Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9831 del 04/05/2011

Cassazione civile sez. lav., 04/05/2011, (ud. 23/02/2011, dep. 04/05/2011), n.9831

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BATTIMIELLO Bruno – Presidente –

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 7144/2010 proposto da:

F.R., elettivamente domiciliato in Roma, Via Lucrezio Caro

n. 62, presso lo studio dell’Avv. CADETTI Fioravante, che lo

rappresenta e difende assieme all’Avv. Enrico Allegro, per procura in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO dell’ECONOMIA e delle FINANZE, in persona del Ministro in

carica, AGENZIA delle DOGANE, in persona del Direttore pro tempore,

entrambi elettivamente domiciliati in Roma, Via dei Portoghesi n. 12,

presso l’Avvocatura generale dello Stato, che li difende ex lege;

– controricorrenti –

per la revocazione della sentenza n. 5637/2009 della Corte di

Cassazione, depositata in data 9.3.2009;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

giorno 23.02.2011 dal Consigliere Dott. Giovanni Mammone;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DESTRO Carlo.

Fatto

RITENUTO IN FATTO E DIRITTO

1.- F.R., già dipendente del Ministero delle Finanze quale funzionario dell’ottava qualifica funzionale, con ricorso al giudice del lavoro di Milano impugnava il licenziamento disciplinare irrogatogli dal Direttore regionale delle dogane per la Lombardia in data 17.6.03 all’esito di procedimento penale a suo carico conclusosi con sentenza di applicazione della pena (c.d. patteggiamento).

Rigettata la domanda e proposto appello dal ricorrente, la Corte di appello di Milano rigettava l’impugnazione.

2.- Proposto ricorso per cassazione dal F., questa Corte con la sentenza 9.3.09 n. 5367 rigettava l’impugnazione.

Per quanto qui rileva, la Corte nel prendere in esame il sesto motivo dava atto che la Corte d’appello aveva equiparato erroneamente la sentenza di patteggiamento alla sentenza penale di condanna, così applicando la disposizione dell’art. 25, comma 5, lett. e) del contratto collettivo del Comparto Ministeri del 16.5.95, per la quale il licenziamento disciplinare si applica per le condanne passate in giudicato per i delitti indicati dalla L. n. 55 del 1990, art. 15.

Tale equiparazione era, infatti, consentita dal comma 1 bis dello stesso art. 15, introdotto dalla L. 13 dicembre 1999, n. 475, art. 1, comma 2, che, tuttavia, era entrato in vigore successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di patteggiamento in questione.

Corretta la motivazione la Corte di legittimità non riteneva, tuttavia, di procedere alla cassazione della pronunzia, in quanto l’assunto che il licenziamento derivasse solo dal falso presupposto che il F. avesse riportato una condanna penale era formulato in termini inammissibili per carenza del requisito dell’autosufficienza, atteso che nel detto sesto motivo di impugnazione non era trascritta la lettera di licenziamento. Il giudice di merito, proseguiva inoltre il Collegio di legittimità, non si era limitato a considerare la sentenza di patteggiamento, ma, con riferimento agli accertamenti probatori contenuti nelle sentenze penali, aveva comunque “valutato la sussistenza dei fatti contestati, ritenendo la proporzione tra gli stessi e la sanzione irrogata”.

3.- Proponeva ricorso per revocazione il F. sostenendo che il Collegio di legittimità sarebbe incorso in errore di fatto, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 4, su due punti decisivi: a) non sarebbe stato violato il principio dell’autosufficienza avendo il ricorrente prodotto assieme al ricorso per cassazione, al pari della sentenza impugnata, copia della lettera di licenziamento, di modo che il Collegio giudicante avrebbe potuto esaminare il documento per esame diretto; b) le sentenze penali da cui il giudice di merito avrebbe tratto ulteriori elementi probatori a carico erano state pronunziate in procedimento penale che vedeva imputato non il F., ma il suo collega A.F..

Si difendeva con controricorso l’Amministrazione.

4.- Il Consigliere relatore sosteneva l’inammissibilità del ricorso, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., depositando relazione che era comunicata al Procuratore generale ed era notificata ai difensori costituiti.

F. ha depositato memoria.

5.- Il ricorso è inammissibile.

Quanto al primo denunciato errore, deve rilevarsi che, quando pure fosse accertato che copia della lettera di licenziamento era stata depositata assieme al ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 369 c.p.c., n. 4, non per questo potrebbe ritenersi soddisfatto il requisito dell’autosufficienza del ricorso, il quale, secondo il disposto dell’art. 366 c.p.c., deve contenere l’esposizione dei fatti di causa e l’illustrazione dei motivi di impugnazione (un. 3-4).

Alla giurisprudenza di legittimità cui fa riferimento parte ricorrente, per cui il deposito di copia del documento terrebbe il luogo della trasposizione del suo testo nel ricorso ai fini dell’autosufficienza, fa riscontro una diversa e più rigorosa giurisprudenza per la quale, ai fini della sussistenza del requisito della “esposizione sommaria dei fatti di causa”, prescritto da detto art. 366, n. 3, è necessario che, per il principio di autonomia del ricorso, nel ricorso stesso vengano indicati, in maniera specifica e puntuale, tutti gli elementi utili perchè il giudice di legittimità possa avere la completa cognizione dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni in esso assunte dalle parti, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti del processo, ivi compresa la sentenza impugnata, così da acquisire un quadro degli clementi fondamentali in cui si colloca la decisione censurata e i motivi delle doglianze prospettate (Cass. 12.6.08 n. 15808).

Ne deriva che il dedotto errore non sarebbe di per sè risolutivo, in quanto, ove pure fosse accertata la circostanza dedotta, la questione dell’ammissibilità del motivo rimarrebbe pur sempre sottoposta a valutazione di diritto del Collegio giudicante.

6.- Analogamente non sarebbe risolutivo il secondo errore. Nel rispondere al sopra menzionato sesto motivo di ricorso, infatti, il Collegio giudicante, a prescindere dalle valutazioni fondate sul preteso errore e censurate dal ricorrente per revocazione, ritiene in ogni caso corretto l’accertamento del giudice di merito “poichè, giusta il condiviso orientamento della giurisprudenza di legittimità, la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.c. … costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di mento il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale – abbia prestato fede a tale ammissione …”.

Trattasi di valutazione del tutto estranea al dedotto errore di tatto, che assegna valore autonomo alla motivazione, che di per sè è idonea a sorreggere il decisum.

7.- In definitiva, il ricorso è inammissibile, in quanto i dedotti vizi, quando anche fossero accertati, sarebbero comunque privi del requisito della rilevanza ai fini della richiesta revocazione.

8.- Le spese del giudizio, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 30,00 (trenta) per esborsi ed in Euro 2.000,00 (duemila) per onorari, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..

Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2011

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