Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9799 del 09/04/2019

Cassazione civile sez. III, 09/04/2019, (ud. 27/11/2018, dep. 09/04/2019), n.9799

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18627-2016 proposto da:

F.M.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VICOLO

ORBITEILI 31, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO ZENO

ZENCCVICH, che lo rappresenta e difende giusta procura speciale a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

P.R., D.S.D.H. E S.G.;

– intimate –

Nonchè da:

D.S.D.H. E S.G., elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA FEDERICO CONFALONIERI 5, presso lo studio

dell’avvocato LUIGI MANZI, che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato LORENZO PICOTTI giusta procura speciale in calce al

controricorso e ricorso incidentale;

– ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 628/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 29/01/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

27/11/2018 dal Consigliere Dott. FRANCESCA FIECCONI.

Fatto

RILEVATO

che:

1. Con ricorso notificato il 22 luglio 2016 F.M.R. impugna per cassazione la sentenza della Corte d’appello di Roma, sezione civile, numero 628-2016, pubblicata il 29 gennaio 2016 che si è pronunciata nei suoi confronti e nei confronti del suo legale D.S.G. D.H. e S., condannandole solidalmente a risarcimento conseguente allo illecito di diffamazione di cui all’art. 531 c.p. in relazione al quale, nel giudizio penale, a fronte della dichiarazione di prescrizione del reato, la Corte di cassazione ha rinviato il procedimento alla Corte d’appello civile ex art. 622 c.p.p. per la prosecuzione del giudizio relativo alla responsabilità inerente alle conseguenze civili subite dalla parte lesa, costituitasi parte civile. Il ricorso contiene quattro motivi. Con ricorso incidentale notificato il 9 luglio 2016 il legale della ricorrente, coinvolto nel procedimento penale, propone ricorso incidentale autonomo affidato a otto motivi.

2. La vicenda trae origine da un procedimento penale per diffamazione avviato nei confronti delle due ricorrenti su denuncia di P.R. che, quale magistrato cui era stata assegnata la controversia di separazione personale dei coniugi coinvolgente la ricorrente, nel 1998 era stata destinataria di un esposto, sottoscritto dalla legale della ricorrente (diversa da quella che aveva patrocinato la causa di separazione), inviato al CSM per fatti disciplinari correlati alla gestione del procedimento di separazione, ove tra i motivi di maggiore contesa vi era l’affidamento della casa familiare provvisoriamente assegnata al coniuge non affidatario del figlio minore con provvedimento interinale del presidente che non era stato modificato dal giudice designato per la trattazione della controversia. L’esposto della ricorrente era stato successivamente archiviato dal CSM, e pertanto il magistrato destinatario dell’esposto aveva denunciato sia la ricorrente che il legale che lo aveva redatto per diffamazione, costituendosi parte civile nel giudizio penale. Il giudizio si era concluso in primo grado innanzi al tribunale di Roma che riteneva la ricorrente colpevole del reato e la condannava risarcimento dei danni alla parte civile da liquidarsi in separata sede; nei riguardi della legale firmataria dell’esposto veniva pronunciata sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto, sull’assunto che non vi fosse prova che la legale avesse svolto attività di consulenza nella fase di redazione dell’esposto. Avviato il giudizio di impugnazione dalla Procura Generale, dalla parte civile e dalla ricorrente F., la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 5 giugno 2007, accoglieva l’appello di quest’ultima e la assolveva perchè il fatto non costituisce reato, mantenendo ferma la sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto nei confronti della procuratrice legale.

3. Impugnata dal PG e dalla parte civile la sentenza assolutoria della Corte d’appello, la Corte di cassazione, sezione penale, con sentenza numero 39.220-2008 del 20/10/2008, annullava la decisione della Corte d’appello ritenendo che non sussistessero le condizioni per la piena assoluzione delle due imputate, e a tali ristretti ceti fini dichiarava prescritto il reato di diffamazione nei confronti di entrambi gli imputati; annullava quindi la sentenza quanto agli effetti civili, rinviando la questione relativa al risarcimento danni al giudice civile competente in grado di appello ex art. 622 c.p.p..

