Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9802 del 13/05/2015


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Civile Sent. Sez. L Num. 9802 Anno 2015
Presidente: LAMORGESE ANTONIO
Relatore: DORONZO ADRIANA

SENTENZA

sul ricorso 22093-2012 proposto da:
VALENTINO ANTONIO C.F. VLNNTN54D30D2281, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA PANAMA 74, presso lo studio
dell’avvocato GIANNI EMILIO IACOBELLI, che lo
rappresenta e difende, giusta delega in atti;
– ricorrente contro

2015
597

B.N.L.

BANCA

NAZIONALE

LAVORO

S.P.A.

c.f.

09339391006, in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO
25/B, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO PESSI,

Data pubblicazione: 13/05/2015

’ì
t

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato
FRANCESCO GIAMMARIA, giusta delega in atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 6373/2011 della CORTE D’APPELLO
di ROMA, depositata il 04/10/2011 R.G.N. 1120/2009;

udienza del 04/02/2015 dal Consigliere Dott. ADRIANA
DORONZO;
udito l’Avvocato RAFFIO MASSIMO per delega IACOBELLI
GIANNI EMILIO;
udito l’Avvocato SERRANI TIZIANA per delega verbale
PESSI ROBERTO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. ALBERTO CELESTE che ha concluso per
l’accoglimento del ricorso.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

Udienza 4 febbraio 2015
Presidente Lamorgese
Relatore Doronzo
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Valentino c/ Banca Nazionale
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1.

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3.

1.

Svolgimento del processo
Con sentenza depositata in data 4/10/2011, la Corte d’appello di Roma
rigettava l’appello proposto da Antonio Valentino contro la sentenza resa
dal Tribunale della stessa sede, che aveva rigettato la domanda
dell’appellante tesa ad ottenere la declaratoria di nullità o illegittimità del
licenziamento intimatogli in data 21/11/2006 dalla Banca Nazionale del
lavoro s.p.a. (d’ora in poi, Banca), sua datrice di lavoro, con i conseguenti
provvedimenti reintegratori e risarcitori ex art. 18 1. n. 300/1970.
La Corte territoriale, muovendo dalla premessa che i fatti posti a base degli
addebiti – e costituiti da una abnorme movimentazione di conti correnti
intestati al lavoratore o a suoi familiari, e consistente in versamenti ed
emissioni di assegni, addebiti e accrediti per giroconto sui vari conti, e
finalizzata ad un’attività di finanziamento di soggetti economici per lo più
in difficoltà finanziarie — erano stati acclarati, escludeva che fosse stato
violato il principio della immediatezza della contestazione, dal momento
che la scoperta e l’accertamento dei fatti avevano reso necessarie
complesse indagini. Riteneva inoltre che i fatti contestati configurassero
giusta causa di licenziamento, il quale era da ritenersi proporzionato alla
loro gravità. Aggiungeva che il ricorrente nulla aveva osservato in ordine
alle previsioni di cui all’articolo 32 del C.C.N.L. del 2005 in tema di
disciplina e dignità, nonché degli artt. 11 e 12 del codice deontologico e
della circolare n. 40 del 1999 della Banca.
Contro la sentenza, il Valentino ricorre per cassazione sulla base di sei
motivi, cui resiste con controricorso la Banca Nazionale del hvoro. Le
parti depositano memorie ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente censura la sentenza per violazione e
falsa applicazione degli artt. 7 della legge n. 300/1970, 1 e 5 della legge n.
604/1996 e 2119 c.c., 24 Cost., 1375 e 1175 c.c., 115 e 116 c.p.c. e 2697
c.c., nonché dell’art. 1362 e ss. c.c. anche in relazione all’art. 38 del
C.C.N.L. per il personale delle aziende di credito del 12/2/2005, nonché
per la errata valutazione delle risultanze istruttorie e delle prove
documentali. In particolare si duole del giudizio della Corte territoriale in
ordine alla tempestività della contestazione disciplinare, trattandosi di fatti
risalenti al gennaio 2001 e protrattisi fino al giugno del 2006 e dei quali la
Banca era venuta a conoscenza il 16 marzo 2006 (attraverso una
segnalazione della Direzione auditing della Banca, circa l’esistenza
nell’area territoriale Lazio di una serie di conti intestati a personale della
Banca, caratterizzati da movimentazioni anomale); che solo con la lettera
del 22 giugno 2006 era stato disposto uno specifico accertamento sulle
1

