Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 986 del 17/01/2017

Cassazione civile, sez. lav., 17/01/2017, (ud. 18/10/2016, dep.17/01/2017),  n. 986

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppe – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9924-2014 proposto da:

T.D. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIALE CARSO 23, presso lo studio dell’avvocato MARIA ROSARIA

DAMIZIA, rappresentato e difeso dagli avvocati LUANA GARZIA, ELPIDIO

OMBRES, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

OFFICINA AUTOELETTRICA GROSSETANA S.N.C. C.F. (OMISSIS);

– intimata –

Nonchè da:

OFFICINA AUTOELETTRICA GROSSETANA S.N.C. C.F. (OMISSIS), in persona

del legale rappresentante CHELLI LUCIANO, elettivamente domiciliata

in ROMA, VIA APPENNINI 46, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO

GIAMPAOLO, rappresentata e difesa dall’avvocato SERGIO FREDIANI,

giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

T.D. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIALE CARSO 23, presso lo studio dell’avvocato MARIA ROSARIA

DAMIZIA, rappresentato e difeso dagli avvocati LUANA GARZIA, ELPIDIO

OMBRES, giusta delega in atti;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 1132/2013 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 08/10/2013 R.G.N. 477/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/10/2016 dal Consigliere Dott. ESPOSITO LUCIA;

udito l’Avvocato DAMIZIA MARIA ROSARIA;

udito l’Avvocato FREDIANI SERGIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA MARIO che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e

inammissibilità ricorso incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.La Corte d’appello di Firenze riformò parzialmente la decisione del giudice di primo grado che aveva dichiarato la legittimità del licenziamento intimato a T.D. da Officina Autoelettrica Grossetana s.n.c. il 27 ottobre 2008, nonchè delle sanzioni disciplinari in precedenza irrogate allo stesso, attinenti a ritardo dell’inizio della prestazione lavorativa, rigettando la domanda proposta dal lavoratore per il risarcimento da mobbing.

2. La Corte dichiarò l’illegittimità delle sanzioni sul rilievo che l’appellante rivestiva la qualifica di quadro e per tale ragione non era tenuto alla stretta osservanza dell’orario di lavoro. Quanto al licenziamento, ne confermò la legittimità. Osservò che il T. era stato licenziato una prima volta, ma, avendo la parte datoriale omesso la previa contestazione, in sede di conciliazione sindacale il licenziamento fu revocato, con accettazione del lavoratore, e, successivamente, fu rinnovato con adozione delle modalità prescritte. Osservò che il secondo licenziamento doveva ritenersi tempestivo in ragione dell’intervallo di soli due mesi tra il fatto e la contestazione. Rilevò, altresì, che nelle fasi dell’impugnativa stragiudiziale e della convocazione per la conciliazione non era riscontrabile alcun atteggiamento concludente del datore indicativo di una volontà abdicativa, essendo stata formulata in sede di conciliazione espressa riserva in ordine alla consistenza e gravità del fatto per il quale era stato intimato il licenziamento.

3. Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione il T. con quattro motivi, illustrato con memoria. La società resiste in giudizio, proponendo anche ricorso incidentale con un motivo, a sua volta resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo il ricorrente deduce: Violazione e falsa applicazione artt. 1361, 1363 e 1366 c.c. nell’interpretazione del verbale di conciliazione (art. 360 c.p.c., n. 3). Osserva che secondo il giudice d’appello “la lettura plana del verbale di accordo consente di ritenere con certezza che il datore di lavoro abbia revocato il provvedimento per meri vizi formali, enunciando di ritenere ancora sussistenti le ragioni di merito che lo avevano determinato al recesso, avuto riguardo alla loro materialità ed alla valutazione di gravità”. Da ciò lo stesso ha tratto l’insussistenza di fatti concludenti incompatibili con la volontà di contestare la giusta causa di licenziamento, stante la riserva espressa in sede conciliativa sulla consistenza e gravità del fatto. Ha concluso, pertanto, affermando che l’intervenuta conciliazione non costituirebbe ragione preclusiva dell’intimazione di un nuovo licenziamento – fondato sulle medesime ragioni sostanziali, ma emendato dei vizi procedurali – non essendo ravvisabile alcun atteggiamento concludente del datore indicativo di una volontà abdicativa. Rileva il ricorrente che dalla lettura del verbale di conciliazione si evince l’errata applicazione dei canoni posti dagli artt. 1362 e 1363 c.c., non avendo la Corte d’appello tenuto in considerazione il significato letterale delle espressioni utilizzate dalle parti e la comune intenzione dei contraenti alla luce del tenore complessivo delle dichiarazioni. Osserva che la conciliazione – con connotati di transazione – implica sempre un dissenso attuale o potenziale tra le parti nelle rispettive tesi, dissenso che ben può permanere anche dopo la conciliazione. Tale convinzione soggettiva non può consentire alla parte di rimettere in discussione il rapporto controverso che si è inteso definire. Inoltre l’interpretazione del contestuale invito rivolto al datore di lavoro al ricorrente per la normale ripresa dell’attività lavorativa, unitamente all’espressione “definitiva”, riferita alla conciliazione e risultante dal testo, indirizzano in diverso senso l’interpretazione letterale, anche tenuto conto della peculiarità di detta interpretazione nell’ambito della conciliazione. Inoltre la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto del principio di cui all’art. 1366 c.c. (buona fede nell’interpretazione del negozio) e dell’affidamento del contraente.

2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione del principio di buona fede ex art. 1175 in relazione alla rinnovazione del licenziamento (art. 360 c.p.c., n. 3). Osserva che la Corte d’appello aveva fatto meccanica applicazione del principio secondo il quale può essere consentito il rinnovo per recessi nulli o inefficaci per vizio di forma, senza dare adeguato rilievo alla slealtà del comportamento tenuto dall’impresa. Rileva che la dichiarazione di invito a rientrare in azienda era stata formulata al solo fine di ottenere l’accettazione della revoca e la conciliazione della lite, evitando il pagamento dell’indennizzo e del risarcimento del danno, con palese mancanza di correttezza e buona fede della parte datoriale.

2.2. I motivi sono da trattare congiuntamente in ragione della loro intima connessione. Gli stessi sono infondati. Ed invero, per un verso, le censure investono il risultato interpretativo dell’atto di conciliazione intervenuto tra le parti, in tal modo ponendo in essere un’operazione non consentita in sede di legittimità (si veda in proposito Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2465 del 10/02/2015, Rv. 634161: “In tema di interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati”). Per altro verso va rilevato che la rinnovazione del licenziamento è consentita secondo la giurisprudenza di questa Corte, senza che ciò sia ritenuto in contrasto con il principio di buona fede (si veda Cass. 6773 del 19/3/2013, rv. 625643 “è consentita la rinnovazione del licenziamento disciplinare nullo per vizio di forma in base agli stessi motivi sostanziali determinativi del precedente recesso, anche se la questione della validità del primo licenziamento sia ancora “sub iudice”, purchè siano adottate le modalità prescritte, omesse nella precedente intimazione. Tale rinnovazione, risolvendosi nel compimento di un negozio diverso dal precedente, esula dallo schema dell’art. 1423 c.c., norma diretta ad impedire la sanatoria di un negozio nullo con effetti “ex tunc” e non a comprimere la libertà delle parti di reiterare la manifestazione della propria autonomia negoziale”.

3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione L. n. 300 del 1970, art. 7, SMI e art. 1375 e 1175 c.c., in relazione alla tardività della contestazione disciplinare (vizio ex art. 360 c.p.c., n. 3). Osserva che la contestazione del fatto deve essere compiuta dal datore di lavoro come regola generale a ridosso immediato dell’infrazione; tale principio può essere temperato solo in casi eccezionali, essendo onere del datore di lavoro dimostrare le specifiche ragioni che lo hanno indotto a ritenere legittima una contestazione non immediata. Nel caso in esame il giudice del merito non aveva dato atto della sussistenza di situazioni eccezionali tali da giustificare la non immediatezza della contestazione, in realtà dovuta a una palese illegittimità del primo procedimento disciplinare avviato dal datore di lavoro.

3.2. Il motivo non sembra fondato alla luce delle argomentazioni contenute in sentenza con riferimento allo spazio temporale di poco più di due mesi, quindi sostanzialmente contenuto, intercorrente tra la contestazione e l’esercizio del potere disciplinare, nonostante le vicende che hanno preceduto la rinnovazione del recesso.

4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione art. 2087 c.c., in relazione all’accertamento del danno da mobbing (art. 360 c.p.c., n. 3).

4.2. Il motivo è inammissibile poichè la sentenza non fa menzione del mobbing e il ricorrente non ha allegato, corredando l’allegazione con adeguata produzione di documentazione o fornendo indicazioni per il reperimento della stessa nel fascicolo, di aver proposto motivo d’appello sul punto. Va richiamato in proposito il principio, dal quale questa Corte non ha motivo di discostarsi, in forza del quale “qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione” (Sez. 1, Sentenza n. 23675 del 18/10/2013, Rv. 627975).

5. Con il ricorso incidentale la società deduce violazione e/o falsa applicazione della L. n. 66 del 2003. Rileva che il rispetto dell’orario di lavoro, oltre che conforme al dettato di cui all’art. 2104 c.c., deve ritenersi ancor più rilevante laddove sia giustificato da chiare esigenze tecnico produttive, con la conseguenza che erroneamente la Corte d’appello aveva ritenuto illegittime le sanzioni disciplinari diverse dal licenziamento.

5.2. Anche il ricorso incidentale è infondato. La questione, infatti, è stata risolta dalla Corte d’appello in conformità ai principi generali in forza dei quali il lavoratore della qualifica di quadro è escluso dalla disciplina legale delle limitazioni dell’orario di lavoro (cfr. Cass. n. 3038/2011, Rv. 616044), tenendo anche del mancato assolvimento da parte del datore di lavoro dell’onere della prova circa l’esistenza di una situazione regolamentata a livello aziendale che ne imponesse la stretta osservanza.

6. In base alle svolte argomentazioni vanno rigettati entrambi i ricorsi. La reciproca soccombenza giustifica la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale. Dichiara compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e per quello incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 18 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2017

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