4. La Corte d’appello adita, nella pronuncia qui impugnata, sulla scorta di quanto già ritenuto dalla Corte di cassazione, assumeva che 1) il magistrato non avesse omesso di provvedere ma aveva espresso il suo giudizio su ogni domanda, e che pertanto l’addebito di omissione di atti del proprio ufficio non fosse supportato da puntuali riferimenti ad atti o fatti processuali specifici; 2) l’atteggiamento di asserita parzialità del giudice nella differenziata considerazione delle missive ricevute dalle parti al di fuori del contraddittorio fosse giustificato dal fatto che la ricorrente, nelle missive inviate al magistrato, aveva espresso un contenuto di critica all’operato del magistrato, definito essere “indifferente all’esproprio di natura affettiva, professionale ed economica”, non ravvisabile invece in quelle inviate dalla controparte; 3) che non poteva ritenersi sussistente la cosiddetta “ragionevole verità putativa”, quale esimente per il comportamento illecito di diffamazione, poichè entrambe le parti – parte denunciante e suo difensore – erano nella possibilità di accedere agli atti processuali e di conoscere il tenore delle decisioni assunte nel corso del procedimento; 4) che il carattere gratuito delle informazioni racchiuse nell’esposto non poteva quindi giustificarsi in ragione di un interesse pubblico; 5) che, quanto all’eccezione di novum della legale, la Corte d’appello riteneva che la Corte di cassazione, accogliendo l’impugnazione della parte civile, avesse ritenuto ammissibile la domanda risarcitoria proposta dalla parte civile posta sugli elementi fattuali indicati dall’impugnante (l’avere redatto l’esposto in senso sostanziale). Nel merito, riteneva che la legale fosse responsabile in quanto dagli atti del procedimento penale (dichiarazioni della coimputata e lettera scambiata con il precedente difensore) risultava che avesse condiviso con la sua assistita il contenuto dell’esposto inviato al CSM.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo la ricorrente principale denuncia ex art. 360 c.p.c., n. 3, violazione degli artt. 622627 c.p.p. nonchè degli artt. 392 c.p.c. e ss.; ugualmente, con il primo motivo di ricorso incidentale autonomo la ricorrente incidentale, legale della ricorrente, denuncia la medesima violazione di norme sotto il profilo dell’art. 360 c.p.c., numero 4, qualificandola come violazione di norme processuali. In entrambi i motivi si assume che la Corte d’appello, in sede di giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.c., non abbia adeguatamente considerato l’ampio margine di discrezionalità assegnato dal dictum della Corte di cassazione, espresso nell’ambito dell’annullamento della sentenza per vizio di motivazione, in ciò richiamando cassazione civile numero 12102-2014 in tema di rinvio restitutorio. Entrambe deducono che la Corte d’appello abbia fondato invece la propria decisione su un “inesistente giudicato” in relazione all’elemento oggettivo e soggettivo dell’illecito, in particolare ritenendo accertato il requisito della cosiddetta “carenza di continenza” della critica svolta dai due imputati all’operato del magistrato che, invece, avrebbe dovuto essere vagliata nel merito dalla Corte d’appello in sede di rinvio.

