Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9812 del 26/05/2020

Cassazione civile sez. I, 26/05/2020, (ud. 04/11/2019, dep. 26/05/2020), n.9812

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 33326/2018 proposto da:

O.R., elettivamente domiciliato in Roma V.le Angelico 38

presso lo studio dell’avvocato Maiorana Roberto che lo rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno in persona del Ministro pro tempore

elettivamente domiciliato in Roma Via Dei Portoghesi 12 presso gli

uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato che lo rappresenta e

difende;

– controricorrente –

e contro

Commissione Territoriale Riconoscimento Protezione Internazionale

Firenze Sezione Perugia;

– intimato –

avverso la sentenza n. 320/2018 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 10/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

04/11/2019 da RUSSO RITA.

Fatto

RILEVATO

CHE:

1.- O.R. ha chiesto la protezione internazionale narrando di essere fuggito dalla (OMISSIS) a seguito di una rissa e dopo aver ricevuto minacce di morte. La Commissione territoriale nega la protezione internazionale e il Tribunale rigetta il ricorso del richiedente avverso il predetto provvedimento. Ricorre in appello O. e la Corte territoriale respinge l’impugnazione, ritenendo non sussistenti gli estremi della persecuzione, nè il rischio di danno grave da parte di agenti privati da cui lo Stato non può o non vuole proteggere il cittadino, rilevando che la parte non deduce di avere chiesto aiuto all’autorità statale.

2.- Propone ricorso per cassazione il richiedente affidandosi a cinque motivi. Il Ministero presenta controricorso.

Diritto

RITENUTO

CHE:

3.- Con il primo motivo di ricorso si deduce l’omessa motivazione, per non avere la Corte esposto nella sentenza i motivi di appello e pertanto mancherebbe la esposizione dei fatti di causa e dei motivi della decisione.

Il motivo è infondato. Nella sentenza impugnata i fatti di causa sono esposti e le questioni rilevanti sono esaminate, sia pure succintamente, data la decisione ex art. 281 sexies, che richiede una esposizione concisa della ragioni di fatto e diritto della decisione.

Con il secondo motivo di ricorso si lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo e cioè le condizioni di pericolosità della (OMISSIS) e la violenza generalizzata ivi esistente.

Il motivo è inammissibile per diverse di ragioni. In primo luogo la censura è estraneamente generica: in ricorso non si specifica neppure da quale parte della Nigeria proviene il richiedente il che è indispensabile per capire se si tratta di uno Stato veramente interessato da conflitto e violenza. In ricorso non si trascrive nè riassumono le dichiarazioni del richiedente durante il colloquio con la Commissione e non può quindi verificarsi se egli oltre a raccontare della rissa cui ha partecipato abbia allegato elementi utili a valutare il rischio del danno da violenza indiscriminata. Le argomentazioni sulla instabilità e pericolosità della (OMISSIS), genericamente indicata, sono stereotipate e non pertinenti alla storia come riassunta e valutata dal giudice di merito. Inoltre, la domanda del ricorrente è stata già respinta in primo grado e quindi si verte in un ipotesi di “doppia conforme” prevista dall’art. 348 ter c.p.c., comma 5. Di conseguenza, come da giurisprudenza costante di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità, il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 10897/2018 Cass. n. 26774/2016; Cass. n. 5528/2014). Il ricorrente non ha riportato le ragioni poste a base della decisione di primo grado.

Con il terzo motivo si lamenta l’omesso esame delle dichiarazioni del ricorrente nella parte in cui ha allegato la incapacità della autorità del suo paese di prestargli protezione.

Il motivo è infondato.

Il richiedente narra di essere fuggito per aver partecipato ad una rissa, che in seguito a ciò è stato minacciato di morte e che per questo aveva paura di essere ucciso. La Corte di merito esclude il rischio da mancata protezione dal danno che può essere causato da agenti privati, dal momento che la parte non ha specificato di essersi rivolto alla autorità giudiziaria e per quale motivo l’autorità sarebbe rimasta inerte. Così facendo il giudice d’appello ha correttamente interpretato e applicato il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b) in relazione all’art. 3 dello stesso D.Lgs..