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operazioni eseguite da esso ricorrente sui suoi conti correnti; che esso si
era concluso nell’ottobre del 2006, cui era seguita in data 23/10/2006 la
contestazione disciplinare. Secondo il ricorrente, oltre ad essere
inverosimile che l’azienda avesse conosciuto i fatti solo nel marzo 2006,
in ogni caso, il tempo trascorso tra tale data e l’avvio delle indagini (circa
tre mesi) costituiva un ingiustificato ritardo, in violazione dei principi di
correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto di lavoro. Il ritardo
della contestazione disciplinare aveva determinato l’illegittimità della
sanzione irrogata, per la violazione degli art.7 1. n. 300/1970, 1175 e 1375
c.c. Sempre nell’ambito dello stesso motivo, evidenzia che la violazione
delle norme citate emergeva anche dal fatto che la Banca non aveva
ritenuto di adottare nei suoi confronti una misura cautelare, come
l’allontanamento temporaneo dal servizio e per il tempo strettamente
necessario alle indagini.
Con il secondo motivo prospetta gli stessi fatti sotto il profilo del difetto e
illogicità manifesta della motivazione, oltre che per la sua illegittimità,
essendosi la Corte territoriale adeguata alla sentenza di primo grado per
relationem, senza motivare il perché avesse ritenuto necessari sei mesi per
svolgere indagini, laddove si trattava semplicemente di mettere in luce
operazioni su conti correnti inseriti “a sistema”.
Con il terzo motivo denuncia la violazione e la falsa applicazione di tutte
le norme già indicate con il primo mezzo (con esclusione degli artt. 1375,
1175 c.c. e 1362 c.c.), sotto il profilo del mancato assolvimento da parte
della Banca dell’onere di provare che i fatti a lui contestati erano diretti ad
un’attività di finanziamento di soggetti economici estranei alla Banca, dal
momento che tutti testi avevano dichiarato che i prestiti ricevuti e, in
genere, le operazioni fatte con esso ricorrente erano avvenute a titolo di
mera cortesia o amicizia e che non avevano corrisposto alcun
corrispettivo, il che doveva condurre ad escludere l’esistenza di un’attività
di finanziamento.
Con il quarto motivo denuncia il difetto di motivazione sulla sussistenza
del fatto contestato.
Con il quinto motivo denuncia la violazione, oltre che delle norme già in
rassegna nel primo e nel terzo motivo di ricorso, degli artt. 1362 seguenti
c.c., in relazione agli artt. 30,32,35,38, 68 del C.C.N.L. per il personale
delle aziende di credito del 12/2/2005, la violazione dell’art. 2697 c.c. e
degli art. 115 e 116 c.p.c., anche in relazione al d.lgs. n. 196/2003 e al
Testo Unico bancario n. 385/1993, sotto il profilo della insussistenza della
giusta causa, della sproporzione tra i fatti contestati e la misura adottata,
dell’erronea interpretazione delle risultanze probatorie. In particolare, sul
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presupposto che i fatti non costituivano un’attività di finanziamento
illecito, ma si era trattato solo dell’apertura di una pluralità di conti
correnti consentita dalla Banca, la valutazione circa la gravità della
condotta sotto il profilo della giusta causa e la ritenuta proporzione era da
ritenersi del tutto lacunosa, non avendo la Corte territoriale considerato
che: a) egli non era mai stato oggetto di precedenti contestazioni
disciplinari; b) la sua attività non violava disposizioni penali in materia di
riciclaggio, mai a lui contestate; c) la Banca non aveva subito alcun danno
dalla sua condotta, ma, piuttosto, aveva tratto vantaggio dal transito di
danaro sui suoi conti; d) l’attività posta in essere dalla Banca, acquisendo
e utilizzando elementi illecitamente acquisiti, costituiva violazione delle
nonne sul testo unico in materia bancaria nonché in materia di privacy,
essendo state effettuate senza una sua preventiva autorizzazione. Quanto
al codice deontologico e alla circolare della Bnl, che egli non avrebbe
censurato in sede di appello, osserva che tali documenti non gli erano mai
stati comunicati.
Con il sesto motivo denuncia l’omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione sulle stesse questioni sopra illustrate, riguardanti la
mancanza di proporzionalità tra infrazione e sanzione ed il giudizio sulla
gravità dell’inadempimento ascrittogli.
I primi due motivi si esaminano congiuntamente, in ragione della
connessione che li lega.
Va preliminarmente rilevato che il primo motivo, al di là della sua