1.1. I motivi dei due ricorrenti vanno trattati congiuntamente in quanto concernono la medesima questione giuridica.

1.2. I motivi sono infondati.

1.3. In caso di cassazione con rinvio per vizio di motivazione (da solo o cumulato con il vizio di violazione di legge), il giudice del rinvio non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma può anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo, in relazione alla pronuncia da emettere in sostituzione di quella cassata, con il solo limite del divieto di fondare la decisione sugli stessi elementi del provvedimento impugnato ritenuti illogici ed eliminando, a seconda dei casi, le contraddizioni ed i difetti argomentativi riscontrati (Sez. 3, Sentenza n. 16660 del 06/07/2017; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 6552 del 05/04/2016; Sez. L, Sentenza n. 12102 del 9/05/2014). La Corte d’appello ha motivato, a pag. 9 della sentenza, sul merito della questione riportandosi ai principi espressi in linea di principio dalla Corte di Cassazione, senza incorrere nelle violazioni processuali denunciate, ed esaminando funditus la vicenda in questione sulla base degli elementi di prova, raccolti nel giudizio penale, portati alla sua valutazione.

1.4. L’enunciato della Corte di cassazione penale elenca le ragioni per cui la denuncia contenuta nell’esposto presentato nei confronti del magistrato ha assunto una portata illecita sia per quanto riguarda l’attribuzione di gravi condotte omissive al giudice nell’espletamento del suo ufficio, sia per quanto riguarda la censura di assenza di imparzialità nella condotta giudiziaria assunta riguardo alle parti, ove le critiche non sono corrispondenti a una c.d. verità putativa. La Corte di cassazione ha ritenuto che la Corte d’appello penale, muovendo dalla fallace attribuzione, alle espressioni usate nello scritto, di un significato ben diverso da quello che ne era proprio, ha valutato il lessico adottato nell’esposto come strettamente connesso al diritto di presentare una denuncia senza neppure interrogarsi sulla veridicità o meno del fatti, se non identificandola inappropriatamente nella reiterata affermazione di emissione di provvedimenti sfavorevoli all’esponente. Il giudizio penale così espresso, a dire della Corte, era perciò viziato da una vistosa carenza motivazionale che ha la sua radice in un’errata valutazione giuridica della portata lesiva dello scritto in questione.

1.5. E infatti, in tema di diffamazione, nella valutazione del requisito della “continenza espressiva”, necessario ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, la giurisprudenza di questa Corte espressasi in sede penale indica che si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur se aspri, forti e sferzanti, non siano meramente gratuiti, ma siano, invece, pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato ed al concetto da esprimere. (Cass. pen Sez. 5, Sentenza n. 4853 del 18/11/2016; Cass. pen. 13735 del 2006 rv. 233986; Cass. n. 48712 del 2014 rv. 261489; Cass. pen. 5695 del 2015; Cass. n. 7244 del 2015; Cass. n. 7715 dè 2015; Cass.pen. 4298 del 2016; Cass.pen. 37397 del 2016;Cass. n. 41414 del 2016) di guisa che va senz’altro riconosciuto il requisito della continenza con riferimento all’art. 51 c.p., così come declinato nella giurisprudenza di questa Corte nel senso che “proporzionati, misurati e continenti sono quei termini che non hanno equivalenti e non sono sproporzionati rispetto ai fini del concetto da esprimere e alla controllata forza emotiva suscitata dalla polemica su cui si vuole instaurare un lecito rapporto dialogico e dialettico. La continenza formale non equivale a obbligo di utilizzare un linguaggio grigio e anodino, ma consente il ricorso a parole sferzanti, nella misura in cui siano correlate al livello della polemica, ai fatti narrati e rievocati” (Cass. pen. Sez. 5, n. 3356 del 27/10/2010), tuttavia senza che tale linguaggio possa sconfinare oltre il concetto da esprimere.

