Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9849 del 05/05/2011

Cassazione civile sez. trib., 05/05/2011, (ud. 20/09/2010, dep. 05/05/2011), n.9849

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere –

Dott. POLICHETTI Renato – rel. Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

R.G., rappresentato e difeso, anche disgiuntamente, come

da procura a margine del ricorso dagli Avvocati FERRAJOLI LUIGI, del

foro di Bergamo e Giuseppe Fischioni con studio in Roma via della

Giuliana n. 32, presso il quale l’odierno ricorrente elegge

domicilio;

contro

Ministero dell’Economia e delle Finanze in persona del Ministro in

carica e Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore in carica

rappresentati e difesi, dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso

i cui uffici in Roma via dei Portoghesi n. 12, domiciliano;

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Lombardia, sezione distaccata di Brescia, sezione 67 n.174/67/2004

pronunciata il 29.11.2004 e depositata il 13.12.2004;

udita la relazione del Consigliere Renato Polichetti;

udite le conclusioni del P.G. Sorrentino Federico che ha chiesto il

rigetto del ricorso.

Fatto

CONSIDERATO QUANTO SEGUE

R.G. ricorreva alla Commissione Tributaria Provinciale di Bergamo avverso il verbale di accertamento originato da un processo verbale della Guardia di Finanza nei confronti di COM.EST s.r.l. con il quale venivano ripresi a tassazione tutti i costi dichiarati per il 1987 e 1988 (e ciò, per mancanza di tutta la documentazione contabile, pacificamente distrutta dall’amministratore nel 1989), con ricaduta “a cascata” sul R., socio al 40% fino al 30/11/1997.

Nel ricorso si sosteneva la violazione dell’art. 38 con particolare riferimento si alla mancanza di indizi a sostegno del presunto maggior reddito della società, sia a sostegno della ipotizzata distribuzione ai soci di tale maggior reddito; la Commissione di primo grado accoglieva il ricorso sulla considerazione – assorbente – della mancanza di prova della qualità di socio in capo al R..

L’Ufficio propone appello, insistendo anche sul fatto che il R. – apparentemente dimissionario dalla carica e cedente le sue quote il 30/11/1997 – aveva ricoperto successivamente ancora la carica di amministratore dal 4/8 al 25/11/88, con ciò facendo presumere di non essersi affatto allontanato dall’ambito sostanziale della società.

Questa Commissione osserva, preliminarmente, che è giurisprudenza consolidata quella che ritiene la distribuzione ai soci degli utili conseguiti dalla società, anche di capitali, quando detta società si a base ristretta, ed intra familiare, come nel caso di Comest.

La attribuzione a Comest del maggiore reddito è incontestabile (sia perchè l’accertamento non è stato impugnato, sia perchè è comunque ineccepibile la ripresa a tassazione dei costi non documentati).

Il R. è socio fondatore della società: la sua “uscita di scena” del 30/11/1987 riposa sulla fotocopia di un fissato bollato, e sulla fotocopia di una pagina di un presunto libro soci dal quale risulterebbe la cessione delle quote: diversamente da quanto opinato dai giudici di primo grado, nessuno di questi “documenti” ha la minima efficacia ed opponibilità ai terzi in punto autenticità (e, a maggior ragione, in punto di certezza di data).

A questo punto, le conseguenze sono assolutamente inevitabili, e a nulla rileva la circostanza che la società Comest (vedi ciò che emerge in un verbale di controllo della G. di F.) apparisse riconducibile, più che ad uno schema di quelli previsti dal codice civile, alla fattispecie prevista e punita dall’art. 416 c.p..

Avverso la suddetta sentenza viene proposto ricorso innanzi a questa Corte da parte del R.G. sulla base di tre motivi.

Si sono costituiti con controricorso il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate, per il tramite dell’Avvocatura Generale dello Stato, con il quale evidenziano l’infondatezza di ciascuno dei motivi del ricorso e ne chiedono il rigetto con vittoria di spese.

