Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9802 del 26/05/2020

Cassazione civile sez. lav., 26/05/2020, (ud. 05/12/2019, dep. 26/05/2020), n.9802

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. RAIMONDI Guido – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20155-2017 proposto da:

B.P., B.L., S.T., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA OTRANTO 36, presso lo studio dell’avvocato

MARIO MASSANO, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato

ENRICO CORNELIO;

– ricorrenti –

contro

RETE FERROVIARIA ITALIANA S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA ANTONIO GRAMSCI 9, presso lo studio dell’avvocato

ARCANGELO GUZZO, rappresentata e difesa dall’avvocato MARCO

CAPPELLETTO;

– controricorrente –

e contro

N.G., NA.GI.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 36/2017 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 21/02/2017, R.G.N. 378/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/12/2019 dal Consigliere Dott. VALERIA PICCONE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE ALBERTO, che ha concluso per il rigetto del 1 motivo,

l’accoglimento degli altri; udito l’Avvocato ENRICO CORNELIO;

udito l’Avvocato ARCANGELO GUZZO per delega verbale avvocato MARCO

CAPPELLETTO.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1.Con sentenza n. 378 del 26 gennaio 2017, la Corte d’appello di Venezia, Sezione Lavoro, in accoglimento dell’appello proposto da Rete Ferroviaria Italiana S.p.A. nei confronti di B.P., S.T. e M.M., ha ritenuto l’intervenuta prescrizione decennale del diritto, riconosciuto in primo grado, al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale spettante al dante causa degli appellati, F., per effetto della malattia professionale occorsagli a cagione del mesotelioma sviluppato per l’esposizione all’amianto nei numerosi anni di attività svolta quale macchinista alle dipendenze delle Ferrovie dello Stato.

In particolare, il giudice di secondo grado, nel reputare fondate le censure della società appellante, ha ritenuto l’erronea applicazione da parte del Tribunale dei principi attinenti all’exordium praescriptionis, con specifico riguardo all’epoca in cui l’origine professionale della malattia poteva ritenersi conoscibile oggettivamente da parte del lavoratore e, quindi, degli eredi.

2.Per la cassazione della sentenza propongono ricorso B.P., S.B.T. e B.L., affidandolo a quattro motivi.

Resiste, con controricorso, Rete Ferroviaria Italiana S.p.A..

3. Entrambe le parti hanno presentato memorie.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art. 2909 in relazione all’art. 2935 c.c. per violazione di un giudicato parziale tra le parti che faceva decorrere l’exordium praescriptionis del diritto vantato non prima dell’inizio degli anni ‘90; con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2935 c.c. deducendosi la violazione dei principi di allegazione e prova dell’exordium praescriptionis; con il terzo motivo si deduce la nullità della sentenza per “motivazione apparente” ovvero violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 in ordine alla ritenuta esistenza di fonti di consapevolezza della sussistenza del credito asseritamente prescritto; con il quarto motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 41 c.p. e art. 61 c.p.c. per essere stata ritenuta la insussistenza del nesso eziologico.

1.1. Va premessa l’infondatezza del primo motivo di ricorso là dove deduce una violazione del giudicato parziale inerente la decorrenza della prescrizione, accertata, nella causa connessa e trattata in sede civile per l’ipotesi di domanda avanzata dagli eredi iure proprio, come riconducibile a data posteriore al 1992 atteso che, contrariamente a quanto asserito da parte ricorrente, anche nella decisione n. 378/2014 di cui si discute, l’epoca di insorgenza risulta individuata nel medesimo lasso temporale.

Con riguardo al terzo motivo, poi, non può parlarsi di motivazione apparente, considerato che, per consolidata giurisprudenza di legittimità (cfr., sul punto, Cass., n. 13977 del 23/05/2019), ricorre il vizio di motivazione apparente della sentenza, denunziabile in cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, soltanto quando essa, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche, congetture.

Nel caso di specie il Collegio reputa la decisione ampiamente motivata ed argomentata.

1.2. Relativamente alla dedotta violazione dell’art. 2697 c.c., va rilevato che in tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni, (cfr., ex plurimis, sul punto, Cass. 23/10/2018 n. 26769).

1.3. Per quanto concerne, poi, la censura relativa al difetto di motivazione, va rilevato che, in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 comma 1, lett. b), convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134 che ha limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte – formatasi in materia di ricorso straordinario – in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità (fra le più recenti, Cass. n. 23940 del 2017).

D’altro canto, per costante giurisprudenza di legittimità, (cfr., fra le più recenti, Cass. n. 20335 del 2017, con particolare riguardo alla duplice prospettazione del difetto di motivazione e della violazione di legge) il vizio relativo all’incongruità della motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, comporta un giudizio sulla ricostruzione del fatto giuridicamente rilevante e sussiste solo quando il percorso argomentativo adottato nella sentenza di merito presenti lacune ed incoerenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione, o comunque, qualora si addebiti alla ricostruzione di essere stata effettuata in un sistema la cui incongruità emerge appunto dall’insufficiente, contraddittoria o omessa motivazione della sentenza.