1.6. Orbene, la Corte di cassazione, riprendendo i concetti di cui sopra e riadattandoli al caso di specie, ha formulato il principio in base al quale, in sede di esposto disciplinare nel confronti di un magistrato, l’additarlo come autore di atti viziati da parzialità, perchè improntati a manifesto favore processuale verso una parte e ad atteggiamento negative e di sfavore nei confronti dell’altra, significa negargli il riconoscimento delle qualità essenziali per un giudice: il quale, prima ancora della preparazione professionale, della laboriosità e diligenza, deve porre al servizio della giustizia la sua incondizionata serenità e imparzialità. La critica, espressa in tali termini in ordine al comportamento assunto da un magistrato nell’esercizio delle sue funzioni, pertanto, supera ex se il requisito della continenza richiesto ai fini dell’esercizio del diritto di critica se non è suffragata da fatti obiettivamente riscontrabili e se non è ugualmente controbilanciata dal requisito di verità putativa, affinchè possa dirsi correttamente esercitato il diritto di tutelarsi mediante un esposto all’autorità disciplinare, secondo i principi dettati da consolidata giurisprudenza formatasi in tema di esercizio del diritto di critica (v. anche Cass. pen. 13 giugno 2007, Tortoioli; Cass.pen. 6 giugno 2006, Moncalvo; Cass. pen. 25 febbraio 2005, Ferrara;).

1.7. Integra, quindi, il reato di diffamazione la condotta di colui che invii una missiva gratuitamente denigratoria ad un Ordine professionale in assenza di alcun dato obiettivo di riscontro. Sussiste, infatti, in tal caso il requisito della comunicazione con più persone, considerato che la destinazione alla divulgazione può trovare il suo fondamento oltre che nella esplicita volontà del mittente-autore, anche nella natura stessa della comunicazione, in quanto propulsiva di un determinato procedimento (giudiziario, amministrativo, disciplinare) che deve essere portato a conoscenza di altre persone, diverse dall’immediato destinatario, sempre che l’autore della missiva prevedesse o volesse la circostanza che il contenuto relativo sarebbe stato reso noto a terzi; nè in tal caso può ricorrere l’esimente del diritto di critica, il quale sussiste solo allorchè i fatti esposti siano veri o quanto meno l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente, ancorchè erroneamente, convinto della loro veridicità. (Nella specie si è ritenuto che la missiva, indirizzata all’Ordine dei medici, contenente fatti destituiti di fondamento, e non recante nemmeno la dicitura riservata – personale – ed era destinata, per come formata, ad essere anzitutto conosciuta dagli addetti all’apertura della corrispondenza, cfr. Cass. pen. Sez. 5, Sentenza n. 26560 del 29/04/2014 Ud.,dep. 19/06/2014).

1.8. In tal caso il principio di diritto espresso dalla Corte di cassazione sulla natura oggettivamente illecita della critica rivolta al magistrato nell’esercizio delle sue funzioni, per come è stato formulato nel contesto di un esposto, redatto dalla parte e condiviso dal suo legate, tendente ad avviare un procedimento disciplinare, richiedeva pertanto da parte del giudice del rinvio, ai fini della decisione sulla domanda di risarcimento civile, una valutazione del carattere veritiero o meno, anche solo in termini di verità putativa, dei fatti attribuiti. A tal fine la Corte d’appello ha verificato il carattere non veritiero e “oltre il lecito rapporto dialogico e dialettico”, senza in ciò limitarsi al giudizio in astratto espresso dalla Corte di cassazione in sede di rinvio restitutorio, essendosi il giudizio civile pienamente trasferito in sede civile, senza alcuna preclusione segnata dall’esito del giudizio penale che non è stato nel senso di piena assoluzione degli imputati, essendo stata applicata la norma sulla prescrizione del reato (cfr. Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 15182 del 20/06/2017).

1.9. Pertanto, correttamente la Corte d’appello ha ritenuto di doversi concentrare sulla questione se, in ipotesi, la condotta delle imputate, di per sè già ritenuta illecita e idealmente non conforme al principio di continenza e di pertinenza, fosse stata guidata dalla ragionevole convinzione soggettiva che i fatti corrispondessero a verità, il che è stato escluso sulla base degli elementi riscontrati in fatto e nella piena disponibilità delle parti prima della redazione dell’esposto, da cui poteva evincersi che il giudice si era pronunciato su ogni richiesta e si era posto in posizione di neutralità ed equidistanza nel valutare gli interessi dei due coniugi coinvolti nel giudizio di separazione.