intestazione contenente censure di violazione di legge, in realtà, nel corpo,
si sostanzia in una contestazione dei risultati cui è pervenuta la Corte
territoriale a seguito della valutazione delle risultanze istruttorie: più
propriamente, esso contiene censure inquadrabili nell’ipotesi di cui al n. 5
dell’art. 360 c.p.c. Se ciò non preclude il suo scrutinio, non impedisce una
sua valutazione in termini di inammissibilità nella parte in cui prospetta le
censure sotto il profilo della violazione e falsa applicazione di legge.
Ed invero tale vizio, ex art. 360, n. 3, c.p.c., deve essere dedotto, a pena di
inammissibilità giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4, c.p.c., non solo
con la indicazione delle nonne assuntivamente violate, ma anche, e
soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti
intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni
in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto
con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione
delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente
impedendo alla Corte regolatrice di adempiere il suo istituzionale compito
di verificare il fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi,
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inidoneamente formulata la deduzione di “errori di diritto” individuati per
mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme
pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di una critica delle
soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni
giuridiche poste dalla controversia, (cfr. Cass., ord. 26 giugno 2013, n.
16038; Cass., 8 marzo 2007, n. 5353; Cass., 19 gennaio 2005, n. 1063;
Cass., 6 aprile 2006, n. 8106).
10.11 ricorrente, nella specie, non indica quali siano le affermazioni della
sentenza in contrasto con le norme indicate o con l’interpretazione che ad
esse ne dà la giurisprudenza o dove risieda l’eventuale vizio da parte del
giudicante di erronea sussunzione della fattispecie concreta in una norma
di legge (Cass., 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass., ord., 26 giugno 2013, n.
16038).
11. Quanto ai vizi motivazionali, diffusamente descritti anche nel secondo
motivo, essi sono infondati. La Corte ha infatti motivato adeguatamente
sul perché ha ritenuto rispettato il principio di immediatezza della
contestazione, in considerazione della natura relativa del detto principio, e
del fatto che, nel caso in esame, il tempo adoperato per l’accertamento dei
fatti contestati non deponeva nel senso di una iniziale volontà datoriale di
proseguire nel rapporto di lavoro e di non considerare l’inadempienza
tanto grave da ledere il vincolo fiduciario. Il riferimento alla decisione del
Tribunale ed alla sua correttezza rende chiaro l’iter logico seguito dal
giudice del gravame, con la conseguenza che non sussiste il dedotto vizio
di motivazione: la motivazione per relationem è infatti ammissibile,
qualora dalla stessa comunque emerga il percorso logico seguito dal
giudice per pervenire al suo convincimento, dovendosi giudicare la sua
completezza e logicità sulla base degli elementi contenuti nell’atto al
quale si opera il rinvio e che, proprio in ragione del rinvio, diviene parte
integrante dell’atto rinviante (Cass., 17 novembre 2010, n. 23231).
12. La Corte territoriale ha puntualmente richiamato i principi in tema di
immediatezza della contestazione, ricordando che essa deve essere intesa
in senso relativo, ossia tenendo conto delle ragioni oggettive che possono
ritardare la percezione o il definitivo accertamento e la valutazione dei
fatti contestati (Cass., 19 giugno 2014, n. 13955; Cass., 17 settembre
2008, n. 23739; Cass., 21 febbraio 2008, n. 4502; Cass., 22 ottobre 2007,
n. 22066; Cass., 6 settembre 2007, n. 18711). La valutazione delle
circostanze di fatto, che in concreto giustificano o meno il ritardo e che
consentono di formulare il suddetto giudizio di relatività, è riservata al
giudice del merito (Cass., 2 febbraio 2009, n. 2580; Cass., 1° luglio 2010,
n. 15649; Cass., 10 settembre 2013, n. 20719; Cass., n. 13955/2014, cit.)
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ed il suo accertamento è insindacabile in cassazione se congruamente
motivato (Cass., 11 maggio 2002, n. 6790; Cass.,8 gennaio 2001, n. 150;
cfr., da ultimo, Cass., 9 aprile 2014, n. 8374).
13. Ora, dalla stessa narrazione dei fatti contenuta nel ricorso per cassazione e
