Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9859 del 26/05/2020

Cassazione civile sez. III, 26/05/2020, (ud. 26/11/2019, dep. 26/05/2020), n.9859

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22046-2018 proposto da:

P.G., domiciliato ex lege in ROMA, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato GIOVANNI PUTIGNANO;

– ricorrente –

contro

S.S., domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato

ANDREA DI LASCIO, PAOLA FARFARIELLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1243/2018 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 29/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

26/11/2019 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1.L’avv. P.G. propone ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi, nei confronti di S.S., per la cassazione della sentenza n. 1243/2018, pubblicata dalla Corte d’Appello di Torino il 29.6.2018, non notificata, con la quale, in riforma della sentenza di primo grado, il ricorrente veniva condannato al risarcimento dei danni nei confronti della S. per calunnia, nella misura di 20.000,00 Euro per danno non patrimoniale e 3.000 Euro per danno patrimoniale.

Resiste la S. con controricorso.

2. Questi i fatti nella ricostruzione del ricorrente, per quanto ancora di rilievo in questa sede:

il ricorrente svolgeva attività libero professionale in nome e per conto di un ente di patronato EPAS, su incarico della responsabile S.S.; concordava con gli assistiti che, solo in caso di esito positivo delle vertenze, avrebbe chiesto il pagamento delle parcelle secondo il tariffario vigente, con il consenso della S.; non stipulava alcuna convenzione regolata dalla L. n. 152 del 2001 con il patronato; vinte alcune cause, cominciava a riscuotere le parcelle dai clienti ma la S. pretendeva che i corrispettivi venissero versati direttamente al patronato, e non al professionista, diffidandolo dall’incassare direttamente. Di qui, i rapporti si deterioravano. L’avvocato presentava denuncia penale nei confronti della S., per il reato di falso in scrittura privata (la convenzione con il patronato, che negava di aver mai sottoscritto, e le revoche dei mandati dei clienti) ed estorsione a carico degli assistiti, denuncia che veniva archiviata dal g.i.p. Quindi veniva aperto a carico dell’avvocato P. un procedimento penale per calunnia, che portava ad una condanna in sede penale con una provvisionale in favore della S. per Euro 10.000. Il procedimento penale si concludeva per intervenuta prescrizione, e la S. nel 2014 iniziava l’azione civile di risarcimento danni in cui assumeva che l’avv. P. avesse operato in contrasto con gli obblighi derivanti dalla convenzione sottoscritta con il patronato, in cui si era obbligato a non pretendere compensi direttamente dagli assistiti. L’avvocato disconosceva la sottoscrizione sulla convenzione.

3. La domanda di risarcimento danni per calunnia proposta dalla S. nei confronti dell’avv. P. veniva rigettata in primo grado, ma accolta in appello, ove la causa si concludeva, come detto, con la condanna del P. al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali riportati dalla S. a seguito della calunnia.

Nel 2017, nel corso del giudizio di appello, la S. produceva l’originale cartaceo del documento finora introdotto nel processo in copia; l’appellato si opponeva alla produzione in quanto tardiva ma non rinnovava il disconoscimento.