2. Con il secondo motivo la ricorrente principale denuncia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione dell’art. 51 c.p., art. 595 c.p. e art. 2043 c.c. in relazione ad art. 21 Cost. in relazione alla valenza scriminante del diritto di critica e della verità del fatto. Lo stesso motivo è contenuto nel ricorso incidentale autonomo della legale della ricorrente che ha sottoscritto l’esposto. Le ricorrenti principale e incidentale sostengono che il nucleo dell’esposto era nel senso che l’assegnazione della casa familiare al coniuge non affidatario di prole minore si dimostrava contrario a un indirizzo palesemente contrario alla disciplina normativa e alla giurisprudenza consolidata. In secondo luogo, la giurisprudenza penale richiamata in sentenza (caso T. e caso Fe.) sono riferiti al diritto di critica in relazione al diritto di cronaca, e non è conferente al caso di specie. Si sarebbe pertanto disposta una draconiana trasposizione di giurisprudenza in materia di diritto di cronaca, quando in realtà avrebbe dovuto farsi riferimento al diritto di critica. In terzo luogo, la Corte nel suo ragioramento si è soffermata sull’archiviazione dell’esposto che rappresenta un fattore ex post ai fini della valutazione dell’elemento soggettivo dell’illecito.

2.1. I due motivi sono trattati unitariamente in quanto pertengono alla medesima questione.

2.2. Essi sono inammissibili ex art. 366 c.p.c., n. 4 perchè nella loro esposizione non si considera quanto già valutai:o dalla Corte di merito sulla base degli atti del procedimento civile condotto dal giudice denunciato.

2.3. Le censure non tengono conto del principio espresso dalla stessa Corte di cassazione su questo punto attinente alla critica mossa a un giudice, inerente alla mancanza di neutralità e di equidistanza dalle parti (v. sopra, punto 1), e non tanto al contenuto in tesi illegittimo del provvedimento presidenziale portato all’esame del giudice, in riferimento alla quale (critica) la mancanza di verità putativa poteva essere esclusa solo qualora fosse apparso “ragionevole sostenere” che fossero stati commessi dal magistrato atti contrari al suo ufficio o che non si fosse attenuto a un comportamento imparziale. Il diritto di critica deve infatti corrispondere a una verità putativa e la Corte d’appello ha ritenuto che gli atti processuali, nella disponibilità di entrambe le parti imputate, non facessero presumere un comportamento processuale contrario ai doveri di magistrato, senza nulla aggiungere in merito al contenuto del provvedimento presidenziale in contestazione, assunto in limine a una causa di separazione personale in cui, tra l’altro, il giudice investito della controversia si era più volte pronunciato. La controversia separazione personale, poi, si era risolta pochi mesi dopo, con una separazione consensuale tra coniugi con la quale la ricorrente aveva deciso di cedere la quota di sua proprietà della casa coniugale, tutti fatti che smentivano che il magistrato non fosse stato attivo e attento alle circostanze del caso o non avesse provveduto sulle istanze delle parti.

3. Il terzo motivo del ricorso principale e incidentale attengono alla violazione dell’art. 51 c.p.c., coordinato con art. 24 e art. 21 Cost., ex art. 360 c.p.c., n. 3. Anch’essi meritano una trattazione unitaria.

3.1. Il motivo è inammissibile perchè non tiene conto della ratio decidendi di cui sopra: la ricognizione degli atti processuali ha condotto il Giudice di merito a ritenere non verosimili i comportamenti non improntati a neutralità ed equidistanza indicati come essere stati assunti dal magistrato e dunque non ragionevolmente ipotizzabile l’esimente della verità putativa. Tra l’altro la Corte d’appello ha dato conto del fatto che il magistrato aveva chiesto al capo dell’ufficio di astenersi, una volta ricevuta la missiva dalla parte qui ricorrente in siffatti termini, ma il dirigente aveva respinto la richiesta di astensione.