dalla lettera di contestazione degli addebiti, integralmente riportata nel
ricorso in ossequio al principio di autosufficienza, emerge la correttezza
della decisione dei giudici di merito, che hanno evidentemente dato
rilievo alla natura degli accertamenti eseguiti e alla loro complessità, in
quanto riguardavano una pluralità di conti correnti, intestati non solo al
ricorrente ma anche a suoi familiari, e un’abnorme movimentazione degli
stessi, nonché allo stretto intervallo temporale intercorso tra la fine degli
accertamenti, che lo stesso ricorrente colloca l’ottobre del 2006, e la
contestazione, contenuta nella lettera del 23 ottobre 2006.
14. In proposito, entrambe le asserzioni del ricorrente – la prima riguardante
l’inverosimiglianza dell’assunto dalla Banca secondo cui avrebbe avuto
cognizione dei fatti solo a seguito della nota della Direzione auditing del
marzo 2006, e la seconda relativa alla volontà della datrice di lavoro di
soprassedere al procedimento disciplinare, implicitamente manifestata
attraverso la mancata adozione di un provvedimento cautelare – si
risolvono in apprezzamenti meramente soggettivi e privi di decisività,
considerate, per un verso, la mancanza di elementi oggettivi di riscontro
su cui si basa l’apprezzamento dell’inverosimiglianza, e, per altro verso,
la natura normalmente facoltativa della sospensione cautelare, riservata
alla sfera decisionale del datore di lavoro e, quindi, insindacabile. Deve
aggiungersi che di quest’ultima questione non vi è cenno nella sentenza
impugnata, con la conseguenza che la detta questione, in mancanza di
indicazione, da parte del ricorrente, dei termini nonché del tempo e del
luogo in cui essa sarebbe stata proposta nelle fasi di merito, deve ritenersi
inammissibile (Cass., 18 ottobre 2013, n, 23675).
15. Anche il terzo ed il quarto motivo, da esaminarsi congiuntamente in
quanto connessi, sono inammissibili sotto il profilo della violazione di
legge, per le ragioni già esposte, e infondate sotto il profilo del difetto di
motivazione. La Corte ha, infatti, ritenuto provati gli addebiti con un
giudizio del tutto congruo, esaustivo e supportato dalle emergenze
istruttorie (in particolare, la deposizione dell’ispettore Alfieri).
16. In particolare, è rimasto accertato che nel periodo compreso tra il gennaio
2001 e il giugno 2005 il ricorrente, attraverso conti correnti intestati a lui
o cointestati con familiari, ovvero intestati a familiari, con procura
rilasciata in suo favore, e distinti in conti adoperati esclusivamente per
l’emissione di assegni e altri per i soli versamenti, ha movimentato assegni
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per un importo complessivo di E 1.114.943,00 e ha versato assegni per un
importo complessivo di C 1.093.475,00. La movimentazione era
funzionale alla creazione di provviste, necessarie per la copertura di
assegni emessi in favore di soggetti terzi, molti dei quali non clienti della
Banca e con posizioni bancarie “a sofferenza”, conti bloccati, assegni e
cambiali protestate, procedure fallimentari a carico. Nella sentenza si dà
altresì atto che gli stessi testi indicati dal ricorrente hanno dichiarato che
si rivolgevano al Valentino al fine di far fronte a situazioni di scarsa
liquidità, e ciò ad ulteriore conferma che si è trattato di un’attività di
erogazione del credito, svolta al di fuori dei canali istituzionali bancari.
17. Ora, rispetto a siffatta attività di finanziamento, è del tutto irrilevante
l’accertamento dell’utile che il soggetto avrebbe in ipotesi conseguito, e
ciò per due considerazioni: in primo luogo perché il nostro ordinamento
prevede anche il contratto di mutuo gratuito (arg. ex art. 1816 c.c.), sì che
l’attività di finanziamento non è esclusa dalla mancata pattuizione di
interessi in favore del mutuante; in secondo luogo, perché il mancato
conseguimento di un utile economico da parte del lavoratore non esclude
che la sua condotta, per la sua oggettiva gravità, sia tale da scuotere la
fiducia del datore di lavoro, giacche può assumere rilevanza disciplinare
anche una condotta che, seppure compiuta al di fuori della prestazione
lavorativa, sia idonea, per le modalità concrete con cui essa si manifesta,
ad arrecare un pregiudizio, anche potenziale e non necessariamente di
ordine economico, agli scopi aziendali (cfr. Cass., 18 settembre 2012, n.
15654).
18. Ne consegue l’irrilevanza delle ragioni (di mera cortesia o amicizia) che
