Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9861 del 19/04/2017


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Cassazione civile, sez. un., 19/04/2017, (ud. 22/11/2016, dep.19/04/2017),  n. 9861

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. PICCININNI Carlo – Presidente di Sez. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sez. –

Dott. DI IASI Camilla – rel. Presidente di Sez. –

Dott. BERNABAI Renato – Consigliere –

Dott. BIELLI Stefano – Consigliere –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15850/2016 proposto da:

B.G., P.P., BO.EL., rappresentati

e difesi da sè medesimi ed elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

BENACO 5, presso lo studio dell’avvocato M. CHIARA MORABITO;

– ricorrenti –

contro

CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI MACERATA, PUBBLICO MINISTERO

PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 55/2016 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE,

depositata l’8/04/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/11/2016 dal Presidente Dott. CAMILLA DI IASI;

udito l’Avvocato P.P.;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IACOVIELLO

Francesco Mauro, che ha concluso per la cassazione senza rinvio.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Gli avvocati B.G., P.P. ed Bo.El. hanno impugnato dinanzi al Consiglio Nazionale Forense la decisione del COA di (OMISSIS) che aveva irrogato loro la sanzione dell’avvertimento per avere riportato nel sito internet del proprio studio – col loro consenso – l’elenco dei principali clienti assistiti in via continuativa e dei principali clienti assistiti per progetti specifici in violazione degli artt. 6 e 17 del codice. Il C.N.F. ha respinto il ricorso, tra l’altro evidenziando che le norme deontologiche relative alla pubblicità devono leggersi considerando la peculiarità della professione forense in virtù della sua funzione sociale la quale impone, conformemente alla normativa comunitaria, le limitazioni connesse alla dignità e al decoro della professione.

Per la cassazione di questa sentenza gli avvocati B., P. e Bo. ricorrono con quattro motivi. Il Coa di Macerata non si è costituito.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Col primo motivo si denuncia violazione del combinato disposto dell’art. 17 codice deontologico forense e D.L. n. 223 del 2006, art. 2, norma, quest’ultima, che ha abrogato tutte le disposizioni prevedenti divieti di pubblicità informativa, tra i quali è da ritenersi compreso quello di rendere noti i nomi dei clienti; col secondo motivo si denuncia violazione del combinato disposto del R.D. n. 1578 del 1933, art. 38 e art. 17 codice deontologico forense anteriore alla novella del 2014, non costituendo la pubblicazione dei nomi dei clienti attività contraria al decoro della professione; con il terzo motivo si denuncia violazione del combinato disposto dell’art. 6 codice deontologico e D.L. n. 233 del 2006, art. 2, non costituendo la pubblicazione dei nomi dei clienti attività contraria ai principi di legalità e correttezza; con il quarto motivo si censura la decisione del C.N.F. per eccesso di potere, attesa la carenza di potestà disciplinare in relazione alle modalità della pubblicità informativa degli avvocati salvo che essa non integri gli estremi della condotta lesiva del decoro professionale.

Le censure esposte, da esaminare congiuntamente perchè logicamente connesse, non sono fondate.

Il D.L. n. 223 del 2006 (cd. decreto Bersani) ha previsto, dalla data della propria entrata in vigore, l’abrogazione delle disposizioni legislative e regolamentari che prevedono il divieto, anche parziale, di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto nonchè il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni. Il C.N.F. ha ritenuto che il decreto Bersani non abbia abrogato la previsione del codice deontologico (allora vigente) secondo la quale l’avvocato non può rivelare al pubblico il nome dei propri clienti, ancorchè questi vi consentano, previsione peraltro rimasta immutata anche nel codice deontologico successivo al citato decreto Bersani.

Tanto premesso occorre innanzitutto considerare che l’esclusione del divieto di rendere pubblici i nominativi dei propri clienti non è espressamente prevista dal decreto citato e pertanto essa può ritenersi rientrare nella richiamata previsione normativa solo in base ad un’ampia interpretazione del concetto di pubblicità informativa circa “le caratteristiche del servizio offerto”.

Di tale interpretazione deve tuttavia essere verificata la compatibilità con le peculiari caratteristiche dell’attività libero-professionale considerata, essendo in proposito da evidenziare che l’attività forense risulta disciplinata da una complessa normativa, anche processuale, ed è indubbiamente nell’ambito più generale di tale normativa complessivamente considerata che vanno inserite ed interpretate le disposizioni in materia di pubblicità informativa con riguardo alla professione forense.