4. Il quarto motivo di ricorso principale e incidentale attengono alla violazione dell’art. 10 con EDU ex art. 360, n. 3 (Radobuljac v. Croatia del 28.06.2016 e Rodrtiguez Raveloc. Spagna del 12.01. 2016), espressasi sulla questione del diritto all’esposto, in cui i precedenti richiamano il principio per cui l’azione diffamatoria deve essere interpretata come intesa a offendere il giudice. L’interpretazione delle norme, pertanto, sarebbe stata riferita ad applicazione di norme interne interpretate in maniera non convenzionalmente orientata.

4.1. La deduzione è astratta e non menziona neanche la ratio decidendi assunta dalla Corte di appello in contrasto con i suddetti principi. Pertanto si rivela inammissibile ex art. 366 c.p.c., n. 4.

5. Il quinto motivo del ricorso incidentale autonomo della legale della ricorrente che ha sottoscritto l’esposto assume la violazione dell’art. 622 c.p.p. e dell’art. 627c.p.c. e degli artt. 394 e 112 c.p.c. in relazione alla ritenuta infondatezza dell’eccezione preliminare della legale con riferimento al rilievo dell’introduzione, nel giudizio di rinvio, di questioni nuove, valevoli come vizio processuale ex art. 360 c.p.c., n. 4.

5.1. Il motivo è inammissibile perchè non si confronta con la ratio decidendi.

– 5.2. La Corte ha giudicato infondata la questione processuale di inammissibilità della domanda svolta nei confronti della legale non solo perchè la stessa Corte di cassazione, nell’accoglimento dell’impugnazione del Pubblico Ministero e della parte lesa, ha implicitamente ritenuto non correttamente motivata l’assoluzione nei confronti della legale che ha redatto l’esposto, rimettendo la questione civile innanzi al Giudice del rinvio, ma anche perchè l’impugnazione della sentenza di assoluzione si basava proprio sul fatto che l’illecito dovesse ritenersi commesso dalla legale che si era assunta la paternità dell’esposto mediante la sua sottoscrizione: sul punto, quindi, non può ritenersi che il giudice non si sia pronunciato sulla eccezione di inammissibilità della domanda, nè che si sia pronunciato extra petita, dimostrando pertanto di aver seguito un corretto iter processuale, sulla scorta di quanto devoluto dalla Corte di cassazione.

6. Con il sesto motivo la ricorrente incidentale denuncia violazione art. 627 c.p.c., comma 2 e art. 339 c.p.c. in relazione all’art. 112 c.p.c. con riferimento ai limiti di devoluzione della causa al giudice dell’appello anche in sede di rinvio ex art. 360 c.p.c., n. 4.

6.1. Il motivo è infondato.

6.2. Nel motivo si denuncia che la Corte d’appello non ha analizzato la motivazione di assoluzione della sentenza di primo grado e che, nell’ambito del giudizio devolutivo che le è proprio, non ha approfondito la questione della responsabilità della legale che si era limitata a sottoscrivere formalmente l’atto di denuncia ai fini della domiciliazione della cliente denunciante. Il motivo resta in parte assorbito da quanto sopra riferito in merito al quinto motivo di ricorso incidentale, ove si è considerato come la questione della responsabilità della legale che ha sottoscritto l’esposto sia stata demandata al giudice del rinvio per effetto della pronuncia della Corte di cassazione che ha accolto l’impugnazione della parte civile e del PG per carenza di motivazione sulla formula assolutoria accolta dai giudici penali nei due gradi di giudizio. La Corte d’appello, quale Giudice del rinvio, ha valutato il profilo di responsabilità della legale nella vicenda in questione, collegata all’assunzione di paternità dell’esposto tramite la sua sottoscrizione, facendo intendere chiaramente che la difesa della legale si è dimostrata fallace sotto il profilo giuridico, non potendo la sua sottoscrizione valere solo ai fini della domiciliazione, posto che vi sono ulteriori elementi di rilievo probatorio (quali la dichiarazione della coimputata e lo scambio delle misssive tra questa e il suo ex avvocato) denotanti che la legale ha fatto proprio – condividendolo – il contenuto dell’esposto.

