello contrattuale. Avverso tale pronuncia con l’appello l’Istituto aveva denunciato la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, poichè nonostante il rigetto della richiesta di retrodatazione del rapporto, di cui era stata riconosciuta l’esistenza con decorrenza dal 7 marzo 1999, data di stipula del contratto di formazione e lavoro, il tribunale aveva dichiarato la nullità di tale contratto per violazione dell’obbligo formativo, violazione che però non aveva formato oggetto di contestazione da parte dell’attrice. Quest’ultima, infatti, con il ricorso introduttivo aveva dedotto la nullità del contratto 7 marzo 1999, 7 marzo 2001, tenuto conto dell’assunzione in epoca anteriore alla stipula di tale contratto.

La Corte di Appello, incorrendo nello stesso errore del Tribunale nel vizio di ultra petizione, aveva rigettato le censure mosse dall’Istituto appellante, ritenendo che dall’istruttoria fosse emersa l’identità delle modalità di lavoro sia nel primo che nel secondo periodo del rapporto (1 ottobre 1998 fino al 7 marzo 1999). Il vizio veniva mutuato dalla Corte di Appello, che addirittura lo espandeva nel raffrontare i due periodi lavorativi con motivazione che si scontrava con il giudicato richiamato in relazione a contratto di formazione lavoro. Era evidente l’errore della sentenza impugnata che accettava un motivo di invalidità non proposto dalla parte ricorrente e di conseguenza mansioni diverse rispetto a quelle documentali, andando oltre i poteri consentiti e violando il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato con ogni conseguenza anche in ordine alle somme liquidate in base alla c.t.u., che erroneamente la Corte distrettuale aveva considerato non efficacemente contestata. La sentenza della Corte d’Appello, inoltre, violava il giudicato formatosi sulla sentenza del Tribunale riguardo alla condanna dell’Istituto, fissata nel massimo in Euro 6978,07. Infatti, nonostante la condanna al pagamento della somma di Euro 6978,07 oltre accessori, per cui non vi era stato gravame dell’attrice, la Corte di Appello aveva riconosciuto l’errore del Tribunale nel non aver detratto la somma di Euro 1.711,81. La Corte distrettuale aveva disposto c.t.u. e sulla base di quest’ultima aveva riconosciuto alla P. la somma superiore di Euro 6.187,69 ossia accertando il dovuto di Euro 7.898,50 da cui sottraeva la somma di Euro 1.711,81 a titolo di TFR, rispetto a quella accertata dal Tribunale in ragione di 6.978,04 Euro. Evidentemente, la sentenza era stata impugnata dall’Istituto, mentre la P. ne aveva chiesto la conferma, ma rispetto all’attrice la condanna del Tribunale rappresentava quindi il massimo dovuto, essendosi formato sul punto il giudicato in difetto di gravame da parte dell’interessato. La Corte di Appello aveva quindi violato il giudicato, formatosi in proposito, accordando ulteriori somme non richieste, nè dovute.

La violazione del giudicato e il vizio di ultrapetizione si configuravano anche in merito all’entità della condanna, con specifico riferimento alle singole poste accordate.

Infatti, a seguito dei conteggi depositati in primo grado, il giudice adito aveva condannato l’Istituto al pagamento della somma di Euro 2.697,03 per il periodo marzo 1999, marzo 2001; in relazione al periodo aprile 2001 ottobre 2003, la condanna al pagamento era stata di Euro 4.271,01. Con l’appello venivano contestate le somme, per cui la Corte capitolina aveva disposto apposita c.t.u. contabile, che accertava le seguenti dovute differenze: per retribuzione base Euro 2.127,62; per 13a mensilità 83,76; per 14a mensilità Euro 886,14; per ferie Euro 1.827,04; a titolo di permessi Euro 893,86 e per t.f.r. Euro 2.080,08 (per un totale quindi Euro 7.898,50).

