Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9797 del 26/05/2020

Cassazione civile sez. lav., 26/05/2020, (ud. 04/12/2019, dep. 26/05/2020), n.9797

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25647-2016 proposto da:

M.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TUSCOLANA n.

1178, presso lo studio dell’Avvocato NELIDE CACI, rappresentato e

difeso dall’Avvocato GIUSEPPE DANILE;

– ricorrente –

contro

LATERIZI AKRAGAS S.R.L., (già Laterizi Akragas s.p.a.);

– intimata –

avverso la sentenza n. 464/2016 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 27/04/2016 R.G.N. 652/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dal

Consigliere Dott. GUGLIELMO CINQUE.

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. Nella impugnata sentenza della Corte di appello di Palermo, n. 464 del 2016, si legge che la Laterizi Akragas spa aveva proposto opposizione avverso l’atto di precetto di Euro 33.859,85 intimatole da M.G. – in forza del verbale di transazione/conciliazione, stipulato in data 4.2.2000, che recava la promessa della società, a titolo di incentivo all’esodo, di corrispondere al lavoratore l’importo forfettario ed una tantum di Lire 120.000.000 (del vecchio conio)- contestando la forza esecutiva del suddetto verbale in relazione alla somma richiesta, di incerta quantificazione con riguardo al lordo o al netto degli oneri fiscali, nonchè con riferimento alla consistenza della maggior misura del carico fiscale degli importi rispetto a quelli che, in quanto assoggettati a tassazione separata, erano stati versati quale sostituto di imposta, salva rivalsa nei confronti del lavoratore sostituito.

2. In particolare, la conciliazione prevedeva che la società corrispondesse la somma di Lire 120.000.000 di cui, quanto a Lire 30.000.000 al momento della sottoscrizione, e il restante importo di Lire 90.000.000 alle scadenze precisate nell’atto dal 31.3.2000 al 30.11.2000.

3. Le questioni giudiziali sollevate con l’opposizione riguardavano se l’importo di Lire 120.000.000 dovesse considerarsi al lordo o al netto degli oneri fiscali e se la ritenuta operata dalla società, in relazione alle somme versate, di importo ridotto fosse errata per cui era legittima la richiesta di differenza, indicata nell’atto di precetto relativamente alla ritenuta di corretto ammontare effettivamente dovuta con riguardo alla posizione del lavoratore.

4. Nel contraddittorio delle parti l’adito Tribunale di Palermo accoglieva l’opposizione ritenendo che, dalla lettura della scrittura conciliativa, le somme concordate dovevano reputarsi quantificate al lordo degli oneri fiscali.

5. Proposto appello da M.G., la Corte di appello di Palermo, con la sopra indicata sentenza, precisava che: a) dal significato da attribuire alle dichiarazioni negoziali trasfuse nella scrittura doveva considerarsi determinato come “netto” e non “al lordo” delle imposte, soggette a ritenuta da parte del datore di lavoro tenuto a versarle all’erario quale sostituto di imposta; b) ciò tuttavia non spostava i termini del problema nè sotto il profilo della legittimità dell’intimato precetto, trattandosi comunque di obbligazione pubblicistica esposta nei confronti dell’erario e non direttamente azionabile da parte del privato, nè sotto il profilo della aliquota giuridicamente applicabile (media come richiesta dal lavoratore, o minima come effettuato dalla società, rilevante unicamente per il risvolto patrimoniale costituito dalla perdita economica ricaduta sul contribuente -lavoratore, destinatario di una cartella esattoriale nascente dalla liquidazione definitiva dell’onere fiscale, chiamato a versare una differenza di imposta dallo stesso non dovuta in conformità dei patti stipulati) perchè ciò che assumeva rilevanza era la circostanza che non era stata fornita la prova del pregiudizio in concreto patito in quanto non era stato documentato l’esborso sofferto a causa dell’inadempimento di controparte.

6. Concludeva, pertanto, la Corte di merito affermando che, in parziale riforma della sentenza di prime cure, fosse rigettata anche la domanda di condanna formulata dall’opposto nella memoria di primo grado.

7. Avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per la cassazione M.G., affidato a tre motivi, successivamente illustrati con memoria.

8. L’intimata società non ha svolto attività difensiva.

9. Il PG non ha rassegnato conclusioni scritte.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Con il primo motivo parte ricorrente denuncia la violazione dell’art. 474 c.p.c., in combinato disposto con gli artt. 1362 c.c. e ss e D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 3, 16 (17) nonchè D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 23 e 64 ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè la Corte territoriale, pur avendo affermato la correttezza della tesi sostenuta in sede di appello, limitatamente al fatto che l’importo di cui al verbale di conciliazione dovesse essere inteso al netto degli oneri fiscali e che l’aliquota da applicare alla società, quale sostituto di imposta, doveva essere tale da garantire l’attribuzione di un importo netto a quello pattuito, aveva tuttavia erroneamente escluso la legittimità del precetto intimato sia per la ravvisata natura pubblicistica della obbligazione intercorrente tra sostituto di imposta ed erario e non direttamente azionabile da parte del privato creditore, sia sotto il profilo della liquidità della pretesa erariale non avendo ritenuto provato l’esborso richiesto con la cartella esattoriale che costituiva il pregiudizio economico patito. Si deduce, quindi, in sintesi, che la sentenza impugnata aveva errato nel ritenere non compreso nel titolo esecutivo il diritto di agire esecutivamente per conseguire l’importo netto convenuto attraverso la corretta quantificazione dell’importo lordo corrispondente e attraverso la sua acquisizione coattiva e assoggettamento a commisurata imposizione fiscale, secondo l’assetto contrattualmente voluto.

