Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9863 del 26/05/2020

Cassazione civile sez. III, 26/05/2020, (ud. 08/01/2020, dep. 26/05/2020), n.9863

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16298-2017 proposto da:

P.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA M.

PRESTINARI 15, presso lo studio dell’avvocato VALTER CALVIERI, che

lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

F.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA SALLUSTIO 9,

presso lo studio dell’avvocato GIANFRANCO PALERMO, che lo

rappresenta e difende; CONSORZIO COOPERATIVE EDILIZIE FERRATELLA 1

SRL in liquidazione, in persona del liquidatore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA UMBERTO SABA 84, presso lo studio

dell’avvocato FRANCO CAMPIONE, che lo rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1865/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 22/03/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

08/01/2020 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

P.P. ricorre per la cassazione della sentenza n. 1865/2017 (erroneamente indicata con il numero di repertorio n. 2225/17) della Corte d’Appello di Roma, depositata il 22 marzo 2017 e notificata tramite PEC il 20 aprile 2017, formulando due motivi.

Resistono con autonomi controricorsi, entrambi illustrati con memoria, F.A. e il Consorzio Cooperative edilizie Ferratella S.r.l. in liquidazione.

La premessa in fatto riferita dal ricorrente è la seguente: nel giudizio, promosso nei suoi confronti, nell’ottobre 2003, dal Consorzio Cooperative edilizie Ferratella 1 a r.l. in liquidazione, dinanzi al Tribunale di Roma, affinchè rilasciasse l’immobile sito in (OMISSIS), e fosse condannato al pagamento dell’indennità di occupazione, egli aveva eccepito l’avvenuta usucapione del bene maturata nel (OMISSIS), sostenendo di avere occupato l’immobile ininterrottamente dal (OMISSIS), cioè da quando esso gli era stato consegnato, a fronte del pagamento di trenta milioni di Lire, da F.E., figlio dell’assegnataria M.M.L..

Ad adiuvandum nel giudizio era intervenuto F.A., erede di F.E., sostenendo di avere acquistato la proprietà dello stesso immobile dal Consorzio Cooperative edilizie Ferratella S.r.l., per atto pubblico stipulato l’8 novembre 2004.

Il Tribunale capitolino accoglieva l’eccezione di usucapione e condannava l’odierno ricorrente al pagamento dell’indennità di occupazione per i cinque anni precedenti la data dell’atto di citazione in giudizio.

F.A. ed il Consorzio Cooperative edilizie Ferratella S.r.l proponevano appello, chiedendo che fosse accertato il difetto in capo all’odierno ricorrente di un possesso utile ai fini dell’usucapione e invocando la condanna dello stesso al rilascio dell’immobile occupato sine titolo ed al pagamento della relativa indennità.

Il giudice del gravame accoglieva le domande degli appellanti e condannava P.P. a rilasciare l’immobile, a pagare, a favore del Consorzio Cooperative edilizie Ferratella, Euro 435,00 mensili a titolo di indennità di occupazione dall’ottobre 1998 fino alla data della decisione, oltre agli interessi legali dalle singole scadenze al saldo, e regolava le spese di lite.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Va preliminarmente rilevato che non sono stati formulati specifici motivi di censura ricondotti ad una delle categorie logiche di cui all’art. 360 c.p.c.; ciononostante, risulta evidente che il ricorrente imputi alla sentenza gravata di essere incorsa in due errori di diritto qualificando la sua relazione con il bene per cui è causa in termini di detenzione, piuttosto che di possesso: il primo è rappresentato dall’aver presunto che egli avesse pagato le rate di mutuo frazionato intestato al Consorzio quale assegnatario e non quale proprietario; il secondo consiste nell’aver giudicato non provato che F.E. avesse consegnato l’immobile, una volta riscossi i trenta milioni di lire, al fine di trasferirne la proprietà.

Sul primo asserito errore, in particolare, il ricorrente deduce che la Corte territoriale avrebbe deciso in contrasto con l’art. 1141 c.c., a mente del quale si presume il possesso in colui che esercita il potere di fatto quando non si prova che abbia cominciato ad esercitarlo come detenzione, posto che nessuno aveva dimostrato che egli avesse iniziato a esercitare il potere sulla cosa come detentore e che, non essendovi un rapporto di mandato tra F.E. e la madre, precedente assegnataria, asseritamente già deceduta al tempo del pagamento dei trenta milioni, si era interrotto il rapporto di detenzione.