Certo l’attività dell’avvocato, in quanto attività libero-professionale, non è sottratta al principio della ammissibilità della pubblicità informativa “circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto nonchè il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni”, tuttavia l’ambito in concreto di tale principio va considerato e declinato alla luce delle peculiarità della suddetta attività, non essendo l’avvocato solo un libero professionista ma anche il necessario “partecipe” dell’esercizio diffuso della funzione giurisdizionale, se è vero che nessun processo (salvo i processi civili di limitatissimo valore economico) può essere celebrato senza l’intervento di un avvocato.

La forte valenza pubblicistica dell’attività forense spiega perchè il rapporto tra il professionista ed il cliente (attuale o potenziale) rimanga in buona parte scarsamente influenzabile dalla volontà e dalle considerazioni personali (o dalle valutazioni economiche) degli stessi protagonisti e come possa pertanto non risultare dirimente -nel senso di escludere il relativo divieto- il consenso prestato dai clienti del medesimo avvocato alla diffusione dei propri nominativi a fini pubblicitari.

Il rapporto tra cliente e avvocato non è infatti soltanto un rapporto privato di carattere libero-professionale e non può perciò essere ricondotto puramente e semplicemente ad una logica di mercato, basti pensare che il legislatore processuale non ritiene “determinanti” le manifestazioni di volontà espresse dalle stesse parti neppure per quanto riguarda l’inizio o la cessazione del rapporto medesimo: nel processo penale è “imposto” all’imputato che non ne sia provvisto un avvocato d’ufficio, il quale, dal canto suo, salvo che non abbia valide ragioni per rifiutare, ha l’obbligo di accettare l’incarico; nel processo civile nè la revoca nè la rinuncia privano di per sè il difensore della capacità di compiere o ricevere atti, atteso che i poteri attribuiti al procuratore “alle liti” non sono quelli che liberamente determina chi conferisce la procura, ma sono attribuiti dalla legge al professionista che la parte si limita a designare, a differenza di quanto accade in relazione alla procura al compimento di atti di diritto sostanziale, per la quale è previsto che chi ha conferito i relativi poteri può revocarli e chi li ha ricevuti, dismetterli- con efficacia immediata (v. tra le altre Cass. nn. 17649 del 2010 e 11504 del 2016).

E’ proprio la stretta connessione tra l’attività libero-professionale dell’avvocato e l’esercizio della giurisdizione che impone dunque maggiore cautela in materia, non potendo tra l’altro ignorarsi che la pubblicità circa i nominativi dei clienti degli avvocati (in uno con la pubblicità informativa circa le specializzazioni professionali e le caratteristiche del servizio offerto dal legale) potrebbe finire di fatto per riguardare non solo i nominativi dei clienti del medesimo ma anche l’attività processuale svolta in loro difesa, quindi, indirettamente, uno o più processi, che potrebbero essere ancora in corso e, tra l’altro, in alcuni casi persino subire indirette interferenze da tale forma di pubblicità (si pensi, per esempio, a processi per partecipazione ad associazioni di tipo mafioso, in cui il cliente potrebbe autorizzare la diffusione del proprio nominativo non tanto per fare pubblicità al proprio legale quanto per lanciare messaggi ad eventuali complici circa la linea difensiva da seguire o il difensore da scegliere).

Nè le considerazioni che precedono contrastano con la prevista “pubblicità” del processo e della sentenza, posto che quando si parla di “pubblicità” del dibattimento o della sentenza si intende che nè il processo nè la sentenza sono segreti ed è prevista quindi la possibilità di venirne a conoscenza (sia pure, talora, con particolari modalità e/o entro precisi limiti), mentre tutt’affatto diverso è ovviamente il significato del termine “pubblicità” quando viene usato per identificare la propaganda diretta ad ottenere dalla collettività la preferenza nei confronti di un prodotto o di un servizio.

Il ricorso deve essere pertanto rigettato. Nessuna statuizione va adottata in punto di spese del giudizio di legittimità non essendovi attività difensiva da parte del COA.

Sussistono i presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 15 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte a sezioni unite rigetta il ricorso.

Sussistono i presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 15 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, il 22 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 19 aprile 2017

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