6.3. Inoltre, in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura neanche un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012 (Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 23940 del 12/10/2017).

6.4. Il motivo inoltre manca del requisito di autosufficienza perchè non riporta neanche le dichiarazioni testimoniali, rese nel giudizio penale, non valutate dal Giudice del rinvio, in grado di scalfire gli argomenti portati in motivazione, e pertanto si dimostra anche inammissibile ex art. 366 c.p.c., n. 6.

7. Con il settimo motivo di ricorso incidentale la ricorrente lamenta violazione dell’art. 192 c.p.p. e degli artt. 112,115 e 116 c.p.c. perchè la Corte d’appello avrebbe tratto spunto dalla corrispondenza tra la coimputata, ricorrente principale, e il suo precedente avvocato come fonte di prova dell’attività professionale effettivamente svolta nella redazione dell’esposto. Ritiene che in realtà le dichiarazioni della Corte di cassazione si limitassero ad affermare che la legale non si poteva ritenere estranea alla vicenda ai fini dell’applicazione della prescrizione. In tal senso mancherebbe un accertamento pieno della sua responsabilità.

7.1. Il motivo è infondato. La Corte di merito ha tenuto conto delle dichiarazioni della coimputata e dello scambio di corrispondenza intercorso tra la coimputata e l’avvocato che l’ha difesa nel giudizio di separazione, tutti elementi di prova da cui ha desunto che la ricorrente incidentale non si era limitata ad acconsentire di fungere da difensore domiciliatario, ma ha condiviso il contenuto dell’esposto esprimendo un comune consenso, in ciò dimostrando un’attività di assistenza legale, e non solo formale.

7.2. Rileva osservare che la preclusione di cui all’art. 192 c.p.p., che esclude l’utilizzo delle dichiarazioni dei coimputati quali fonti di prova a carico dell’imputato, opera solo sul piano penalistico, e pertanto nell’accertamento della sussistenza di determinati fatti il giudice civile può, e deve, liberamente valutare le prove raccolte, in modo del tutto svincolato dal parallelo processo penale. In particolare, l’utilizzabilità o meno delle dichiarazioni rese da imputati in reato connesso è un problema che riguarda esclusivamente le regole che presiedono alla formazione della prova nell’ambito del processo penale, ma non assume alcun rilievo nel giudizio civile, teso a verificare la fondatezza degli addebiti mossi (cfr. Cass. Sez. L, Sentenza n. 8716 del 17/06/2002: nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla S.C., ha affermato la legittimità del licenziamento di un dipendente di un istituto bancario ritenendo che, a fronte delle inequivoche e già di per sè esaustive dichiarazioni accusatorie formulate da un teste, le dichiarazioni rese dagli altri coimputati – seppure non confermate in dibattimento – potessero confermare e corroborare il complessivo quadro probatorio delle condotte di spaccio di sostanze stupefacenti ascritte al dipendente).

7.3. Inoltre il vizio di non corrispondenza tra chiesto e pronunciato espresso nell’art. 112 c.p.c. non può riguardare l’omessa considerazione di elementi o argomenti probatori, potendo tale omissione costituire semmai un vizio di mancata considerazione di un fatto primario o secondario di rilevanza decisiva di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, non specificamente dedotto (v sopra punto 6.3). Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, previsto dall’art. 112 c.p.c., pone piuttosto il divieto di attribuire alla parte un bene non richiesto, o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda, e deve ritenersi violato ogni qualvolta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi identificativi dell’azione (“petitum” e “causa petendi”), attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda. In particolare, dal divieto di pronunciare su un’azione diversa da quella espressamente proposta consegue che è inibito al giudice, con riferimento alla “causa petendi”, basare la decisione su fatti costitutivi diversi da quelli dedotti, ponendo a fondamento della domanda un titolo nuovo e difforme da quello indicato dalla parte (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 27727 del 16/12/2005).