2. Con il secondo motivo si censura la violazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, per non essersi la Corte di merito pronunciata in conseguenza della mancata considerazione o del travisamento della istanza giudiziale avendo affermato che “il lavoratore non aveva fornito la prova del pregiudizio in concreto in quanto non aveva documentato l’esborso sofferto a causa dell’inadempimento di controparte”, sulla domanda avanzata in via subordinata di condanna della società al pagamento delle somme portate dal precetto per residuo TFR netto e residua imposta corrispondente al TFR netto, non valutando che la condanna all’adempimento era fondata sulla obbligazione nascente dall’accordo conciliativo e non da un ipotetico diritto al ristoro o alla ripetizione per esborso.

3. Con il terzo motivo si deduce la violazione dell’art. 91 c.p.c. perchè “in considerazione del rilievo che le spese avrebbero dovuto seguire la soccombenza, appare degno di cassazione anche il capo relativo alla compensazione delle spese di giudizio”.

4. Il ricorso non è meritevole di accoglimento come già deciso da questa Corte (sentenza n. 23296 del 2018), in fattispecie sovrapponibile a quella per cui si procede, con argomentazioni pienamente condivisibili.

5. I primi due motivi, da valutarsi congiuntamente in quanto connessi, non sono fondati.

6. Deve premettersi che, come riconosciuto dalla stessa parte ricorrente, la Corte di appello ha disatteso la motivazione assunta dal Tribunale ritenendo che dal contenuto dell’accordo transattivo dovesse desumersi che l’intento dei paciscenti fosse quello di assicurare al lavoratore l’incasso della somma netta di Lire 90 milioni che era stata concordata.

7. Costituisce orientamento consolidato di questa Corte nella materia in esame quello secondo il quale le ritenute fiscali non possono essere detratte dal debito per differenze retributive, giacchè la determinazione di esse attiene non al rapporto civilistico tra datore e lavoratore, ma a quello tributario tra contribuente ed Erario, e dovranno essere pagate dal lavoratore soltanto dopo che questi abbia effettivamente percepito delle differenze retributive dovutegli (Cass. n. 19790 del 2011; Cass. n. 3525 del 2013; Cass. n. 21010 del 2013; Cass. n. 18044 del 2015). Solo in tale momento, infatti, il lavoratore le vedrà assoggettate a tassazione, secondo il criterio cd. di cassa e non di competenza, facultato oltretutto a scegliere modalità di applicazione più favorevoli in rapporto al carattere eccezionale della fonte di reddito nel caso concreto (Cass. n. 21010 del 2013).

8. Ne consegue che corretta è la valutazione operata dal giudice di merito, secondo la quale l’obbligazione tributaria non intercorre tra lavoratore e datore di lavoro, ma tra questi e l’Erario: il lavoratore può dunque agire nei confronti del datore di lavoro per l’adempimento dell’obbligo che questi si sia eventualmente assunto di tenere indenne il dipendente dai pesi fiscali (come la Corte di merito ha ritenuto nel caso in essere stato pattuito), solo dopo che vi sia stata da parte dell’erario o nella sede tributaria competente la precisa determinazione del dovuto.

9. Nel caso, la Corte riferisce che l’azione erariale di recupero è stata gravata dai due gradi di ricorso tributario e che il ricorrente non ha dimostrato avere pagato all’erario quanto da lui richiesto al datore di lavoro con l’intimato precetto, e la correttezza di tali affermazioni non è stata revocata in dubbio, sicchè in definitiva l’asserito creditore neppure ha allegato l’inadempimento o l’inesatto adempimento (allegazione su di lui gravante cfr. Cass. n. 13533 del 2001) non risultando che vi sia stata nella sede competente l’esatta determinazione di quanto dovuto al fisco sull’importo convenuto in transazione, nè che vi sia stata una effettiva insufficienza degli importi già versati dal datore di lavoro a titolo di sostituto di imposta, nè tanto meno che vi sia stato per lui un danno.

10. Il terzo motivo è inammissibile perchè con esso non viene denunciato uno dei vizi tipici previsti dall’art. 360 c.p.c., bensì si chiede che venga cassata la sentenza anche nella parte in cui era stata disposta la compensazione delle spese di lite, dovendo le stesse seguire la soccombenza accertata sulla base della fondatezza dei primi due motivi.

11. Trattasi, infatti, di valutazione eventualmente da adottare dal giudice di rinvio quale conseguenza del riesame dell’impugnazione e non di statuizione da affermare in sede di legittimità.

12. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.

13. Nulla va disposto in ordine alle spese del presente giudizio, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

14. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla spese. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 4 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2020

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