Con il primo motivo del ricorso viene dedotta la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, e dell’art. 329 c.p.c., sostenendo che l’appello dell’ufficio non aveva contestato l’unica ed assorbente ratio decidendi della sentenza di primo grado che era rappresentata dalla mancanza della qualità di socio del R..

Il motivo è infondato.

Nella sentenza impugnata si legge che nell’atto di appello l’ufficio aveva negato la verità della dismissione di socio del R., insistendo sul fatto che lo stesso – apparentemente dimissionario dalla carica e cedente le sue quote il 30.11.1987 – aveva ricoperto successivamente ancora la carica di amministratore dal 4 agosto al 25 novembre 1988, con ciò facendo presumere di non essersi affatto allontanato dall’ambito sostanziale della società.

Il ricorso nulla dice se la statuizione sul punto della sentenza di primo grado fosse valida o meno.

Con il secondo motivo viene dedotta la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 3, nonchè carenza e contraddittorietà della motivazione. Secondo il ricorrente la imputabilità ai soci di una società a base sociale ristretta e familiare dei maggiori utili accertati in capo alla società non si applica nel caso in cui i maggiori utili non sono conseguenza di una accertata evasione ma della indeducibilità dei costi derivante dalla mancata documentazione dei costi stessi.

Il motivo è privo di fondamento.

Come stabilito dalla copiosa giurisprudenza di questa Corte: “La presunzione di riparto degli utili extrabilancio tra i soci di una società di capitali a ristretta base partecipativa, non è neutralizzata dallo schermo della personalità giuridica, ma estende la sua efficacia a tutti i gradi di organizzazione societaria per i quali si riscontri la ristrettezza della compagine sociale, operando il principio generale del divieto dell’abuso di diritto, che trova fondamento nei principi costituzionali di capacità contributiva e di uguaglianza, nonchè nella tendenza all’oggettivazione del diritto commerciale ed all’attribuzione di rilevanza giuridica dell’impresa, indipendentemente dalla forma giuridica assunta dal suo titolare.

(Fattispecie relativa a società a responsabilità limitata partecipata per il 10 per cento da un socio e per il 90 per cento da una società per azioni, della quale erano soci, al 5 per cento, la persona fisica già socia della società a responsabilità limitata e, per il 95 per cento, il coniuge). (Sent. n. 13338 del 10/06/2009;

conformi Sezioni Unite 30055 del 2008; 22.04.2009 n. 9519; 08.07.2008 n. 18640; 16.03.2007 n. 6197; 26.10.2005 n. 20851; 15.05.2003 n. 7564 ; 05.05.2003 n. 6780).

Nella specie l’accertamento dei maggiori utili a carico della società non è stato contestato e non è stata contestata la ristretta base sociale. Nè risulta essere stata data alcuna prova della non distribuzione.

Con il terzo motivo si deduce violazione dell’art. 2479 c.c., nel testo vigente all’epoca dei fatti, sostenendo il R. di avere adeguatamente documentato la sua uscita dalla società producendo copia della cessione della sua quota, copia del fissato bollato e copia della trascrizione nel libro soci, e che tali atti erano all’epoca sufficienti non essendovi la necessità della loro redazione in forma notarile.

Al riguardo la sentenza impugnata afferma che il R. è socio fondatore della società. La sua “uscita di scena” del 30.11.1987 si fonda esclusivamente sulla fotocopia di un fissato bollato, e sulla fotocopia di un presunto libro soci dal quale risulterebbe la cessione delle quote.

Contrariamente da quanto ritenuto dai giudici di primo grado, nessuno di questi documenti ha la minima efficacia ed opponibilità ai terzi in punto di autenticità, nè in punto di certezza della data.

La sentenza impugnata è quindi basata sulla mancanza di prova in ordine alla sussistenza ed alla data di uscita di scena.

Si tratta di un accertamento di fatto che non può essere sindacato in cassazione, e non può esserlo sulla base di una generica denunzia di vizio di motivazione che, peraltro, non risulta sussistere nel caso in esame.

Si impone pertanto il rigetto del ricorso con condanna del ricorrente alle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio che liquida in Euro 25.000, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 settembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 5 maggio 2011

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