Era evidente l’errore del c.t.u., mutuato dalla Corte di merito, per cui si configuravano violazione del giudicato e vizio di ultra petizione, rispetto a quanto chiesto con il ricorso introduttivo dall’attrice e a quanto riconosciutole dal giudice di primo grado, per cui la stessa non aveva proposto impugnazione. La violazione dell’art. 112 c.p.c., era stata denunciata con l’appello. Inoltre, la somma individuata dal Tribunale a titolo di differenze retributive era coperta dal giudicato riguardo al quantum ivi riconosciuto, per difetto di impugnazione della P.. Di conseguenza, secondo l’Istituto ricorrente, la Corte d’Appello, non avrebbe potuto liquidare l’importo di Euro 1.827,04 (rispetto alla minor somma di Euro 1.404,29).

Con il secondo motivo di ricorso, è stata denunciata la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1431, 2033 e 2697 c.c., riguardo agli ulteriori motivi di gravame per i quali la sentenza impugnata si era limitata a confermare nel resto la pronuncia del Tribunale.

Infatti, con riferimento alla domanda riconvenzionale proposta dall’Istituto convenuto, era stata chiesta la condanna dell’attrice al pagamento delle somme di Euro 1.632,00 (corrisposta mediante assegno a titolo di prestito) e di Euro 7.394,96 (pagata mediante assegno, in relazione a 40 ore, mentre era pacifico che le ore lavorate fossero 30 a settimana).

Con riferimento al prestito, la P. aveva dedotto che la somma era da imputare alle retribuzioni di settembre e ottobre 2002, circostanza però smentita dalle buste paga allegate dalla ricorrente in primo grado e dai conteggi della stessa, laddove riguardo all’emolumento mensile di settembre la P. risultava aveva ricevuto Lire 2.628.467 e Lire 2.731 593 per ottobre. Tra l’altro, la somma delle due mensilità, come pretesa dalla P., corrispondeva a 2.768,23 Euro, importo dunque superiore a quello prestato, pari a Euro 1.630,00.

Era evidente l’errore del Tribunale, avallato della Corte distrettuale con la conferma in parte qua della sentenza di primo grado, in quanto le mere deduzioni della P. non avevano esaudito l’onere probatorio che le incombeva, non avendo ella smentito, ma imputato a diverso titolo la somma, mentre la motivazione del giudice di merito aveva illegittimamente invertito l’onere probatorio in violazione dell’art. 2697 c.c.. Inoltre, quanto alla somma corrisposta in più durante il periodo relativo al contratto di formazione lavoro per 7.694,96 Euro, la stessa rappresentava un indebito arricchimento ed andava quindi restituita all’Istituto. Per contro, l’attrice e con lei i giudici di merito avevano ritenuto che le somme anzidette fossero state corrisposte a titolo di trattamento di miglior favore. Era evidentemente emerso che a fronte di un orario convenuto ed osservato di 30 ore settimanali, venivano veniva ricompensato un maggior orario (complessive 40 ore).

Secondo l’Istituto ricorrente, non veniva corrisposta una somma maggiore per le ore lavorate (come erroneamente dedotto da controparte nella memoria di replica alla riconvenzionale e come motivato dal giudice), ma una somma rapportata ad ore che, come pacificamente emerso, non dovevano essere (secondo quanto pattuito dalle parti) e non erano state lavorate dalla P., la quale aveva prestato la sua attività in ragione di 30 ore a settimana. L’errore, in cui era incorso l’Istituto, era evidente e riconoscibile da controparte, tant’è che nel ricorso aveva fatto riferimento ad un orario inferiore rispetto a quello, maggiore ed errato, indicato nelle buste paga. Tali somme rappresentavano, dunque, ingiusta locupletazione e andavano pertanto restituite.

Ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6, parte ricorrente ha indicato che l’impugnazione è fondata sui seguenti atti (oltre che su quelli depositati nei fascicoli dei due gradi di merito): conteggi subordinati depositati in 1 grado dalla P. (in relazione al conteggio B utilizzato dal Tribunale della decisione); conteggi richiamati nel ricorso della P.; c.t.u. della Corte di Appello.