hanno indotto il Valentino alla condotta ascritta, così come irrilevante è
ogni valutazione in ordine alla dolo o alla colpa ( “superficialità”, come
accenna la sentenza), giacché ciò che viene contestato al lavoratore non è
l’aver tratto profitto da un’attività in concorrenza con la datrice di lavoro,
ma quello di aver erogato danaro, attraverso la fornitura di provvista in
cambio di assegni, da lui poi messi all’incasso, in violazione dell’art. 32
del C.C.N.L. del 2005, che impone ai dipendenti degli istituti di credito
disciplina, dignità e moralità. Tutto ciò non senza trascurare che l’attività
creditizia non è libera, ma è soggetta ai pubblici poteri di controllo e
repressione da parte dell’Amministrazione, tramite la Banca d’Italia, e che
l’abusivismo bancario costituisce reato ex art. 131 (v. Cass., pen., 9 marzo
2007, n. 10189, secondo cui, ai fini della configurabilità del reato di cui
all’art. 132 del T.U. bancario emanato con D.Lgs. 1 settembre 1993 n.
385, è qualificabile come abusivo esercizio di un’ attività finanziaria
anche la condotta posta in essere da un soggetto il quale abitualmente
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eroghi ad un numero indeterminato di persone, nella specie, clienti di un
supermercato gestito dalla moglie, somme di danaro a fronte della
cessione di assegni e cambiali).
19. Il quinto motivo è improcedibile nella parte in cui fa riferimento alle
norme del C.C.N.L., senza che il ricorrere ne abbia trascritto il testo, lo
abbia depositato unitamente al ricorso o ne abbia indicato la precisa
allocazione nei fascicoli di ufficio o di parte delle precedenti fasi del
giudizio, secondo quanto dispone l’art. 369 c.p.c., comma 2°, n. 4, così
violando il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito
dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. Un., 3 novembre 20011,
n. 22726, e, da ultimo, Cass., 7 luglio 2014, n. 15437).
20. Il motivo si presenta altresì inammissibile nella parte in cui denuncia la
violazione di un intero corpo di norme (d.lgs., n. 196/2003 e del d.lgs. n.
385/1993), senza individuare l’affermazione della Corte territoriale in
contrasto con le stesse, così da precludere al Collegio di capire quale sia
la norma che si assume violata o falsamente applicata (Cass., Sez. Un., 18
luglio 2013, n. 17555). Del pari, è inammissibile la censura relativa alla
violazione delle norme a tutela della privacy, trattandosi di questione
nuova, che pertanto non può essere esaminata in questa sede in mancanza
di ogni riferimento della stessa nella sentenza impugnata.
21. Infine, il sesto motivo è infondato. La valutazione della gravità degli
addebiti e della loro idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento si
risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, il quale
per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento,
tale da comportare una grave negazione degli elementi essenziali del
rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, deve valutare da
un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata
oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati
commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la
proporzionalità fra i fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione
dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di
lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione
disciplinare, definitivamente espulsiva (cfr. ex plurimis Cass. 4 giugno
2002 n. 8107).
22. La Corte territoriale ha valutato compiutamente la condotta del ricorrente,
nei suoi aspetti oggettivi e soggettivi, sottolineando che la qualità del
soggetto, quale dipendente di un istituto di credito, impone una
valutazione degli obblighi di diligenza e di fedeltà secondo criteri più
rigorosi (Cass., 27 gennaio 2004, n. 1475; Cass., 25 maggio 2012, n.
8293), così facendosi interprete di una corretta valorizzazione di fattori
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sociali, in ragione delle mansioni svolte dal lavoratore e del tipo di
condotta addebitatagli.
23. In definitiva, il ricorso deve essere rigettato, con la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano
come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese del presente giudizio, che liquida in € 100,00 per esborsi e €
3.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali e oneri accessori
di legge.
Così deciso in Roma, 4 febbraio 2015
Presidente

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