Il timore di essere vittima di ritorsioni private senza che le autorità siano in grado di proteggere la persona – presupposto per la protezione sussidiaria ai sensi dell’art. 14, lett. b) – è un rischio che deve essere valutato in concreto, su base individuale, e non in astratto. Ogni sistema di pubblica sicurezza ha i suoi margini di fallibilità, più o meno ampi, e in molti paesi (non solo extraeuropei) si registra un tasso di corruzione o inerzia delle forze di polizia, che tuttavia, salvo che lo Stato non sia completamente assente – e non è questa la allegazione del richiedente asilo – deve essere verificato in relazione alla concreta situazione di rischio prospettata (Cass. 29057/2019). La parte quindi non può allegare il semplice timore (o come espone in ricorso “la lucida consapevolezza”) che le autorità sono incapaci di intervento e protezione, ma deve specificare come, nel caso concreto, lo Stato abbia negato la protezione o sia rimasto inerte: e quindi specificare se ha denunciato, o comunque ha chiesto l’intervento della autorità, con quali modalità, e quale è stata la risposta, oppure per quale ragione gli è stato impedito anche il ricorso alla autorità dello Stato. Nulla di tutto ciò risulta, nè in ricorso di espongono ulteriori dettagli. Il dovere di cooperazione inoltre presuppone che il richiedente abbia fatto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e la mera esposizione del timore di non essere protetto “di fronte a qualunque problema possa presentarsi” come si deduce in ricorso è una allegazione estremamente generica.

Con il quarto motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 per la mancata “concessione” (recte: riconoscimento) della protezione sussidiaria e l’omessa considerazione condizioni della (OMISSIS). Si lamenta che la Corte abbia omesso la valutazione della situazione della (OMISSIS) e non citato alcuna fonte informativa.

Il motivo è inammissibile per le stesse ragioni esposte nell’esame del secondo motivo. Non si deduce un rischio specifico nè una localizzazione, nulla si dice in ordine al rilievo della Corte di merito e cioè che non può valutarsi il rischio da mancata protezione se la parte non specifica se si è rivolto alle autorità e quale è stata la risposta e non si offrono informazioni sul paese di origine pertinenti al caso di specie. Si deve inoltre ricordare che nell’esercitare i suoi poteri officiosi, il giudice non può introdurre nel thema decidendum un fatto nuovo o diverso da quello allegato dal ricorrente, ma deve attenersi al racconto reso da quest’ultimo, (ex multis: Cass. n. 5973/2019 Cass. 29056/2019; Cass. n. 28424/2018), salvo in ogni caso il potere del giudice di qualificare diversamente la misura di protezione appropriata al rischio in concreto prospettato dalla parte (Cass. 7333/2015). Il compito del giudice si definisce, pertanto, nell’integrare “il giudizio di veridicità delle dichiarazioni del richiedente con l’assunzione delle informazioni relative alla condizione generale del Paese” (cfr. Cass. n. 16202/2012; Cass. n. 10202/2011), mentre di contro il potere-dovere di cooperazione istruttoria non sorge in presenza di dichiarazioni intrinsecamente inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva contenuti nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 (cfr. Cass. n. 7333/2015).

Con il quinto motivo si lamenta la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, il mancato riconoscimento della protezione umanitaria. Anche questo motivo è inammissibile per genericità perchè le censure sono stereotipate e generiche e non si riferiscono alla condizione individuale del soggetto e alla sua storia personale come sopra esaminata e valutata dalla Corte di merito.

Il ricorso è pertanto da rigettare, con la conseguente condanna alle spese del giudizio di legittimità in favore del Ministero controricorrente. Il richiedente è ammesso al patrocinio a spese dello Stato e pertanto non è tenuto è tenuto al versamento del contributo unificato, stante la prenotazione a debito prevista dal combinato disposto di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 11 e 131 e, di conseguenza, neppure dell’ulteriore importo di cui all’art. 13, comma 1 – quater, del decreto citato (cfr. Cass. 7368/2017; n. 32319 del 2018), se ed in quanto l’ammissione non risulti revocata.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso, in favore del Ministero controricorrente, delle spese sostenute per il presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.100,00 per compenso, oltre alle spese prenotate a debito. Non ricorrono i presupposti per l’applicazione del doppio contributo di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, se ed in quanto l’ammissione non risulti revocata.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 4 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2020

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