7.4. Tale vizio, pertanto, non attiene all’omessa considerazione di carenza di elementi di prova sotto il profilo penalistico – quale il dolo da diffamazione non rilevante ai fini dell’integrazione dell’illecito sotto il profilo civile. In tema di responsabilità civile per diffamazione, è necessario e sufficiente che ricorra il cd. dolo generico, anche nelle forme del dolo eventuale, vale a dire la consapevolezza di offendere l’onore e la reputazione altrui, la quale si può desumere dalla intrinseca consistenza diffamatoria delle espressioni usate (Cass. Sez. 3 -Ordinanza n. 25420 del 26/10/2017).

8. Con l’ottavo motivo la ricorrente incidentale denuncia violazione degli artt. 2059,2043 e 2697 c.c. in ordine all’assenza di prova di un pregiudizio risarcibile, sull’assunto che il danno non patrimoniale derivante da reato, quando sia determinato dalla lesione di beni di rilievo costituzionale e inviolabili, come il diritto alla reputazione, non costituisca un danno in re ipsa e debba essere allegato e provato da chi ne domandi il risarcimento. Deduce la ricorrente incidentale che nel caso specifico non vi sia stata alcuna diffusione dell’esposto.

8.1. Il motivo è infondato.

8.2. E’ certamente vero che in tema di responsabilità civile per diffamazione, il danno all’onore ed alla reputazione, di cui si invoca il risarcimento, non è “in re ipsa”, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le conseguenze di tale lesione, sicchè la sussistenza di siffatto danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, anche attraverso presunzioni, assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima (Cass.Sez. 3 -, Ordinanza n. 25420 del 26/10/2017; Cass. Sez. 3 – Ordinanza n. 13153 del 25/05/2017).

8.3. Tuttavia, la censura non si confronta con la decisione assunta, ove è stata considerata la gravità dei fatti addebitati al magistrato, che attengono “a qualità che per un giudice sono ancora più importanti della preparazione professionale, della laboriosità e dalla diligenza, e alla diffusione dell’esposto nell’ambiente di lavoro, ove è stata chiamata a fornire per iscritto chiarimenti e notizie al presidente del Tribunale”. In tema di risarcimento del danno causato da diffamazione, la prova del danno non patrimoniale può essere fornita con ricorso al notorio e tramite presunzioni, assumendo, come idonei parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima, tenuto conto del suo inserimento in un determinato contesto sociale e professionale (Cass. Sez. 3 Ordinanza n. 13153 del 25/05/2017). In tal caso, la Corte ha riconosciuto un danno di molto inferiore a quello richiesto, in considerazione degli interessi coinvolti, che non possono essere equiparati alle somme elargite, ad esempio, per la perdita di uno stretto congiunto, ritenendo l’importo liquidato – pari a Euro 20.000 e omnicomprensivo di interessi e rivalutazione – adeguato, nel suo prudente e libero apprezzamento. Difatti la censura può essere considerata fondata solo allorchè non siano indicate le ragioni dell’operato apprezzamento e non siano richiamati gli specifici criteri utilizzati nella liquidazione, poichè in tali casi la sentenza incorre sia nel vizio di nullità per difetto di motivazione (indebitamente ridotta al disotto del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6) sia nel vizio di violazione dell’art. 1226 c.c. (Cass. Sez. 3 – Sentenza n. 22272 del 13/09/2018): il che è da escludere nell’ipotesi in questione.

8.4. Conclusivamente il ricorso viene rigettato, senza liquidazione delle spese, stante l’assenza dal giudizio della parte intimata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso;

nulla per le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 27 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 9 aprile 2019

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