4. La Corte d’Appello di Torino, nella sentenza qui impugnata, ritiene provato che il P. avesse sottoscritto la controversa convenzione con il patronato, ed afferma che il P. avesse disconosciuto nella comparsa di risposta la firma in calce alla convenzione, che nella successiva memoria la S. ne avesse chiesto la verificazione ove l’avvocato avesse insistito a disconoscere la firma apposta. Precisa che comunque non è previsto alcun termine di decadenza per la proposizione dell’istanza di verificazione e che il P., una volta introdotto in giudizio l’originale del documento, non aveva rinnovato il disconoscimento. Così ricostruiti i fatti, la corte d’appello circoscrive l’oggetto della impugnazione al se la condotta del P. nel presentare l’esposto-querela a carico della S. fosse contraddistinta o meno dall’elemento soggettivo proprio del reato di calunnia, costituito dalla volontà di incolpare chi si sa di essere innocente. Dando una valutazione delle numerose testimonianze opposta rispetto a quella del giudice di primo grado, ritiene che egli fosse consapevole della innocenza della S. rispetto alle condotte di rilevanza penale indicate nella denuncia-querela. La sentenza ricostruisce che nella denuncia-querela il P. aveva sostenuto che la S. avesse estorto agli assistiti la sottoscrizione della revoca dei mandati da essi rilasciati in favore del professionista, minacciando che se si fossero rifiutati di firmare il patronato non li avrebbe più seguiti e, valutando le testimonianze raccolte, la corte territoriale ritiene raggiunta la prova del fatto che allorchè il P. aveva presentato la denuncia fosse consapevole che la S. non avesse in effetti chiesto somme agli assistiti nè falsificato le firme sulla revoca dei mandati.

Nel suo apprezzamento in fatto, quindi, la corte d’appello dà una interpretazione completamente difforme rispetto al primo grado alle testimonianze rese dagli assistiti, che nella ricostruzione del tribunale avevano affermato di disconoscere le firme sulle revoche dei mandati, mentre la corte le legge ricavandone che si potesse ritenere che avessero liberamente firmato per revoca del mandato e non che la stessa fosse stata estorta dalla S.; valorizza inoltre le dichiarazioni rese dal P. al Pubblico Ministero, in base alle quali egli affermò di aver accusato la S. non di aver falsificato materialmente le firme, ma di non aver adeguatamente informato gli assistiti. Conclusivamente, la corte d’appello ritiene raggiunta la prova del dolo nel rendere dichiarazioni mendaci idonee ad incolpare la S. in capo al P., perchè i fatti costitutivi dei reati di estorsione e di falso in scrittura privata non solo non risultano confermati nella sua ricostruzione, ma al contrario risultano smentiti sulla base delle risultanze istruttorie, ed afferma che la conoscenza in capo all’avvocato della innocenza della S. integri il dolo richiesto per il reato di calunnia.

5. La causa è stata avviata alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.

Le parti non hanno depositato memorie.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 216 c.p.c. in relazione all’utilizzo di documenti disconosciuti.

Sostiene di aver disconosciuto tempestivamente la convenzione, nella sua veridicità e sottoscrizione, fin dalla comparsa di risposta, e che sia incorsa in errore la corte d’appello nell’affermare che non fosse necessario, a pena di decadenza, chiedere la verificazione entro un tempo preciso, e nel non tenere in conto il suo disconoscimento, pur tempestivamente effettuato, perchè non ripetuto quando, ad anni di distanza, venne esibito in udienza l’originale del documento disconosciuto. Sostiene infatti di aver effettuato tempestivamente il disconoscimento, già in comparsa di risposta, senza sollevare un problema di conformità dell’originale alla fotocopia e quindi di non essere onerato di dover rinnovare il disconoscimento allorchè, del tutto tardivamente, veniva prodotto l’originale cartaceo.

2.Il motivo è infondato.

Nel meccanismo predisposto dall’art. 2719 c.c. e art. 215 c.p.c., a fronte della produzione di una copia fotostatica l’interessato è onerato del disconoscimento della sua conformità all’originale; mentre con riguardo a quest’ultimo, al fine di evitare che esso acquisti il valore di scrittura privata riconosciuta, l’interessato ha poi l’onere di disconoscere l’autenticità della scrittura o della sottoscrizione nella prima risposta, spettando così a chi intenda avvalersene l’onere di esperire il procedimento di verificazione; viceversa, se la sottoscrizione sia legalmente riconosciuta per mancato tempestivo disconoscimento, chi voglia contrastarne l’efficacia dovrà esperire querela di falso (Cass. n. 16551 del 2015).

Come questa Corte ha da tempo chiarito (Cass. 27 dicembre 2004, n. 24022; 11 aprile 2002, n. 5189), la parte che ha disconosciuto la sottoscrizione di scrittura privata prodotta in fotocopia deve reiterare il disconoscimento con riferimento all’originale della medesima scrittura, successivamente acquisito in giudizio, per impedire che la ridetta scrittura si abbia per riconosciuta in causa. Invero (in questo senso già Cass. 19 ottobre 1999, n. 11739), l’attribuzione del contenuto della scrittura ad un determinato soggetto in virtù della sua sottoscrizione, così da fondare una presunzione legale superabile dall’apparente sottoscrittore con l’esito favorevole della querela di falso, postula che il documento sia stato prodotto in originale, nel quale solo si realizzano la diretta correlazione e rimanenza della personalità dell’autore della sottoscrizione, che giustificano la fede privilegiata che la legge assegna al documento medesimo, salva la querela di falso. Il che risponde anche alla ragione pratica dell’inattendibilità di un esame grafico condotto su una copia fotostatica, essendo questa inidonea a rendere percepibili segni grafici personalizzati (es. la pressione dello strumento grafico sulla carta) ed obiettivi (quali la gradazione di colore e le caratteristiche dell’inchiostro) che solo l’originale del documento, al contrario, può rivelare. Pertanto, come affermato già da Cass. n. 11739 del 1999, e condiviso da Cass. n. 16551 del 2015, la parte che abbia prodotto la copia fotostatica di una scrittura privata disconosciuta dalla controparte (che così abbia negato l’esistenza dell’originale) è tenuta a produrla in originale, ed a chiederne la verificazione se quella abbia insistito nel disconoscimento. D’altro canto, poichè il vero disconoscimento è solo quello che si appunta sull’originale della scrittura privata, chi ha disconosciuto la copia fotostatica ha comunque l’onere di disconoscere l’originale al fine di impedire che l’altra parte possa avvalersene, se non promuovendo il giudizio di verificazione e a seguito dell’esito positivo di esso. Se la parte contro la quale viene prodotto il documento omette di disconoscerne la sottoscrizione una volta che esso sia stato introdotto in giudizio in originale, si realizza il meccanismo legale che conferisce alla scrittura l’efficacia di scrittura privata legalmente riconosciuta.

La soluzione data dalla corte d’appello sul punto è pertanto corretta, non avendo reiterato il P. il disconoscimento allorchè è stata prodotto in causa l’originale della scrittura privata da lui disconosciuto in fotocopia, anche se ne va corretta la motivazione laddove, a pag. 7 e seguenti, afferma che la convenzione è utilizzabile non solo perchè non vi è stato un valido disconoscimento della sottoscrizione da parte del P.- affermazione corretta e in sè idonea a sostenere la decisione- ma anche perchè la sottoscrizione di essa da parte del legale è stata confermata dai testi: in mancanza di un valido disconoscimento, le testimonianze raccolte sul punto sono inutili, e la motivazione in riferimento ad esse ad abundantiam, in presenza di esso, sarebbero inammissibili al fine di superare la mancanza dell’istanza di verificazione, unico strumento per introdurre nel giudizio l’utilizzabilità della scrittura privata disconosciuta.

3.Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 216 c.p.c. e dell’art. 2729 c.c. nell’utilizzo di prove indiziarie atipiche su scrittura disconosciuta, e dell’art. 2725 c.c. nell’utilizzo di prove indiziarie atipiche su atti richiedenti la forma scritta ad sustantiam, nonchè la violazione dell’art. 2729 c.c. nella valutazione delle prove sulla esistenza della convenzione.

Il ricorrente sottolinea che la corte d’appello ha desunto l’esistenza della convenzione anche dalle dichiarazioni rese da uno dei patrocinati in sede di indagini preliminari, aventi natura di prove atipiche, laddove, una volta introdotto in giudizio un documento che sia stato disconosciuto, l’unico modo per poter ritenere veritiero il documento è che venga chiesta di chi se ne vuole avvalere la verificazione e che questa verifica venga positivamente superata.