In ordine al secondo errore, il ricorrente osserva che lo scambio di denaro con l’immobile avrebbe dovuto far presumere il consenso, fonte del contratto di vendita di immobile e del contestuale passaggio del possesso, ai sensi dell’art. 1470 c.c., anche in ragione del fatto che il prezzo pagato era risultato pari al mutuo frazionato e che il cedente aveva, a sua volta, il possesso e non la detenzione – riscontrabile quest’ultima solo in capo alla madre assegnataria – perciò non poteva trasferire la detenzione, ma solo il possesso.

Questo Collegio osserva, innanzitutto, che entrambi i motivi sono inammissibili per manifesta violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, giusta il fatto che si fondano su circostanze di fatto che dovrebbero evidenziare la fattispecie concreta riguardo alla quale si pongono le quaestiones iuris, ma in relazione alle medesime non vene fornita l’indicazione specifica prescritta da tale norma, nè sotto il profilo della riproduzione del loro contenuto in via diretta o almeno indiretta, nè sotto il profilo della loro localizzazione in questo giudizio di legittimità e, prima ancora, nel giudizio di merito (così Cass., Sez. Un., 27/12/2019 n. 34469 e già Sez. Un., 02/12/2008, n. 28547).

Ove fosse possibile scrutinarle, peraltro, le censure in iure formulate si rivelerebbero infondate.

Tale conclusione richiede che siano anteposte alcune precisazioni indispensabili per collocare giuridicamente la fattispecie per cui è causa, le quali non possono che assumere come punto di partenza la specificità della qualità di assegnatario di un alloggio di edilizia residenziale pubblica e del suo “diritto” alla cessione dell’alloggio in proprietà.

La giurisprudenza di questa Corte non ha mai dubitato che l’assegnatario sia tale in virtù di un contratto di assegnazione stipulato ad personam, cioè riferibile solo al soggetto beneficiario, nei cui confronti sia ravvisabile un perdurante stato di bisogno dell’alloggio (Cass. 10/12/2001, n. 15576).

E, dopo alcuni tentennamenti, è giunta alla conclusione che, nelle more del procedimento di cessione in proprietà, il beneficiario dell’assegnazione, risultando ancora e solo prenotatario, non ne possa disporre; consolidando in tal modo un orientamento di matrice pubblicistica che vieta che un terzo possa subentrare convenzionalmente all’assegnatario al fine dell’accesso al riscatto, ove occupi l’immobile disponibile ai fini della cessione. Ad abundantiam, è opportuno dare atto che gli assegnatari occupanti legittimamente l’alloggio cedibile non sono ritenuti titolari di un diritto soggettivo alla cessione, ma solo di un interesse legittimo alla corretta applicazione della normativa regolatrice dell’attività provvedimentale degli enti pubblici in materia.

Il corollario da trarne è che l’assegnatario in quanto tale è titolare di una situazione di diritto piuttosto peculiare in ragione della connotazione pubblicistica del rapporto intercorrente con l’ente aggiudicante. Insomma, non è un possessore, almeno non fino a quando la situazione di godimento del bene sia regolata dall’assegnazione.

Va altresì ricordato che in sede di legittimità è stata ritenuta la nullità dei contratti di alienazione posti in essere dagli assegnatari di alloggi di edilizia residenziale pubblica prima del compimento di una valida procedura di assegnazione, per violazione della L. 8 agosto 1977, n. 513, art. 28 e valido, invece, esclusivamente il contratto con cui l’assegnatario non trasferisca il bene, ma si obblighi ad alienarlo dopo aver completato la pratica amministrativa necessaria per l’acquisto della proprietà: non essendovi ragioni per ravvisare, in tale ultimo caso, l’aggiramento della ratio a fondamento del divieto di alienazione diretto ad impedire che il pubblico denaro sia distratto dalle finalità sociali e utilizzato a fini speculativi.

La vicenda per cui è causa pone si sviluppa attorno all’interrogativo circa se sia interessabile da vicende circolatorie contrattuali l'”utilità” derivante al beneficiario dall’assegnazione del bene e con quali effetti, cioè se egli possa attribuirla ad un terzo per contractum.

Infatti, risulta pacifico – e ciò assume un significato dirimente nella vicenda per cui è causa – che il ricorrente non assume di avere acquistato il possesso del bene a titolo originario – intendendo che le caratteristiche della sua posizione giuridica si siano determinate in base al proprio fatto ed al proprio animus piuttosto che in base a quello/i del suo autore – mediante un atto unilaterale di apprensione o esercitando un possesso uti dominus di contenuto diverso, più ampio, rispetto a quello del suo dante causa. Ciò che qui si discute è l’acquisto per così dire “a titolo derivativo” del possesso avvenuto non solo con l’assenso, ma con la partecipazione dell’asserito precedente possessore.

Tanto spiega perchè assumano rilievo la posizione del figlio dell’assegnataria e il ruolo della consegna, essendo decisivo accertare se la datio rei sia stata sufficiente, cioè se possedesse ex se una forza atta a generare il vinculum iuris, se fosse dotata di efficienza causale in ordine al passaggio di utilità economiche dall’una altra sfera giuridica, se anzichè determinare la nascita del possesso si fosse limitata a renderne possibile l’esercizio.

Le tesi prospettate dal ricorrente non riescono a superare un ostacolo che assume carattere dirimente, rappresentato dal fatto che l’asserito trasferimento era stato posto in essere dal figlio dell’assegnataria, il quale non era stato dimostrato che fosse divenuto titolare di una situazione qualificabile come di possesso ed in verità neppure che avesse mai avuto una qualche relazione materiale con il bene, essendo emerso in causa che egli era assegnatario, a sua volta, di un altro alloggio.

Tali circostanze già sono suscettibili di assumere carattere assorbente, tanto da rendere inutile accertare se egli avesse oppure no mutato il proprio animus, cioè se vi fosse stata una interversio possessionis. Per di più, la interversio possessionis non avrebbe potuto desumersi, come sembra ritenere il ricorrente, dal mero fatto che non fosse stato provato che egli avesse ricevuto un mandato da parte della madre, assegnataria effettiva, a trasferire il godimento del bene, occorrendo a tal fine non un mero e semplice atto di volizione interna, ma una manifestazione esteriore, dalla quale fosse consentito desumere che il detentore avesse cessato d’esercitare il potere di fatto sulla cosa nomine alieno ed avesse iniziato ad esercitarlo esclusivamente nomine proprio; inoltre detta manifestazione avrebbe dovuto essere tale da palesare inequivocabilmente l’intenzione di sostituire al precedente animus detinendi il nuovo animus rem sibi habendi ed essere specificamente rivolta contro il possessore – e tale comunque non era la madre assegnataria, per le ragioni in precedenza chiarite, ma il concedente l’alloggio – in guisa che questi fosse posto in condizione di rendersi conto dell’avvenuto mutamento, e avrebbe quindi dovuto tradursi in atti ai quali potesse riconoscersi il carattere della concreta opposizione all’esercizio del possesso da parte del possessore stesso. Tra tali atti, ove non accompagnati da altra manifestazione dotata degli indicati connotati dell’opposizione, non possono ricomprendersi quelli che si traducano in meri atti d’esercizio del possesso, verificandosi in tal caso una mera ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla eventuale materiale disponibilità del bene (così, in motivazione, Cass. 12/05/1999, n. 4701), ottenuta in virtù del rapporto di familiarità con l’assegnataria.

Questa Corte ha precisato che “l’interversione del possesso, pur potendo realizzarsi mediante il compimento di attività materiali in grado di manifestare inequivocabilmente l’intenzione di esercitare il possesso esclusivamente “nomine proprio”, richiede sempre, ove il mutamento del titolo in base al quale il soggetto detiene non derivi da causa proveniente da un terzo, che l’opposizione risulti inconfondibilmente rivolta contro il possessore e cioè contro colui per conto del quale la cosa era detenuta, in guisa da rendere esteriormente riconoscibile all’avente diritto che il detentore ha cessato di possedere nomine alieno e che intende sostituire al preesistente proposito di subordinare il proprio potere a quello altrui, l’animus di vantare per sè il diritto esercitato, convertendo così in possesso la detenzione, anche soltanto precaria, precedentemente esercitata” (cfr. Cass. 11/04/2013, n. 8900).

In definitiva, stante che la madre di F.E. non era rispetto al bene in una situazione di possesso, che, ammesso che F.E. avesse una relazione materiale con l’alloggio per i rapporti di familiarità intercorrenti con l’assegnataria, o per conto della madre o con la tolleranza della madre, non avendo mai mutato il proprio animus rispetto al possessore sarebbe stato in grado tutt’al più di trasferire, a titolo oneroso, le utilità connesse all’assegnazione, ma non una situazione di possesso utile ai fini dell’usucapione, come preteso da P.P..

In definitiva il ricorso è inammissibile.

Le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore dei controricorrenti, liquidandole in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge a favore di F.A. e in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge a favore del Consorzio Cooperative edilizie Ferratella S.r.l. in liquidazione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della Terza Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 8 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2020

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