Attiene, invece, alla violazione di legge la deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente una attività interpretativa della stessa: nel caso di specie, pur avendo la parte ricorrente fatto valere una violazione di legge, in realtà mira ad ottenere una rivisitazione del fatto inammissibile in sede di legittimità chiedendo una diversa valutazione delle risultanze istruttorie che avrebbe condotto a sua detta a ritenere provato il danno subito, escluso, invece, dal giudice di secondo grado anche in ordine alla mera allegazione di elementi di fatto a sostegno di quanto asserito.

1.4. Passando ad esaminare il secondo motivo nella parte in cui denunzia la violazione dell’art. 2935 c.c. deve escludersi, ad avviso del Collegio, sulla base della argomentata motivazione della decisione di secondo grado che si sia verificato un vizio di sussunzione della fattispecie nella disposizione in esame, secondo l’interpretazione offertane dalla consolidata giurisprudenza di legittimità.

Secondo il Collegio, nel dichiarare prescritto il diritto azionato, la Corte territoriale si è, infatti, attenuta correttamente al principio, più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità in tema di risarcimento del danno cagionato dall’inosservanza da parte del datore di lavoro dei doveri di protezione delle condizioni di lavoro posti a suo carico dall’art. 2087 c.c., secondo cui la prescrizione decennale, operante nel caso in cui sia stata esercitata l’azione contrattuale, decorre dal momento in cui il lavoratore ha potuto acquisire la piena consapevolezza non solo della malattia, con un danno alla salute apprezzabile, ma anche dell’origine professionale della stessa, indipendentemente da valutazioni meramente soggettive a lui ascrivibili (cfr. Cass., Sez. lav., 31/05/2010, n. 13284; 11/09/2007, n. 19022; 29/05/1997, n. 4774).

Sul rilevante punto dell’exordium praescriptionis, la Corte si sofferma molto nel dar conto della congruità della motivazione di primo grado, secondo cui, già negli anni 60/’70, era ben nota, a livello scientifico, la pericolosità ed anzi, dal 1970, vi era stata conferma scientifica del nesso causale tra esposizione ad amianto – anche di bassa intensità – e patologia tumorale.

In particolare, la Corte, richiamando quanto osservato dal CTU in primo grado, ha sottolineato che, secondo quanto riferito dall’esperto, già nel periodo compreso tra il 1935 e il 1972, le conoscenze sulla pericolosità dell’amianto erano ben note in relazione all’asbestosi e al cancro del polmone, specificando, altresì, che, con riguardo al mesotelioma, nel 1960 si era realizzata la conoscenza generica del ruolo cancerogeno dell’asbesto, mentre, nel 1970, si confermava il suo ruolo cancerogeno anche a basse esposizioni.

Ha aggiunto la Corte a tali osservazioni, che specifiche norme per il trattamento di materiali contenenti amianto erano state introdotte per la prima volta con il D.P.R. n. 15 del 1982 e che la produzione e lavorazione dell’amianto era stata vietata dalla L. n. 257 del 1992; d’altro canto, gli stessi ricorrenti avevano dato atto a pag. 10 del ricorso, osserva la Corte territoriale) del fatto che la malattia era stata “tabellata” nel 1994, talchè, a quell’epoca doveva ritenersi di dominio pubblico la conoscenza del nesso eziologico tra esposizione lavorativa all’amianto e mesotelioma.

In quanto imperniato sull’idoneità dei predetti elementi ad evidenziare una conoscibilità non meramente soggettiva, ma fondata sul possesso di competenze professionali adeguate al livello raggiunto dalla ricerca scientifica e dall’esperienza clinica in materia di danni da esposizione all’amianto, il predetto ragionamento resiste, ad avviso del Collegio, alle critiche mosse dalla difesa dei ricorrenti, la quale, nell’insistere sulla necessità di ancorare la decorrenza della prescrizione alla possibilità di ricondurre la patologia ad un evento specifico idoneo a far sorgere il diritto al risarcimento, oscilla tra il riferimento al grado di consapevolezza raggiungibile dalla vittima, come si è detto non rilevante, e quello all’epoca acquisito a livello scientifico, il cui intrinseco difetto di assolutezza non consente di escluderne la ragionevole sicurezza (cfr., sul punto, Cass. 2 ottobre 2019, n. 2486).

