Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9821 del 26/05/2020

Cassazione civile sez. I, 26/05/2020, (ud. 05/02/2020, dep. 26/05/2020), n.9821

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria C. – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 3998/2019 R.G. proposto da:

S.O., rappresentato e difeso dall’Avv. Edy Guerrini, con

domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della

Corte di cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e

difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in

Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

e

COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE

INTERNAZIONALE DI BOLOGNA – SEZIONE DI FORLI’-CESENA;

– intimata –

avverso il decreto del Tribunale di Bologna depositato il 17 dicembre

2018.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 5 febbraio

2020 dal Consigliere Guido Mercolino.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con decreto del 17 dicembre 2018, il Tribunale di Bologna ha rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta da O.S., cittadino del Gambia.

Premesso che, nel colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale, il ricorrente aveva riferito di essersi allontanato dal suo Paese di origine per sfuggire alla minaccia di uno zio, il quale aveva tentato di ucciderlo, ritenendolo responsabile di un incidente accaduto al figlio, che gli aveva affidato in custodia, il Tribunale ha ritenuto non plausibili le predette dichiarazioni, in quanto affette da aporie e contraddizioni insanabili, con riferimento sia al tempo ed al luogo dell’aggressione, che alle condizioni di salute del cugino, e non corroborate da elementi oggettivi di prova, nonostante i perduranti contatti del ricorrente con alcuni familiari rimasti nel Paese di origine. Precisato inoltre che l’immediata presentazione della domanda di protezione non rispondeva ad un’autonoma scelta personale, ma all’osservanza della procedura prescritta dal Regolamento UE n. 604/13 del 26 giugno 2013, ha affermato che il giudizio d’inattendibilità escludeva l’operatività del dovere di cooperazione nell’acquisizione d’informazioni riguardanti il Paese di origine, concludendo pertanto per l’insussistenza della minaccia di un danno grave, ai sensi del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. a) e b), ed aggiungendo che il ricorrente non aveva adombrato neppure un rischio di persecuzione riconducibile ai motivi di cui all’art. 7 del medesimo decreto, avendo allegato una minaccia proveniente da un agente privato senza precisare di non essere riuscito ad ottenere tutela dalle autorità pubbliche. Il Tribunale ha ritenuto inoltre insussistente il rischio di un danno grave derivante da una situazione di violenza generalizzata, ai sensi dell’art. 14 cit., lett. c) rilevando che le informazioni desunte da fonti aggiornate ed accreditate escludevano l’esistenza di un conflitto armato di per sè solo idoneo ad esporre la popolazione civile ad un grave pericolo per la vita o l’incolumità fisica. Ha escluso infine la configurabilità dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, non essendo configurabile una condizione seria e grave di vulnerabilità, in ragione dell’età del ricorrente e dell’assenza di particolari fattori indicativi di una situazione di violazione o impedimento all’esercizio dei diritti umani in caso di rimpatrio.

2. Avverso il predetto decreto il Sora ha proposto ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi. Il Ministero dell’interno ha resistito con controricorso. La Commissione territoriale non ha svolto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente censura il decreto impugnato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per aver omesso di pronunciare in ordine alla domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, da lui proposta in via principale con l’atto introduttivo del giudizio.

1.1. Il motivo è infondato.

Il Tribunale non ha affatto omesso di esaminare la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, in quanto, pur non avendo adottato un’espressa statuizione al riguardo, ha rilevato che il ricorrente non aveva neppure allegato il timore di subire persecuzioni nei termini e per i motivi contemplati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7 in tal modo lasciando chiaramente intendere che la predetta domanda, riportata nelle conclusioni del ricorso introduttivo, doveva considerarsi infondata, per difetto di riconducibilità dei fatti allegati ad una delle fattispecie che giustificano il riconoscimento del predetto status. E’ noto d’altronde che, ai fini della configurabilità del vizio di omessa pronuncia, non è sufficiente la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessaria la totale omissione del provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto, la quale non ricorre allorquando la decisione adottata comporti l’implicito rigetto della pretesa azionata dalla parte, non esaminata specificamente, ma chiaramente incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (cfr. Cass., Sez. II, 13/08/2018, n. 20718; Cass., Sez. V, 6/12/2017, n. 29191; Cass., Sez. I, 13/10/2017, n. 24155).

2. Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 censurando il decreto impugnato per aver ritenuto inattendibili le dichiarazioni da lui rese a sostegno della domanda, senza tener conto della coerenza e plausibilità delle stesse e del suo sforzo di circostanziare la domanda mediante dettagli riguardanti la sua vicenda personale, nonchè dell’impossibilità di supportarla mediante la produzione di documenti ufficiali, a causa delle difficoltà affrontate in Gambia e nei Paesi attraversati prima di giungere in Italia. Premesso di aver risposto a tutte le domande postegli da parte della Commissione territoriale e del Giudice istruttore, i quali, ove avessero ritenuto necessari ulteriori dettagli, avrebbero dovuto chiederglieli nel corso del colloquio o in udienza, ribadisce la coerenza delle dichiarazioni riguardanti lo stato di salute del cugino, affermando inoltre che, nel porre in risalto il carattere non spontaneo della domanda di protezione, il Tribunale ha fatto riferimento ad un requisito non prescritto dalla legge.

2.1. Il motivo è infondato.

In tema di protezione internazionale, la valutazione in ordine alla credibilità del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice di merito, e censurabile in sede di legittimità esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti, ovvero ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per difetto di motivazione, da intendersi come mancanza assoluta della stessa sotto l’aspetto materiale e grafico oppure come motivazione meramente apparente, perplessa, o costituita da argomentazioni talmente inconciliabili da non permettere di riconoscerla come giustificazione del decisum, sempre che tale vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza (cfr. Cass., Sez. I, 7/08/2019, n. 21142; 5/02/2019, n. 3340; Cass., Sez. VI, 30/10/2018, n. 27503). Tali carenze nella specie non sono state in alcun modo dedotte, essendosi il ricorrente limitato ad insistere sulla coerenza e la plausibilità della vicenda allegata a sostegno della domanda, nonchè sulla mancata effettuazione di approfondimenti istruttori da parte del Tribunale, senza considerare che nei giudizi in materia di protezione internazionale l’attenuazione dell’onere probatorio derivante dalla previsione di un dovere di cooperazione istruttoria officiosa a carico del giudice presuppone che il ricorrente, oltre ad essersi tempestivamente attivato per la proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, abbia superato positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, (cfr. Cass., Sez. I, 12/06/2019, n. 15794; Cass., Sez. VI, 27/06/2018, n. 16925; 12/11/2018, n. 28862).

3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 14 e 17 sostenendo che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, diversamente da quanto accade per lo status di rifugiato, non si richiede una valutazione positiva in ordine alla sussistenza degli elementi previsti dagli artt. 3-6 del medesimo decreto, ma solo la verifica della concordanza degli elementi portati a conoscenza del giudicante con quelli prescritti dalla legge.

3.1. Il motivo infondato.

Non può infatti condividersi la tesi sostenuta dalla difesa del ricorrente, secondo cui il grado di certezza dei fatti allegati richiesto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 17 ai fini dell’accoglimento della domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria risulterebbe inferiore a quello prescritto dall’art. 11 per il riconoscimento dello status di rifugiato: la lettera delle due disposizioni si differenzia soltanto per l’ottica in cui è formulata, avendo la prima riguardo alla valutazione da compiersi per l’applicazione della misura di protezione, e la seconda ai requisiti a tal fine prescritti; sotto il profilo oggettivo, le due norme non presentano tuttavia differenze sostanziali, richiamando entrambe i criteri di valutazione stabiliti dagli artt. 3-6 del D.Lgs. ed i presupposti oggettivi necessari per l’applicazione di ciascuna misura, nonchè le cause di cessazione ed esclusione per le stesse previste. Il comune rinvio all’art. 3 conferma d’altronde l’identità del tipo di valutazione richiesto, che non può certamente ridursi ad una mera constatazione della riconducibilità dei fatti narrati alle fattispecie delineate dall’art. 14, svincolata da qualsiasi verifica in ordine alla loro veridicità, risultando altrimenti frustrate le finalità perseguite dalla disciplina in esame, che consistono nell’assicurare protezione allo straniero che dimostri di essere effettivamente esposto al rischio di gravi violazioni o limitazioni dei propri diritti fondamentali.

4. Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia la violazione e/o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), rilevando che, nell’escludere la sussistenza di una situazione di violenza generalizzata nel suo Paese di origine, il decreto impugnato non ha tenuto conto delle più recenti informazioni relative al Gambia, dalle quali emerge una situazione di violenza ed instabilità politica tale da esporlo, in caso di rimpatrio, ad una minaccia grave ed individuale alla vita.

4.1. Il motivo è inammissibile.

L’esclusione della configurabilità della fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), è stata infatti giustificata dal Tribunale attraverso il richiamo alle informazioni desunte da fonti internazionali accreditate ed aggiornate, dalle quali è emerso che negli ultimi anni la situazione politico-sociale del Gambia si è progressivamente stabilizzata, per effetto dello svolgimento di regolari elezioni politiche e dell’intervento economico della comunità internazionale. Tale valutazione, puntualmente motivata mediante l’indicazione delle fonti richiamate, costituisce un apprezzamento di fatto, censurabile in sede di legittimità soltanto per omesso esame di un fatto decisivo che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti (cfr. Cass., Sez. VI, 12/12/2018, n. 32064; Cass., Sez. I, 21/11/2018, n. 30105), nella specie neppure dedotto dal ricorrente, il quale si è limitato a far valere informazioni desunte da altre fonti, sostanzialmente prospettando un nuovo esame degli elementi istruttori, non consentito in sede di legittimità (cfr. Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053; Cass., Sez. lav., 9/07/2015, n. 14324; Cass., Sez. VI, 10/02/2015, n. 2498).

5. Con il quinto motivo, il ricorrente deduce l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, censurando il decreto impugnato per aver rigettato la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, senza tener conto della situazione di pericolo cui egli resterebbe esposto in caso di rimpatrio, a causa dell’aggressione e delle minacce di morte ricevute dallo zio, delle gravi violazioni dei diritti umani derivanti dalla situazione d’instabilità politica esistente in Gambia e del suo inserimento sociale e lavorativo nel territorio italiano, comprovato dal possesso di un domicilio stabile e dalla prestazione di attività lavorativa.

5.1. Il motivo è infondato.

La domanda di riconoscimento della protezione umanitaria è stata correttamente rigettata dal Tribunale in virtù della ritenuta insussistenza di una condizione di vulnerabilità personale del ricorrente, la quale, trovando conferma nel rigetto delle censure concernenti l’inattendibilità della vicenda personale allegata a sostegno della domanda e l’esclusione di una situazione di violenza indiscriminata nel Paese di origine, fa apparire giustificata anche l’affermazione dell’irrilevanza dell’inserimento del ricorrente nel tessuto sociale e lavorativo del nostro Paese. In tema di protezione umanitaria, questa Corte ha infatti ribadito costantemente l’insufficienza di un apprezzamento fondato esclusivamente sulla vita privata e familiare del richiedente in Italia, evidenziando la necessità di una valutazione comparativa che tenga conto della situazione soggettiva ed oggettiva in cui egli ha vissuto prima di allontanarsi dal luogo di origine ed alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio, poichè, in caso contrario, si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, (cfr. Cass., Sez. Un., 13/11/2019, n. 29459; Cass., Sez. VI, 3/04/2019, n. 9304; Cass., Sez. I, 23/02/2018, n. 4455).

6. Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dallo stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 5 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2020

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