4.Il motivo è assorbito dal rigetto del precedente, che mantiene ferma l’affermazione della corte d’appello per cui, non essendo stato disconosciuto il documento una volta prodotto in originale, il disconoscimento originariamente effettuato in relazione alla copia non rilevasse ulteriormente al fine della utilizzabilità in giudizio della convenzione.

5.Con il terzo motivo, il ricorrente denunzia la violazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 2729 c.c. nella valutazione delle prove sulla sussistenza del dolo di calunnia. In particolare, lamenta che la corte si sia fondata, per ritenere sussistente in capo al P. il dolo specifico previsto dal reato di calunnia, su alcune dichiarazioni rese da una dei testi in fase di indagini preliminari, quindi non assistite dalla garanzie del contraddittorio, rispetto alle dichiarazioni rese in dibattimento; ricostruisce tutto l’andamento processuale, adombrando che la teste potrebbe aver ritrattato le prime dichiarazioni, favorevoli al ricorrente, perchè indotta o minacciata dalla S., e sostiene che debbano essere ritenute più attendibili le dichiarazioni rese in dibattimento, perchè circondate dalla pienezza delle garanzie.

6.Il motivo è in parte inammissibile, in parte infondato.

Da un lato, non è possibile in questa sede rileggere direttamente le risultanze istruttorie per valutare se, ove fosse stata attribuita una rilevanza solo indiziaria alle dichiarazioni rese in indagini preliminari, la tesi della S. sarebbe stata ugualmente ritenuta fondata.

In diritto, atteso il principio del libero convincimento del giudice sulla base delle prove raccolte che, salvo quelle aventi un’efficacia legale tipica di idoneità a dirimere il giudizio, sono tutte liberamente valutabili, non è possibile stabilire una graduatoria di attendibilità e rilevanza delle prove costituende che sia vincolante per il giudice.

In altre parole, il principio del libero convincimento del giudice e del libero apprezzamento delle prove impediscono di poter costruire una graduatoria delle prove più e meno apprezzabili, alla quale tende il ricorrente, e che non ha alcun fondamento normativo: il giudice può fondare il suo – motivato convincimento, anche sulle prove atipiche emergenti dalla istruttoria, ritenendole per le ragioni che espone in motivazione più convincenti o pertinenti in relazione alla questione controversa.

7.Con il quarto ed ultimo motivo, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c. in tema di riparto dell’onere della prova del danno non patrimoniale e la violazione degli artt. 2043 e 1223 c.c. nella valutazione del danno patrimoniale.

Sostiene che la corte d’appello, pur avendo premesso che la prova del danno non patrimoniale conseguente alla calunnia non possa ritenersi in re ipsa, abbia poi ritenuto provata l’esistenza di un danno non patrimoniale e di un modesto danno biologico sulla base di mere e vaghe asserzioni della parte ricorrente, ovvero che dovesse ritenersi che la S. avesse provato, a mezzo di presunzioni, l’esistenza di una “discreta sofferenza”.

8.Il motivo è infondato, in quanto la corte reputa sufficienti, con valutazione di merito non sindacabile, gli elementi raccolti a prova dell’esistenza del danno (pag. 18 e 19 della motivazione), tra i quali l’essere stata sottoposta la danneggiata ad ispezioni da parte della Direzione EPAS, l’aver dovuto cambiare patronato e quindi modificare l’ambito di svolgimento della propria attività lavorativa, la sottoposizione a procedimento penale per accuse risultate non veritiere, e ne opera una valutazione equitativa ad essi parametrata.

Il ricorso va pertanto rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come al dispositivo.

Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e il ricorrente risulta soccombente, pertanto egli è gravato dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis, comma 1 quater se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Pone a carico del ricorrente le spese di giudizio sostenute dalla parte controricorrente, che liquida in complessivi Euro 2.200,00 oltre 200,00 per esborsi, oltre contributo spese generali ed accessori.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il 26 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2020

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