Osserva il Collegio che, in sede nomofilattica, è stato precisato che, ai fini della prova della conoscibilità dell’eziologia professionale, pur richiedendosi qualcosa in più della semplice manifestazione della patologia, occorre pur sempre restare in un ambito di oggettività scientifica, nel senso che la conoscibilità da un lato va intesa in senso diverso dalla conoscenza vera e propria, dall’altro postula la possibilità che un determinato elemento (l’origine professionale della malattia) sia riconoscibile in base alle conoscenze scientifiche del momento, restando invece irrilevante, pena lo sconfinamento nel campo della pura soggettività, il grado di conoscenze e di cultura del soggetto interessato dalla malattia (cfr. Cass., n. 2486 del 2/10/2019, cit.; Cass., 19355 del 18/09/2007).

Secondo il Collegio ha, quindi, correttamente ritenuto la Corte che, almeno dall’entrata in vigore della L. 27 marzo 1992, n. 257, significativamente intitolata “Norme relative alla cessazione dell’impiego” ovvero da quando, nel 1994 la malattia professionale è stata “tabellata”, l’oggettiva diligenza avrebbe imposto di percepire la malattia come conseguenza del comportamento del datore di lavoro che aveva esposto il dipendente all’inalazione di polveri così pericolose da esserne vietata la lavorazione.

Orbene, ritiene il Collegio tale impostazione decisoria conforme alla giurisprudenza di legittimità, (fra le più recenti, Cass. 06/02/2018, n. 2842) che da rilievo, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 206 del 1988 (dichiarativa della illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 135, comma 2, nella parte in cui pone una presunzione assoluta di verificazione della malattia professionale nel giorno in cui è presentata all’istituto assicuratore la denuncia con il certificato medico), come “dies a quo” per la decorrenza del termine triennale di prescrizione dell’azione per conseguire dall’INAIL la rendita per inabilità permanente al momento in cui l’interessato abbia avuto consapevolezza dell’esistenza della malattia, della sua origine professionale e del suo grado indennizzabile, da intendersi, tuttavia, in termini non strettamente soggettivi. (fra le altre, Cass. sent. 5090/2001, 4181/2003).

Quanto, d’altronde, alla “manifestazione” della malattia, il Collegio evidenzia che la Corte ha di frequente rilevato (cfr., sul punto, Cass. n. 11790 del 2003, Cass. n. 8249 a del 2011, Cass. n. 14281 del 2011) che essa è la forma oggettiva che assume il fatto, nel suo essere manifesto, e che consente allo stesso di essere conosciuto; si estrinseca, in sostanza, nell’oggettiva possibilità che il fatto sia conosciuto dal soggetto interessato e, cioè, la sua “conoscibilità”; tale conoscibilità coinvolge l’esistenza della malattia, ed i suoi caratteri di professionalità ed indennizzabilità; la conoscibilità, quindi, deve distinguersi dalla conoscenza ed altro non è che la possibilità che un determinato elemento (nella specie, l’origine professionale della malattia) sia riconoscibile in base alle conoscenze scientifiche del momento, possibilità che esclude anche che sia necessario che l’origine professionale sia già stata conosciuta in sede giudiziaria od amministrativa.

1.4.1. Il Collegio reputa, poi, incensurabile, in sede di legittimità in quanto oggetto di indagine fattuale l’ulteriore passaggio motivazionale nel quale la Corte esclude che la conoscibilità dell’esposizione all’amianto potesse configurarsi soltanto nel 2011 per la mancanza di conoscibilità di essa nell’ambiente di lavoro; secondo il Collegio la Corte, infatti, compie un accertamento di fatto, fondato in primo luogo sulla circostanza che lo stesso de cuius, che svolgeva mansioni di macchinista di elettromotrici ed eseguiva anche lavori di manutenzione, doveva sapere, in base all’ordinaria diligenza, che i pannelli che foderavano le elettromotrici fossero di amianto. Analoga possibilità di conoscenza ritiene il Collegio che la Corte abbia ravvisato nella condizione degli eredi atteso che gli stessi, secondo quanto contenuto nel ricorso introduttivo, avevano descritto analiticamente le mansioni svolte dal loro congiunto e la sua esposizione all’amianto come fonte del diritto risarcitorio vantato senza allegare in alcun passaggio che tale conoscenza si fosse pervenuti soltanto nel 2011.

1.5. Quanto accertato in tema di sussistenza dei presupposti per la prescrizione del diritto azionato esime questa Corte dall’esame dell’ulteriore motivo di doglianza atteso che la decisione deve, comunque, ritenersi superare il vaglio di legittimità.

2. Alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso va respinto.

2.1. Si ravvisa la ricorrenza dei presupposti rationae temporis per la compensazione integrale delle spese relative al giudizio di legittimità ai sensi dell’art. 92 c.p.c.. Sussistono, altresì, i presupposti processuali per il versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1-bis del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso. Compensa integralmente le spese di lite. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2020

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA