Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9819 del 26/05/2020

Cassazione civile sez. I, 26/05/2020, (ud. 05/02/2020, dep. 26/05/2020), n.9819

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria C. – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 1472/2019 R.G. proposto da:

O.A., rappresentato e difeso dall’Avv. Edy Guerrini, con

domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della

Corte di cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e

difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in

Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

e

COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE

INTERNAZIONALE DI BOLOGNA – SEZIONE DI FORLI’-CESENA;

– intimata –

avverso il decreto del Tribunale di Bologna depositato il 22 novembre

2018.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 5 febbraio

2020 dal Consigliere Guido Mercolino.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con decreto del 22 novembre 2018, il Tribunale di Bologna ha rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta da A.O., cittadino della Nigeria.

Premesso che, nel colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale, il ricorrente aveva riferito di essersi allontanato dal suo Paese di origine per sfuggire alle minacce di uno zio e di altre persone, intenzionate a vendicare l’uccisione di un cugino e di un altro soggetto, arrestati a seguito di una denuncia da lui presentata alla polizia per il possesso di un’arma da fuoco, il Tribunale ha ritenuto inattendibili le predette dichiarazioni, in quanto incoerenti, contraddittorie ed implausibili. Ha evidenziato in proposito la difformità e la lacunosità della versione dei fatti fornita in udienza, le incongruenze della narrazione e l’implausibilità dei dettagli riferiti, affermando che il giudizio d’inattendibilità escludeva l’operatività del dovere di cooperazione nell’acquisizione d’informazioni riguardanti il Paese di origine, e concludendo pertanto per l’insussistenza di un concreto pericolo di subire persecuzioni per i motivi di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 7 e della minaccia di un danno grave, ai sensi dell’art. 14, lett. a) e b), del medesimo decreto. Il Tribunale ha escluso inoltre la configurabilità del rischio di un danno grave derivante da una situazione di violenza generalizzata, ai sensi dell’art. 14 cit., lett. c) sulla base d’informazioni desunte da fonti accreditate ed aggiornate, dalle quali risultava che l’area critica della Nigeria non si estendeva alla regione di provenienza del ricorrente. Ha ritenuto insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, non essendo configurabile una condizione seria e grave di vulnerabilità e non potendosi considerare sufficiente ad impedire il rimpatrio lo svolgimento di attività lavorativa precaria da parte del ricorrente. Ha reputato infine ininfluente la circostanza che il ricorrente fosse transitato in Libia prima di giungere in Italia, ribadendo la generale inattendibilità delle dichiarazioni da lui rese e precisando comunque che le violazioni dei diritti umani in atto nel Paese di transito possono assumere rilievo soltanto ai fini della ricostruzione della vicenda individuale.

3. Avverso il predetto decreto l’Okoh ha proposto ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi. Il Ministero ha resistito con controricorso. La Commissione territoriale non ha svolto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, nonchè il vizio di motivazione, censurando il decreto impugnato per aver ritenuto inattendibili le dichiarazioni da lui rese a sostegno della domanda, senza tener conto della coerenza e plausibilità delle stesse e del suo sforzo di circostanziare la domanda mediante dettagli riguardanti la sua vicenda personale, nonchè dell’impossibilità di supportarla mediante la produzione di documenti ufficiali, a causa delle difficoltà affrontate in Nigeria e nei Paesi attraversati prima di giungere in Italia. Afferma che, nel rilevare la difformità tra i fatti narrati nel corso del colloquio e quelli riferiti in udienza, il Tribunale ha conferito rilievo a dettagli ininfluenti ed a lacune giustificate dalla conoscenza meramente indiretta di determinati particolari, ribadendo la coerenza della propria narrazione, con riferimento al comportamento tenuto sia a seguito della denuncia alla polizia che dopo l’uccisione del cugino e dell’altro soggetto, nonchè la plausibilità delle vicende relative all’allontanamento dal proprio Paese, in quanto congruenti con la situazione esistente nei Paesi di transito.

1.1. Il motivo è inammissibile.

In tema di protezione internazionale, la valutazione in ordine alla credibilità del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice di merito, e censurabile in sede di legittimità esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti, ovvero ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per difetto di motivazione, da intendersi come mancanza assoluta della stessa sotto l’aspetto materiale e grafico oppure come motivazione meramente apparente, perplessa, o costituita da argomentazioni talmente inconciliabili da non permettere di riconoscerla come giustificazione del decisum, sempre che tale vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza (cfr. Cass., Sez. I, 7/08/2019, n. 21142; 5/02/2019, n. 3340; Cass., Sez. VI, 30/10/2018, n. 27503). Tali carenze nella specie non sono state in alcun modo dedotte, essendosi il ricorrente limitato ad insistere sulla coerenza e la plausibilità della vicenda allegata a sostegno della domanda e la conformità delle dichiarazioni rese in udienza rispetto a quelle rese dinanzi alla Commissione territoriale, in tal modo dimostrando di voler sollecitare, attraverso l’apparente denuncia della violazione di legge e del vizio di motivazione, una nuova valutazione dei fatti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica e la coerenza logico-formale delle argomentazioni svolte nel provvedimento impugnato (cfr. Cass., Sez. VI, 13/01/ 2020, n. 331; Cass., Sez. V, 4/08/2017, n. 19547; 16/12/2011, n. 27197).

2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 7 ed 11 sostenendo che, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, il decreto impugnato non avrebbe dovuto limitarsi a valutare la credibilità delle dichiarazioni da lui rese, ma avrebbe dovuto valutare tutti gli elementi del caso concreto, ed in particolare il rischio, cui egli andrebbe incontro in caso di rimpatrio, di rimanere esposto a persecuzioni, avuto riguardo alle minacce di morte ed alle violenze fisiche già subite.

2.1. Il motivo è infondato.

Questa Corte ha infatti chiarito che le dichiarazioni rese dallo straniero, se non suffragate da prove, devono essere sottoposte, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, ad un controllo di credibilità, avente ad oggetto da un lato la coerenza interna ed esterna delle stesse, ovverosia la congruenza intrinseca del racconto e la sua concordanza con le informazioni generali e specifiche di cui si dispone, dall’altro la plausibilità della vicenda narrata, che deve risultare attendibile e convincente sul piano razionale, non comportando tale verifica un aggravamento della posizione del richiedente, il quale beneficia anzi di un’attenuazione dell’onere della prova, ricollegabile al dovere del giudice di acquisire d’ufficio il necessario materiale probatorio ed al potere di ritenere provate circostanze che non lo sono affatto, ferma restando, per l’appunto, la necessità che i fatti narrati superino il predetto vaglio di logicità (cfr. Cass., Sez. I, 7/08/2019, n. 21142). Tale controllo deve ritenersi nella specie correttamente effettuato, avendo il Tribunale provveduto ad esaminare i fatti allegati a sostegno della domanda sotto entrambi gl’indicati profili, la cui valutazione ha consentito di evidenziare per un verso le contraddizioni interne del racconto e la sua difformità rispetto alla versione fornita nel corso del colloquio svoltosi dinanzi alla competente Commissione territoriale, e per altro verso la discordanza di dettagli importanti dalle informazioni riguardanti il Paese di origine, nonchè l’inattendibilità complessiva della vicenda narrata, motivatamente reputata inidonea, secondo canoni di comune ragionevolezza, a far ritenere giustificato il timore di subire persecuzioni o un danno grave e individuale alla persona. E’ pur vero che i criteri indicati dall’art. 3, comma 5, cit. quale guida per la valutazione nel merito della veridicità delle dichiarazioni rese dal richiedente non hanno carattere tassativo, ma meramente indicativo, fondandosi sull’id quod plerumque accidit, e non precludendo quindi la possibilità di fare riferimento, secondo le regole generali, ad altri parametri di ordine presuntivo, idonei ad illuminare il giudice circa la veridicità della vicenda allegata (cfr. Cass., Sez. VI, 31/07/2019, n. 20580): nel censurare la predetta valutazione, il ricorrente omette tuttavia d’indicare gli elementi indiziari eventualmente trascurati dal decreto impugnato, limitandosi ad insistere sul carattere circostanziato delle proprie dichiarazioni, il quale non può considerarsi di per sè sufficiente a garantire la credibilità dei fatti narrati, soprattutto quando, come nella specie, siano proprio alcuni dei dettagli riferiti ad apparire illogici o inverosimili.

3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 14 e 17 sostenendo che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, diversamente da quanto accade per lo status di rifugiato, non si richiede una valutazione positiva in ordine alla sussistenza degli elementi previsti dagli artt. 3-6 del medesimo decreto, ma solo la verifica della concordanza degli elementi portati a conoscenza del giudicante con quelli prescritti dalla legge.

3. Il motivo è infondato.

Non può infatti condividersi la tesi sostenuta dalla difesa del ricorrente, secondo cui il grado di certezza dei fatti allegati richiesto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 17 ai fini dell’accoglimento della domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria risulterebbe inferiore a quello prescritto dall’art. 11 per il riconoscimento dello status di rifugiato: la lettera delle due disposizioni si differenzia soltanto per l’ottica in cui è formulata, avendo la prima riguardo alla valutazione da compiersi per l’applicazione della misura di protezione, e la seconda ai requisiti a tal fine prescritti; sotto il profilo oggettivo, le due norme non presentano tuttavia differenze sostanziali, richiamando entrambe i criteri di valutazione stabiliti dagli artt. 3-6 del D.Lgs. ed i presupposti oggettivi necessario per l’applicazione di ciascuna misura, nonchè le cause di cessazione ed esclusione per le stesse previste. Il comune rinvio all’art. 3 conferma d’altronde l’identità del tipo di valutazione richiesto, che non può certamente ridursi ad una mera constatazione della riconducibilità dei fatti narrati alle fattispecie delineate dall’art. 14, svincolata da qualsiasi verifica in ordine alla loro veridicità, risultando altrimenti frustrate le finalità perseguite dalla disciplina in esame, che consistono nell’assicurare protezione allo straniero che dimostri di essere effettivamente esposto al rischio di gravi violazioni o limitazioni dei propri diritti fondamentali.

4. Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia la violazione e/o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), rilevando che, nell’escludere la sussistenza di una situazione di violenza generalizzata nel suo Paese di origine, il decreto impugnato non ha tenuto conto delle informazioni risultanti da fonti accreditate, attestanti l’uccisione di decine di civili da parte sia dei militari che degli estremisti appartenenti al gruppo terroristico Boko Haram.

4. Il motivo è infondato.

L’esclusione della configurabilità della fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), è stata infatti giustificata dal Tribunale attraverso il richiamo alle informazioni desunte da fonti internazionali accreditate ed aggiornate, dalle quali è emerso che il conflitto armato tuttora in atto in Nigeria è circoscritto alle regioni nordoccidentali del Paese, interessate dalla persistente attività del gruppo terroristico islamico denominato Boko Haram, e non si estende all’area di provenienza del ricorrente. Tale ragionamento trova conforto nel principio più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, ove la situazione di rischio denunciata dal richiedente abbia una portata territorialmente circoscritta, l’applicazione della misura di protezione non può essere negata per il solo fatto che il richiedente possa trasferirsi in altra zona del Paese d’origine, ove non abbia fondati motivi di temere di essere perseguitato o non corra rischi effettivi di subire danni gravi, mentre non vale il contrario, sicchè il richiedente non può accedere alla protezione, se proveniente da una regione o area interna del Paese d’origine sicura, per il solo fatto che vi siano nello stesso Paese anche altre regioni o aree invece insicure (cfr. Cass., Sez. I, 10/07/2019, n. 18540; 15/05/2019, n. 13088). La valutazione in ordine alla sussistenza dell’allegata situazione di violenza generalizzata, puntualmente motivata dal Tribunale mediante l’indicazione delle fonti richiamate, costituisce poi un apprezzamento di fatto, censurabile in sede di legittimità soltanto per omesso esame di un fatto decisivo che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti (cfr. Cass., Sez. VI, 12/12/2018, n. 32064; Cass., Sez. I, 21/11/2018, n. 30105), nella specie neppure dedotto dal ricorrente, il quale si è limitato a far valere informazioni desunte da altre fonti, sostanzialmente prospettando un nuovo esame degli elementi istruttori, non consentito in sede di legittimità (cfr. Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053; Cass., Sez. lav., 9/07/2015, n. 14324; Cass., Sez. VI, 10/02/2015, n. 2498).

5. Con il quinto motivo, il ricorrente deduce l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, censurando il decreto impugnato per aver rigettato la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, senza tener conto della situazione di pericolo cui egli resterebbe esposto in caso di rimpatrio, a causa delle minacce ricevute da parte dello zio, delle violenze subìte ad opera degli amici del cugino e delle gravi violazioni dei diritti umani derivanti dalla situazione d’instabilità in atto, nonchè del suo inserimento sociale e lavorativo nel territorio italiano, comprovato dal possesso di un domicilio stabile e dallo svolgimento di attività lavorativa.

5.1. Il motivo è infondato.

La domanda di riconoscimento della protezione umanitaria è stata correttamente rigettata dal Tribunale in virtù della ritenuta insussistenza di una condizione di vulnerabilità personale del ricorrente, la quale, trovando conferma nel rigetto delle censure concernenti l’inattendibilità della vicenda personale allegata a sostegno della domanda e l’esclusione di una situazione di violenza indiscriminata nella zona di origine, fa apparire giustificata anche l’affermazione dell’irrilevanza dell’inserimento del ricorrente nel tessuto sociale e lavorativo del nostro Paese. In tema di protezione umanitaria, questa Corte ha infatti ribadito costantemente l’insufficienza di un apprezzamento fondato esclusivamente sulla vita privata e familiare del richiedente in Italia, evidenziando la necessità di una valutazione comparativa che tenga conto della situazione soggettiva ed oggettiva in cui egli ha vissuto prima di allontanarsi dal luogo di origine ed alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio, poichè, in caso contrario, si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, (cfr. Cass., Sez. Un., 13/11/2019, n. 29459; Cass., Sez. VI, 3/04/2019, n. 9304; Cass., Sez. I, 23/02/2018, n. 4455).

6. Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 5 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2020

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