Il ricorso va disatteso in base alle seguenti considerazioni.

Ed invero, non risultano ritualmente allegati, nè debitamente prodotti, ex artt. 366 e 369 c.p.c., gli atti (ricorso introduttivo, memoria difensiva con riconvenzionale, memoria di replica a quest’ultima, sentenza di primo grado, atto di appello e conseguente memoria di costituzione per l’appellata), in relazione ai quali è stata dedotta la violazione delle denunziate norme di legge (vizio di ultrapetizione, violazione del giudicato, violazione dell’art. 2697 c.c., ed errore riconoscibile con conseguente indebito e diritto alla restituzione). Manca inoltre le riproduzione delle note in cui sarebbero state contestate le risultanze della c.t.u. di tipo contabile espletata in secondo grado, nonchè delle buste paga e di quant’altro indicato come pacifico a sostegno del secondo motivo.

Invero, ricorso è carente nella sua enunciazione a fronte di quanto è dato leggere nella impugnata pronuncia di merito, secondo cui andavano disattese le censure dell’Istituto appellante riguardo alle statuizioni relative alla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, all’invalidità del contratto di formazione lavoro e all’inquadramento nel secondo livello, tenuto conto delle risultanze della richiamata prova testimoniale espletata in primo grado, secondo cui in particolare la P. aveva sempre lavorato con le stesse modalità, sia nel primo che nel secondo periodo di lavoro, osservando un orario a tempo pieno ed in autonomia, senza alcun affiancamento da parte di altri che si occupasse della sua formazione, svolgendo mansioni di coordinatrice responsabile nell’ambito dei progetti di formazione professionale, nonchè gli altri compiti indicati dalla testimone escussa.

Tale mansioni, così come processualmente accertate, rientravano quindi pienamente nel 2 livello del c.c.n.l. per gli studi professionali, di cui veniva riportata la declaratoria.

Quanto, poi, alle censure dell’appellante in ordine alla quantificazione del dovuto, la sentenza d’appello ha richiamato la condivisa c.t.u. contabile, all’uopo espletata, adeguatamente motivata e supportata dalla documentazione in atti, che non era stata efficacemente contraddetta dai rilievi delle parti, se non con riferimento alla mancata detrazione della somma di 1.711,81 Euro (di cui era stato riconosciuto il pagamento avvenuto in data primo aprile 2004 a titolo di t.f.r., come da pag. 5 del ricorso introduttivo del giudizio) dall’importo di complessivi 7.898,50 Euro dovuti per differenze retributive e fine rapporto in base al suddetto secondo livello, di guisa che residuava il credito a favore della P. in ragione di 6.186,69 Euro (a fronte di quello pari a 6.978,04 Euro accertato dal primo giudicante).

Infatti, non risultano riprodotti nel loro contenuto gli atti e i documenti, sulla cui scorta parte ricorrente fonda le sue censure, nè sono stati indicati precisi riferimenti relativi a tali emergenze istruttorie. Parimenti, è assolutamente generico l’indice degli atti nell’ultima pagina in calce alle conclusioni del ricorso (copia autentica della sentenza impugnata, istanza di trasmissione del fascicolo di ufficio, “fascicolo di parte nel giudizio di appello e di primo grado “, nè risultando specifica l’indicazione ex art. 366 c.p.c., n. 6, dei conteggi subordinati depositati in primo grado dalla P…. dei conteggi richiamati nel ricorso delle P. e della c.t.u. (cfr. tra l’altro Cass. lav. n. 195 in data 11/01/2016, laddove si riteneva ferma, in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 6, degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi.

V. altresì Cass. civ. sez. 6 – 3, n. 19048 del 28/09/2016, secondo cui il ricorrente per cassazione, il quale intenda dolersi dell’omessa od erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di produrlo agli atti indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione e di indicarne il contenuto trascrivendolo o riassumendolo nel ricorso; la violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile.

In senso analogo Cass. lav. n. 2966 del 07/02/2011, circa il duplice onere – imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, di indicare esattamente nel ricorso in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione, e di indicarne il contenuto, trascrivendolo o riassumendolo nel ricorso. Conformi: n. 22303 del 2008, n. 15628 del 2009.

V. anche Cass. 3 civ. n. 16655 del 09/08/2016: quando il motivo di impugnazione si fondi sul rilievo che la controparte avrebbe tenuto condotte processuali di non contestazione, per consentire alla Corte di legittimità di prendere cognizione delle doglianze ad essa sottoposte, il ricorso, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, deve sia indicare la sede processuale di adduzione delle tesi ribadite o lamentate come disattese, sia contenere la trascrizione dei relativi passaggi argomentativi.

Cass. 1 civ. n. 16900 del 19/08/2015: ai fini del rituale adempimento dell’onere, imposto al ricorrente dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, è necessario specificare, in ossequio al principio di autosufficienza, la sede in cui gli atti stessi sono rinvenibili, provvedendo anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame.

In senso analogo v. ancora Cass. 5 civ. n. 26174 del 12/12/2014.

Cass. 6 civ. – L., ordinanza n. 17915 del 30/07/2010: il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito, provvedendo alla loro trascrizione, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, la S.C. deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative – principio affermato ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., comma 1, (Conformi: nn. 2977 del 2006, 6440 del 2007, 5043 del 2009, 4201 del 2010 e numerose altre).

Le stesse regole poi valgono anche per quanto concerne il vizio contemplato dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Ed invero, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone che la parte, nel rispetto del principio di autosufficienza, riporti, nel ricorso stesso, gli elementi ed i riferimenti atti ad individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio processuale, onde consentire alla Corte di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo del corretto svolgersi dell’iter processuale (Cass. 5 civ. n. 19410 del 30/09/2015, conforme Cass. n. 23420 del 2011. Cfr. in senso analogo Cass. lav. n. 11738 – 08/06/2016, secondo cui l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo, sicchè è necessario, ai fini del rispetto del principio di specificità e di autosufficienza del ricorso per cassazione, che nel ricorso stesso siano riportati, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, i passi del documento cui la censura si riferisce. Conforme Cass. lav. n. 23420 del 10/11/2011 riguardo all’ipotesi di denunciata falsa applicazione del principio “tantum devolutum quantum appellatum”.

Parimenti ha opinato Cass. civ. sez. 6 – 5 con l’ordinanza n. 5036 del 28/03/2012, laddove è stato ritenuto necessario che nel ricorso siano riportati, nei loro esatti termini, il testo della querela di falso ed il verbale di udienza relativo al suo deposito).

Nella specie, per contro, il ricorso dell’ISPA appare lacunoso nei sensi di cui sopra, con riferimento ad entrambi i motivi, di guisa che questa Corte si trova nell’impossibilità di poter verificare in concreto quanto asserito da parte ricorrente in merito alle anzidette censure, la fondatezza delle quali, peraltro, neanche prima facie è desumibile dalla lettura dell’impugnata sentenza (v. per altro verso anche Cass. civ. sez. 6 – 5, ordinanza n. 91 del 07/01/2014, secondo cui il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in un nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. Ne consegue che la Corte di cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, nè porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito. Conformi nn. 15489 del 2007 e 5024 del 2012.

Per completezza va anche osservato, con riferimento alle censure complessivamente formulate da parte ricorrente, che la denuncia di un errore di fatto, consistente nell’inesatta percezione da parte del giudice di circostanze presupposte come sicura base del suo ragionamento, in contrasto con quanto emergente dagli atti processuali, non costituisce motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 cit., ma di revocazione a norma dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, (cfr. Cass. lav. n. 2529 del 09/02/2016).

Pertanto, il ricorso va respinto, ma senza la condanna del soccombente al rimborso delle relative spese, atteso che la P. è rimasta intimata.

Sussistono, tuttavia, i presupposti di legge per il pagamento dell’ulteriore contributo unificato.

PQM

la Corte rigetta il ricorso. nulla per le spese. Ai sensi D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 17 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 19 aprile 2017

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA